Per lo Speciale dedicato ai trent’anni di vita editoriale di Dylan Dog, abbiamo chiesto ad alcuni autori di spicco del panorama letterario italiano di scrivere una serie di articoli e approfondimenti dedicati all’“old boy“. È il turno dello sceneggiatore Alberto Ostini, che analizza il ruolo culturale delle storie di Dylan Dog e il contesto sociale che le ha accolte.
Tiziano Sclavi o della resistenza culturale
1986. Le massaie italiche, tra una lasagna e un bucato a freddo, si stordiscono con dosi massicce di mandarinetto Isolabella e con le soap-opera che Rete4 sforna a nastro: Sentieri, Febbre d’amore, General Hospital…
Contemporaneamente Marco Predolin risveglia i primi afrori erotici televisivi con Il gioco delle coppie, un imberbe Paolo Bonolis duetta con un pupazzo rosa di nome Uan e sulla rete ammiraglia Fininvest l’inossidabile Mike nazionale dispensa milioni (di lire) battibeccando con il corvo Rockfeller.
La cannibalesca armata dei teleimbonitori che annovera tra le sue fila anche Marco Columbro, Claudio Lippi, Iva Zanicchi, Corrado Tedeschi, avanza inesorabile lungo le frequenze. Con un sorriso implacabile stampato in faccia dissoda e fertilizza il terreno sociale, preparandolo per la discesa in campo dell’unto del signore che verrà, gettando le basi per una gigantesca opera di trasformazione del paese, uno tsunami antropologico di cui Pasolini aveva previsto l’avvento.
In quello stesso anno, forse non con la stessa lucidità critica di PPP, ma io immagino con affine sentire di fronte a quell’orrore avanzante, Tiziano Sclavi manda in edicola un potente antidoto al nulla plastificato – ma molto ben confezionato – di cui eravamo diventati (in)consapevoli consumatori.
Dylan e Sclavi non ci stanno. Ci dicono che c’è un’altra faccia della medaglia, un lato oscuro della luna nascosto dai fari ipertrofici da 2000 watt di cui riverberano gli studi tv. Ci ricordano che è nel buio, nei recessi più oscuri che va cercata quella verità sgradevole che i luccicanti anni 80 si sforzano di nascondere dietro una cortina di euforia collettiva.
La tv commerciale ha eletto la piccola e media borghesia a protagonista, ma col solo scopo di spremerla di averi e di quella poca umanità che il dopoguerra e il boom economico le avevano lasciato in eredità. Un lascito destinato ad andare dilapidato molto rapidamente, inseguendo l’accumulo compulsivo di beni superflui con un sorriso ebete dipinto in volto.
La borghesia è rimasta piccola piccola, come già magistralmente affrescato da Monicelli qualche anno prima.
Le chiavi di lettura e gli stili sono diversi, ma i mostri di Sclavi, quelli veri, non sono poi così difformi da quelli di Risi.
Sclavi ha molti altri meriti. Quello di avere liberato il linguaggio bonelliano da una rigidità eccessiva che lo ingessava, quello di aver costruito una galleria di comprimari indimenticabili, quello di essere riuscito a far convivere la necessità della “storia” – intesa come struttura narrativa – con la sua stessa disgregazione, salvaguardando l’anarchia libertaria di un certo fumetto degli anni settanta1, ma trasportandola all’interno di un fumetto popolare da centinaia di migliaia di copie. Impresa apparentemente folle e impossibile.
Ma il merito maggiore di Sclavi, quello di cui io gli sono personalmente più grato, è proprio questa sua forma di resistenza – o meglio di resilienza – culturale.
Dylan inteso come prodotto editoriale era un salmone che nuotava controcorrente. Dylan inteso come personaggio idem. E Sclavi con il suo sottrarsi ai riflettori nell’epoca in cui essere di fronte a quegli stessi riflettori era sinonimo di successo, col suo vivere, al contrario, in un cono d’ombra che era rifugio e insieme tormento personale, pure.
Ma non era l’unico.
Centinaia di migliaia di lettori si riconoscevano in quel personaggio. Che non era antimoderno tout court, ma che si ribellava, fragile e ostinato, alla tirannia di una modernità stupida, vanesia che ci voleva ridurre tutti a semplici consumatori, obbedienti, obnubilati e (in)felici.
Sclavi e Dylan andavano assieme alla radice delle cose, frugavano negli angoli bui della società come in quelli della nostra mente e della nostra anima. Sono rimasti umani, sporchi, laceri, sanguinanti nell’epoca dei veri zombi, quelli rampanti e griffati della Milano da bere.
Penso per esempio a Moebius e alla sua famosa dichiarazione a proposito de Il garage ermetico: “Non c’è nessuna ragione perché una storia sia come una casa con una porta per entrare, finestre per guardare gli alberi e un caminetto per il fumo. Si può immaginare una storia a forma di elefante, o di campo di grano o di fiammella di un fiammifero”. ↩