Luca Enoch è indubbiamente uno degli autori più interessanti del fumetto italiano negli ultimi vent’anni. Dalla metà degli anni ’90 con la sua prima opera importante, Sprayliz, Enoch ha creato un segno inconfondibile – nel tratto e nel montaggio di tavola – che si è perfezionato nelle opere successive. Per questo abbiamo colto l’opportunità di un’intervista che si è aperta grazie a Manuel Enrico, curatore della pagina Facebook ufficiale di Sprayliz (facebook.com/spraylizofficial): un modo per fare il punto con l’autore su vari aspetti della sua vasta produzione fumettistica.
Sprayliz, uscita nel 1992, ha indubbiamente contribuito a cambiare molto nei tempi, nei ritmi, nelle modalità del fumetto d’azione italiano. Com’è nato questo tuo primo seminale progetto fumettistico?
Fu per le linee guida date da Sauro Pennacchioli, all’epoca neo direttore artistico de L’Intrepido. Storie realistiche, ambientate ai giorni nostri, con protagonisti giovani, possibilmente ragazze. E io, che volevo disegnare di guerrieri fantasy e mostri spaziali, mi trovai spinto ad andare oltre le mie passioni letterarie. Del mondo giovanile – a cui io all’epoca già non appartenevo più (avevo 30 anni suonati) – mi affascinava la street art, la frequentazione di spazi culturali auto gestiti e la musica indipendente. Da quell’imbeccata nacque la mia graffitara.
Riletta oggi, in occasione della ristampa Cosmo, dal tuo punto di vista di creatore cosa trovi ancora attuale e cosa invece cambieresti del personaggio, delle sue storie o del suo contesto?
Sprayliz aveva senso in quel periodo, così com’era e non cambierei nulla soprattutto della prima stagione dell’Intrepido, che brillava per freschezza e assoluta mancanza di pianificazione narrativa.
Colpisce come il ritratto della società sembri ancora attuale nonostante siano passati oltre 25 anni, a triste conferma di come la società italiana sia ancora sostanzialmente statica. All’epoca le storie fecero rumore, colpirono nel segno per quanto riguardala critica politica-sociale?
La parte conservatrice e reazionaria di ogni società lavora costantemente per eliminare o indebolire i diritti sociali conquistati a fatica – in nome di una maggior efficienza e maggiore competitività – diritti che quelli della mia generazione si sono trovati belli che acquisiti senza nemmeno sudare. È vero che molti aspetti sociali di oggi assomigliano a quelli di un quarto di secolo fa – e per certi versi sono pure peggiori – ma meno a quelli di 10 anni fa. Nel senso che avanzare di due passi e retrocedere di uno può essere frustrante ma è comunque un progresso. All’epoca il mio fumetto ebbe l’attenzione di pochi media solo per il fatto che la protagonista fosse bisessuale e avesse accanto un personaggio dichiaratamente omosessuale e, nonostante questo, sicuro di sé e vincente. Se fosse stato pubblicato oggi già me le immagino le critiche degli “indignati da tastiera”, le prese di posizione dei difensori della famiglia tradizionale e gli attacchi della nuova destra.
Ci sarebbe spazio oggi per una Sprayliz, per questi messaggi, e come dovrebbero essere veicolati per arrivare ai lettori di oggi?
Ci sto ragionando da diverso tempo insieme al collega Davide Aicardi, all’epoca lettore di Sprayliz. Non potrei proporre un fumetto con protagonista adolescente perché ormai ho delle figlie che hanno l’età di Liz e cosa potrei dire di quel mondo? Piuttosto pensavo a una Liz adulta, sui 35 anni, che fa un lavoro creativo ed è impegnata nel sociale. Con una figlia di 14/15 anni che le fa vedere i sorci verdi e che è completamente calata nella realtà hi-tec e social di oggi. Da quel punto di vista – ovvero da vecchio babbo imbolsito – potrei dire ancora cose interessanti, chissà…
Se Sprayliz è la prima delle tue eroine, con Gea un tuo fumetto approda in Bonelli, mantenendo però la caratteristica di vederti come autore completo tramite una serialità molto diluita, semestrale. Come si è giunti a questa soluzione, inusuale per Via Buonarroti?
