Tre sono le ricorrenze
Il trentunesimo albo speciale di Tex, dal titolo Capitan Jack, può essere considerato un crocevia di ricorrenze.
È in primis, con molta probabilità, l’ultimo lascito narrativo di Sergio Bonelli che vede la luce su un albo a fumetti della casa editrice. E ne viene fuori un racconto di matrice tipicamente nolittiana, nel senso che immagina una storia che va a innestarsi su un fatto storico realmente accaduto: la guerra tra l’esercito statunitense e la tribù indiana dei Modoc guidata dal loro capo Kintpuash (il Capitan Jack che dà il titolo al Texone). E il marchio di Guido Nolitta riverbera anche nei toni tragici e crepuscolari tanto delle cronache storiche quanto della vicenda narrata nel fumetto.
Seconda ricorrenza è la presenza ai disegni della storia di un maestro del fumetto mondiale, Enrique Breccia, che per la prima volta si cimenta con la figura del ranger bonelliano. Il disegnatore argentino, rispettando una promessa fatta a Sergio Bonelli poche settimane prima che le sue condizioni di salute si aggravassero, regala ai lettori una maestosa interpretazione di Tex mettendo la sua arte al servizio del personaggio senza tradire la propria indelebile cifra stilistica.
In ultimo, questo Texone segna anche l’esordio come sceneggiatore di Tito Faraci nella collana degli albi speciali. Allo scrittore milanese – già da tempo in pianta stabile nella squadra di autori della testata mensile di Tex – va riconosciuto il merito, da una parte, di avere assecondato l’idea di Sergio Bonelli senza tradirne lo spirito e di avere lasciato briglia sciolta all’estro creativo e narrativo dei disegni di Breccia; dall’altra, di essere stato capace di scrivere una storia che andasse a inserirsi e a riempire gli spazi vuoti delle cronache riportate dai libri e dai documenti, donando a Tex e a Kit Carson un ruolo fondamentale nella risoluzione della vicenda, senza però contraddire quanto realmente accaduto.
In questo, l’escamotage narrativo che spiega l’assenza dell’operato dei due ranger dalle cronache storiche è esempio dell’efficace lavoro di scrittura di Faraci.
Il difficile ruolo di capo
Capitan Jack racconta la fase conclusiva della vicenda dei Modoc, popolazione indiana che, a differenza di altre tribù di nativi americani, a più riprese cercò l’amicizia e l’integrazione con i coloni bianchi statunitensi, su spinta del proprio capo Kintpuash, uomo buono e assennato che tentò sempre il dialogo con gli “invasori” dei territori del suo popolo.
Purtroppo anche lui dovette scontrarsi con le false promesse fatte a più riprese dal governo statunitense che alla fine lo portarono allo scontro aperto con l’esercito, anche a causa del comportamento criminale di alcuni suoi guerrieri che Kintpuash non smise mai di condannare, ma che allo stesso non rinnegò mai.
Fu questo suo comportamento, sempre diviso tra i doveri verso il suo popolo e il tentativo di cercare una convivenza pacifica con l’uomo bianco, che segnò il destino di questo capo, spesso ambiguo e capace di spietati gesti efferati come di atti di grande pacifismo e solidarietà.
Su questo canovaccio storico, già di per sé affascinante, Tito Faraci innesta la vicenda di Tex e Carson che, per mantenere la promessa data sul letto di morte di un loro caro amico e collega ranger, si mettono sulle tracce di un gruppo di Modoc rinnegati fino a trovarsi coinvolti nella battaglia tra indiani ed esercito che si svolge nei Lava Beds, una distesa di caverne e crepacci dall’aspetto lunare dove Kintpuash aveva fatto rifugiare la sua gente. Tex, come sempre, pone il suo operato alla ricerca della verità e della giustizia e tutto questo lo porta tanto a scontrarsi con i rappresentanti dell’esercito statunitense quanto a incontrarsi con Capitan Jack, diventando il motore – occulto alla Storia – dell’epilogo della guerra dei Modoc.
L’efficacia di poche parole…
Come ci ha raccontato nell’intervista concessaci, Tito Faraci ha preferito non essere invasivo nella narrazione, giocando per sottrazione, lavorando sui dialoghi per renderli asciutti ed essenziali, lasciando che fossero le immagini e la capacità artistica di chi le realizzava a parlare ai lettori.
Seppur defilata dunque, l’impronta dello sceneggiatore milanese lascia comunque il segno nella gestione e nella caratterizzazione dei personaggi, da quello femminile dell’indiana Winema, ai vari soldati e ufficiali dell’esercito, fino a Capitan Jack, la cui ambiguità e il tormento interiore riescono comunque a emergere senza essere approfonditi.
Forse proprio il capo indiano alla fine non risulta essere un personaggio messo propriamente a fuoco, ma il sacrificio di introspezione psicologica che avrebbe necessitato di pagine di riflessioni e dialoghi è stato, come ci ha raccontato Faraci, voluto per far risaltare altri aspetti della vicenda che i disegni avrebbero valorizzato, e alla fine questa scelta è capibile e condivisibile.
