A Lucca Comics & Games l’uscita della prima parte di Celestia, la nuova opera di Manuele Fior, era uno degli eventi più attesi e importanti. Una storia che parla di generazioni in contrasto, di telepati ribelli, di roccaforti imponenti, di violenza e forza di vivere. Intervistando l’autore abbiamo cercato di scoprire da dove nasce la sua ispirazione, il suo stile e il suo gusto per l’architettura.
Ciao Manuele e grazie per il tuo tempo. In questi cinque anni da L’intervista come hai guardato al fumetto e al suo mondo?
Leggendo un po’ di tutto, i miei autori preferiti, gli esordienti, con curiosità, come sempre.
Il graphic novel è spesso caratterizzato da racconti di stampo autobiografico. La tua produzione rappresenta però un’eccezione. Anche Celestia conferma questa tua vocazione per la fiction nonostante l’inserimento di episodi a te realmente accaduti. Qual è il tuo rapporto con l’autobiografismo, non solo a fumetti?
Qualche spunto autobiografico riesce sempre a entrare nelle mie storie, ma è solo un cenno, perché dopo qualche vignetta inesorabilmente si deforma, esagera, cambia completamente. Andreina e Raffaella erano due ragazze che al primo anno di università mi avevano preso in simpatia, si prendevano un po’ cura di me. Negli anni successivi non le ho più riviste, avevo come l’impressione di non essermi accorto di qualcosa, forse di una strana relazione che si era venuta a creare tra noi tre. Nel libro le ho trasformate in due prostitute, a loro modo molto amorevoli nei confronti di Pierrot. Se le protagoniste si fossero riconosciute o dovessero leggere queste righe le saluto con molto affetto.
Le tue tavole si caratterizzano per un’estrema meticolosità: ne L’intervista la regia tradiva una forte ispirazione di matrice cinematografica, ma tra le tue ispirazioni avevi citato anche John Romita Sr.. Le tavole di Celestia, con i personaggi dalle espressioni stralunate e accentuate, sembrano invece attingere all’animazione di stampo disneyano. Come decidi, se di scelta si tratta, che tipo di estetica avrà il tuo libro?
Evidentemente non lo decido programmaticamente né intenzionalmente. Prima di disegnare un fumetto, in qualche modo un’idea di forma è già presente nella mia testa, un’idea vaga ma che intercetta un certo cartooning dei personaggi, i paesaggi, le architetture e certe gamme cromatiche. Non lo so come succede ma è così. È come se fosse la cosa più facile nel pensare una storia. Le complicazioni arrivano dopo. È curioso, perché chiacchierando con David Mazzuchelli mi ha detto invece che per lui questa forma di previsione è difficilissima da ottenere, gli richiede un grande sforzo di premeditazione.
In Celestia il bianco non è mai lo sfondo delle tue vignette, al posto del quale, come colore “neutro” usi un giallo pallido, che l’occhio percepisce quasi senza che il lettore se ne accorga. Questo rende le tue vignette simili a dei fotogrammi e regala ai tuoi lavori una personalità inconfondibile. Quanto è importante la “palette” all’interno dei tuoi lavori?
Penso che quel giallino sia la carta su cui lavoro, che non è bianca al 100%. Ho deciso di mantenere quella tonalità, azzerandola avrei raffreddato anche tutti gli altri colori. La palette con cui lavoro parte da delle dominanti per poi espandersi in tante direzioni, secondo l’estro del momento, anche qui senza pensare troppo ma piuttosto ricordando, sognando anche. Ogni tanto arrivo a dei colori a cui non riuscirei a dare un nome, è una cosa che mi riempie di gioia.
Che legame ha la Dora di Celestia con quella de L’Intervista?
È sempre lei, nel senso che si disegna così, anche se per certi versi è molto cambiata, cresciuta forse. O forse in una fase diversa della sua vita. Ma non succede poi a noi tutti?
Cos’è che ti ha spinto a mettere di nuovo al centro della narrazione personaggi con poteri telepatici?
Perché in un certo senso con L’Intervista mi sembrava di aver aperto una porta, il tema della telepatia, che meritava di essere approfondito. È un soggetto vastissimo, in cui ci si concentra spesso solo sul suo aspetto più banale, tipo ‘indovina che carta ho in mano’, una specie di gioco di prestigio. Invece la telepatia può essere qualcosa di molto più ampio, per certi versi esiste già. Un pensiero condiviso istantaneamente con milioni di persone disperse in tutto il mondo, anche se mediato dal computer, è una forma di telepatia. L’elettroencefalogramma è una manifestazione della nostra attività celebrale, è il nostro pensiero che si fa scrittura, anche qui una forma di telepatia. Quando ci innamoriamo di una persona di cui non sappiamo niente, ma ‘sentiamo di averla conosciuta da sempre’ come dice Barthes, usiamo un tipo di pensiero che non ha niente a che vedere con quello che fa la lista della spesa, penso che sia una specie di telepatia. Sono convinto che la telepatia esista e si manifesti in modi che ci passano inosservati, dovremmo fare più attenzione.