Fu una proposta che mi venne direttamente da Sergio Bonelli, che conosceva Sprayliz e mi apprezzava come autore, anche se mi disse senza peli sulla lingua “fammi quello che vuoi ma non Sprayliz!”. Cosa comprensibile per una casa editrice che si definisce popolare. E così fu, feci quello che volevo, una storia fantastica di invasioni da altri mondi, con profughi da altri piani di esistenza, che parlava della nostra realtà più di quanto non sembrasse. La frequenza semestrale fu un’esigenza sine qua non, dato che l’editore voleva un fumetto d’autore.
Un altro progetto per Bonelli è quello successivo di Lilith, con tratti almeno superficialmente simili anche se sviluppati poi in modo radicalmente diverso. Ci sono ragioni, oltre che di “riconoscibilità” per il pubblico, per questa vicinanza stilistica?
Lilith l’ho pensata così per allontanarmi il più possibile da Gea e non solo per l’aspetto fisico. Lilith è un personaggio solitario, che deve abbandonare amori e amicizie a ogni salto temporale e che ha come unico compagno un essere artificiale che non gliela racconta giusta. Gea era un fumetto corale, nel quale i numerosi comprimari avevano una grande importanza nella vicenda e per la crescita della protagonista. Lilith, invece, deve crescere solo con le sue forze, cercando di decifrare gli scampoli di informazioni che le arrivano dei suoi nemici e dalla sua guida.
Se con Gea e Lilith hai realizzato, in Bonelli, storie con forti tratti fantasy ma interamente “autoriali” e tue, con Dragonero hai impostato la serie che ha portato il fantasy in una tradizionale serie della casa editrice milanese. Dato che questo genere, a lungo, è stato quello omesso dai generi del Bonelliano, imbastire la serie ha avuto particolari difficoltà, o ha richiesto particolari accorgimenti?
Semplicemente, a Sergio Bonelli il fantasy non piaceva. Stefano Vietti ed io ci abbiamo messo 15 anni a convincerlo a pubblicare una storia del nostro personaggio. Sergio ci diceva, prendendoci in giro, che aveva rifiutato Conan, ai tempi, e quindi che cosa volevamo noi con il nostro Dragonero? La pubblicazione del primo Romanzo a Fumetti con una corposa storia oneshot probabilmente lo convinse della bontà del nostro approccio al fantasy: una struttura “realistica” e vicina al nostro medioevo, niente personaggi astrusi e mostri inverosimili, un gruppo di personaggi e un ruolo per il protagonista che poteva essere assimilabile al ranger Tex e ai suoi pards. Grazie a questo approccio, siamo riusciti ad avere la prima serie a fumetti fantasy italiana.
Oltre ai tuoi personaggi femminili, in Bonelli hai lavorato anche su Legs di Serra, spinoff di Nathan Never che era stato, nei ’90, un tentativo di una fantascienza meno seriosa, più vicina a certo manga non troppo impegnato. Com’è stata questa esperienza?
Legs Weaver è il personaggio che mi ha permesso – grazie ad Antonio Serra – di entrare in Bonelli dopo quasi un decennio di tentativi frustrati. Era un fumetto divertente da scrivere e divertentissimo da disegnare, in cui il mio tratto ancora poco realistico poteva essere accolto senza stonare in mezzo agli altri disegnatori bonelliani. È stata la serie dove mi sono fatto le ossa come scrittore e sceneggiatore, per questo particolare formato narrativo ed editoriale, e che mi ha permesso in seguito di continuare la mia carriera come “autore unico”.
Ringraziamo di cuore Luca Enoch per la disponibilità e Manuel Enrico per la preziosa intermediazione.
Intervista raccolta via email nel mese di giugno 2018.