Perché quando hai accanto un maestro come Enrique Breccia la cosa migliore da fare è proprio quella di lasciare campo aperto alle sue immagini e ai suoi disegni capaci di raccontare, da soli, una storia e, all’interno di essa, tante altre vicende.
…e la potenza delle immagini
L’artista argentino fa un lavoro impressionante per tutte le 223 pagine della storia, mantenendo una qualità grafica e narrativa di altissimo livello. Breccia è qui al suo primo confronto con la griglia bonelliana e, da maestro, non la rinnega bensì la usa come strumento per declinare il suo stile in modi nuovi, senza mai stravolgere in nessun passaggio la sua cifra grafica.
È così che in molte sequenze alla rigidità della gabbia sovrappone una pioggia di foglie che travalicano i bordi delle vignette, scivolando dall’una all’altra. La loro funzione pare essere quella della piuma di Forrest Gump, cioè guidare lo sguardo del lettore da una vignetta all’altra, seguendo il racconto con fluidità.
Ma quei segni simboleggiano anche il suo “uscire” dalla gabbia, la sua firma, il suo modo di raccontare che, seppur diverso, non si sovrappone al linguaggio bonelliano ma cerca di amalgamarsi con esso.
Viene in mente, guardando le tavole dove abbiamo la presenza di questa pioggia di foglie, un altro Texone, quello firmato da Magnus, a cui questo di Breccia si affianca per riuscita e livello qualitativo.
Ne La Valle del Terrore anche Roberto Raviola aveva lavorato moltissimo sulla restituzione dello scenario naturale e le foglie erano un elemento molto presente nelle tavole, lì quasi più una sorta di tatuaggio sui personaggi, con la loro ombra che si rifletteva su facce e corpi.
La firma di Breccia la ritroviamo anche nei personaggi, in tutti quanti nessuno escluso: le loro bocche, i nasi, gli occhi e soprattutto le espressioni, a cominciare da quelle stravolte, quasi al limite della follia che spesso accompagnano i volti degli ufficiali statunitensi, a cui si contrappongono la tranquillità, la serenità e l’impassibilità che contraddistinguono Capitan Jack, Tex e Kit Carson.
Proprio quest’ultimo, più del suo pard, è la summa del segno brecciano, specie nei profili in cui viene rappresentato, dalle sopracciglia scendendo verso occhi, naso, barba e pizzo mefistofelico.
Ancora, la presenza ripetuta dei rapaci in molte delle tavole della storia è un’intuizione del disegnatore che amplia uno spunto dello sceneggiatore facendolo diventare un elemento narrativo importante del racconto. La presenza degli animali serve a rafforzare la presenza della natura – elemento fondamentale nei racconti della frontiera, da sempre amati da Breccia – e allo stesso tempo lo scontro tra prede e predatori diventa un parallelismo con le vicende conflittuali tra i nativi indiani e l’uomo bianco invasore, simbolo premonitore del destino della nazione indiana.
In ogni tavola Breccia gioca nell’alternanza tra primi piani dei volti, scene corali e zoom su particolari come una mano che stringe le briglie o nell’atto di cambiare le cartucce alla pistola: piccoli particolari che raccontano un mondo e che dimostrano l’estrema capacità del disegnatore argentino di raccontare una vicenda affidandosi all’efficace resa recitativa dei corpi dei personaggi.
Il vertice qualitativo Breccia lo raggiunge nello scenario onirico e quasi surreale che accompagna i personaggi durante la battaglia nei Lava Beds avvolti dalla nebbia. Sono intere tavole di sparatorie e combattimenti – elemento tipico e abbastanza ricorsivo delle storie texiane di Faraci – che Breccia riesce a rendere avvincenti e mai ripetitive attraverso una sapiente regia che si focalizza alternandosi su Tex e Carson, gli indiani e i soldati dell’esercito, saltando fluidamente da un punto di vista all’altro senza mai generare confusione nel lettore e permettendogli di avere sempre una chiara visione di tutto ciò che sta succedendo.
La resa grafica della nebbia, delle ombre in cui trasforma i vari protagonisti e dello straniante paesaggio che crea attorno a loro hanno una potenza e un impatto visivo rari.
Capitan Jack è una tra le migliori storie di Tex degli ultimi anni, una di quelle che giustifica l’esistenza di una collana di formato e dimensione dei Texoni – come lo furono quelle di Guido Buzzelli, Magnus e Joe Kubert in passato –; una storia dove idea, soggetto, sceneggiatura e disegno trovano un equilibrio perfetto, con un Tito Faraci capace di sollevarsi sulle spalle di due giganti come Sergio Bonelli ed Enrique Breccia.
Abbiamo parlato di:
Tex Albo Speciale #31 – Capitan Jack
Sergio Bonelli, Tito Faraci, Enrique Breccia
Sergio Bonelli Editore, giugno 2016
240 pagine, brossurato, bianco e nero – 6,50 €
ISSN: 977112365500260031