Stefano Casini, tra passato e futuro

Stefano Casini, tra passato e futuro

In occasione dell’uscita per Tunué de “Gli anni migliori”, abbiamo intervistato Stefano Casini, che ci ha raccontato del suo modo di raccontare delle storie in bilico tra il passato nostalgico della sua ultima opera e il futurismo di una serie come Nathan Never.

Stefano Casini è diplomato alla Scuola Superiore di Industrial Design e ha collaborato come grafico prima di approdare alla Sergio Bonelli Editore. Ha vinto numerosi premi tra cui le Crayon d’Or come miglior disegnatore in occasione de La Bulle d’Or di Brignais (Lione), il Referendum ANAFI, il Premio Fumo di China come migliore autore completo, il premio Coup de Coeur a Illzach, il Gran Premio Autori ed Editori alla Migliore Storia Lunga in occasione della manifestazione Fullcomics di Sarzana.

Gli abbiamo rivolto alcune domande in occasione della pubblicazione, con Tunué, del suo ultimo graphic novel, Gli anni migliori.

INTERVISTA A STEFANO CASINI

Quanto c’è di autobiografico nel protagonista de Gli anni migliori? Se è un tuo ritratto come mai hai deciso di lasciare fuori l’argomento fumetto e disegno?
Sgombriamo il campo da ogni tipo di dubbio, non è una mia autobiografia. È, o almeno tenta di essere, l’affresco di un periodo, il racconto di un momento della vita di ognuno di noi che è quello dell’adolescenza, un momento importante e bello ma che può essere anche terribile e doloroso, fatto di dubbi, paure e incertezze, ma dove si creano le basi per quello che saremo e lo sconfinamento dalla gioventù all’età adulta. Questi almeno sono stati gli intenti, bisogna vedere se sono riuscito a renderli plausibili.
Inserire la passione del disegno avrebbe personalizzato troppo le caratteristiche del protagonista che volevo rimanesse più generico possibile, anche se è il resto, l’ambientazione, il contesto e le atmosfere sono molto precise, perfino datate.

Con che voce ti piace descrivere il passato, con quella dei tempi che racconti o con quella contemporanea?
Uso voci diverse, in ogni personaggio cerco di dire alcune cose attraverso la loro voce e senza snaturare la loro psicologia, inserendo il mio pensiero all’interno dei dialoghi. Diciamo che Gli anni migliori è un’opera polifonica che vorrebbe ottenere il risultato di creare le atmosfere del periodo, descrivendo un momento particolare che solo a più voci può essere credibile, perché è nell’assemblaggio del tutto che si può comprendere l’affresco del periodo storico.

Quanto incidono le tue esperienze personali, il tuo “vecchio” te stesso, nel rivedere e ridare senso ai fatti del passato?
Scrivere il passato senza tenere conto di ciò che siamo adesso credo sia una pratica impossibile, non puoi tornare all’ingenuità del tempo, quando – se non l’hai persa del tutto – non è più nella stessa forma dei tuoi sedici anni.
Puoi cercare di essere te stesso nel taglio che riesci a dare alle situazioni, fare delle affermazioni attraverso alcune didascalie, ma lo stesso racconto di fatti che magari hai vissuto personalmente, non hanno più il sapore di quel periodo, il tempo li ha reinterpretati alla luce delle tue nuove esperienze. Ma puoi cercare di andarci vicino se usi la sincerità come chiave di rilettura.

Scrivere il passato serve a riviverlo, a redimerlo, ad accettarlo, a dimenticarlo o cosa?
Credo che il passato non si possa che accettarlo, perché quel che è stato è stato e rimane immobile all’interno della storia. Può talvolta servire per cercare di interpretare il presente, per capire quali sono le ragioni di ciò che siamo, ma, da qualsiasi angolazione lo osserviamo, resta quel che è. Semmai a emergere è l’indulgenza della nostalgia, che è sempre pericolosa perché ha il brutto vizio di edulcorare ogni cosa.

Che tipo di approccio hai scelto e quale pensi sia più giusto per parlare del passato? Magari quello rigoroso di chi guarda le vecchie foto, visita dei posti, chiede alle persone, oppure quello di chi si lascia trascinare dai ricordi senza chiedersi se siano reali o falsati dal trascorrere del tempo?
Credo che dipenda dal tipo di passato che vuoi raccontare. Se la tua storia non può prescindere da dettagli reali, è anche giusto connotare con precisione fatti e documenti (anche nel mio libro c’è un avvenimento di cronaca che specifica e data il momento storico). Altrimenti, come in effetti ho fatto per tutto il resto, mi sono lasciato andare sull’onda dei ricordi, anche se c’è da dire che certi scorci e certi paesaggi non sono cambiati molto, per cui, per chi abita da quelle parti, non sarà difficile riconoscere alcuni luoghi.

Come gestisci il tuo lavoro quando si tratta di lavorare a un progetto personale e non “popolare” come Gli anni migliori e una serie scritta da altri come può essere Nathan Never?
L’aspetto più evidente è la fase dell’impostazione, il momento della lettura della sceneggiatura per realizzare lo storyboard e cioè quello della visualizzazione della pagina. Perché, quando realizzi la sceneggiatura di un altro, devi interpretare e immaginare la “visione” di un estraneo, anche se tenta di spiegartelo descrivendotela a parole, con il risultato che lo sketch è abbastanza dettagliato e utile per procedere nel definitivo. Quando realizzi lo storyboard su una sceneggiatura tua (e bada bene che io la scrivo come se fosse destinata a un altro), il praticamente copio quello che da tempo ho immaginato per quella scena, praticamente ne risulta quasi uno scarabocchio, sono come appunti, dei segni per capire come fare alcune cose. Perché praticamente la scena è già composta, devo realizzarla ed è solo una questione tecnica.

Se ci sono, quali sono i punti negativi e quali i positivi in questi due tipi di esperienze?
Una è stata propedeutica all’altra.
Io sono nato come disegnatore e soltanto dopo sono diventato un autore. Ma dovendo analizzare più profondamente, diciamo che l’enfasi “artistica” dell’autore rimane più sottotono perché pensa maggiormente al complesso dell’opera che al dettaglio della singola vignetta, si orienta più sulla funzionalità della scena, piuttosto che nella ricerca del gesto e nella ricchezza gratificante e ostentata del disegnatore che solo nella performance grafica trova la sua realizzazione.

È più difficile scrivere o disegnare una storia di alieni futuristici con astronavi spaziali e mostri mutati che combattono a colpi di laser, in una città di infiniti livelli dove le auto volano e i robot camminano per strada, o è più difficile raccontare la strada nella quale vivevamo?
Non c’è dubbio: la seconda.
Disegnare fantascienza è pura invenzione, certo, puoi caricare il tutto con enfasi stando a centellinare i particolari per dare chissà quale spessore a ciò che fai, ma anche nella migliore delle ipotesi sarà sempre un prodotto costruito, magari bene, ma sempre costruito.
Quando disegni il tuo passato in ogni cosa c’è inevitabilmente un particolare, una parte del tuo vissuto, in ogni particolare un sentimento, o un ricordo e se tutto questo lo fai con sincera onestà, difficilmente i due risultati saranno paragonabili.

Intervista realizzata via mail il 17 ottobre 2018

 

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