Dalle atmosfere e dal mistero che avvolge i personaggi sembrerebbe di calarci in una realtà dura, violenta e non intellegibile. Ci sono somiglianze tra quello che racconti e la realtà in cui i tuoi lavori prendono vita?
Vivo in una città molto dura in effetti, che espone le sue contraddizioni atroci alla luce del giorno. Parigi ha attraversato degli anni terribili, sono quelli a cui ho lavorato a Celestia: penso che tanta di questa violenza e angoscia sia confluita nei miei personaggi, specialmente in Pierrot.
Celestia è Venezia, e la città lagunare è stata spesso usata nel fumetto quale ambientazione di storie che si svolgono in un tempo futuro: mi viene in mente una storia di Nathan Never, uno scorcio efficacissimo che ne dà Max Bertolini nel suo Hangar 66 e, uscendo dal fumetto ma restando nell’illustrazione, non si possono non citare le splendide copertine dei dischi del Rondò Veneziano. Venezia città senza tempo che, per la sua architettura e per la sua urbanistica peculiari, può vivere nel presente o nel futuro senza bisogno di cambiare aspetto: anche per te è così?
Venezia è una città inesauribile per un artista che vuole occuparsene, intercetta talmente tanti aspetti che sei obbligato a trattarne solo alcuni. A me interessava la Venezia bizantina, l’aspetto anarchico del carnevale perenne, la modernità che ancora, nonostante tutto – e ci aggiungo anche i disastri degli ultimi giorni – Venezia continua a incarnare, centro nevralgico dei trasporti e degli scambi, isolata ma connessissima, vista dall’alto come una specie di cervello di calli che risuonano nelle anse della laguna, il trionfo dell’artificio sulla natura, un pensiero dell’uomo diventato pietra. Non credo alla morte di Venezia, Venezia ha un grande futuro davanti a sé.
L’architettura è, come sempre, componente importante dell’ambientazione della storia. Stavolta essa si gioca tutta su architetture di stampo classico che si affacciano sulla “laguna”. L’eccezione è il palazzo dallo stile moderno che compare nel prologo e nella seconda parte del libro: gli interni si ispirano a certe soluzioni di decoro usate da Frank Lloyd Wright (penso, per esempio alla Ennis House). Dopo che ne L’intervista citavi Louis Khan in certe architetture, qui è la volta di un altro maestro del movimento moderno: che cosa ti ha mosso verso questa scelta?
L’amore per l’opera di F. L. Wright e il dispiacere che un progetto come il Masieri Memorial non sia stato costruito, una grande occasione mancata per Venezia. Volevo che almeno nella mia realtà parallela questo edificio fosse presente e abitato dai miei personaggi. L’estate scorsa sono riuscito a visitare diverse case di Wright in California, tra le quali anche la Ennis House. È difficile mettere insieme le parole per spiegare le mie emozioni di fronte alla sua architettura, sono degli spazi talmente carichi di potenza visionaria che mi tremano le ginocchia quando mi ci avvicino. È come se facessero da sempre parte di me, anche se le ho visitate per la prima volta a quarant’anni.
Sulla terraferma gli edifici si presentano colorati in modo vivace e molto più articolati rispetto all’austera monumentalità lagunare: che ruolo assume la strutturazione degli spazi architettonici in questa parte della storia?
Sulla terraferma ho deciso di immaginare un paesaggio drasticamente modificato, una specie di incastellamento medioevale. C’è una certa corrispondenza tra l’invasione dei barbari che ha fatto nascere Venezia e questo nuovo medioevo in cui gli abitanti superstiti della terraferma vivono rinchiusi in questi castelli colorati, ce ne saranno altri nel tomo due. Mi sembrava che sulla terraferma potessi spingere sul pedale visionario fino in fondo, cancellare la realtà e andare di pura immaginazione, essere più libero possibile.
Ti sei ispirato a qualche edificio realmente esistente per l’ideazione del complesso architettonico che i due protagonisti trovano sulla terraferma?
Quello e gli altri che arriveranno in seguito sono rimaneggiamenti di architetture esistenti, gli anni ’80 della produzione di Ricardo Bofill sulla costa di Alicante.
Rispetto al formato de L’Intervista, Celestia si presenta in un volume più piccolo, contenuto: è stata una tua scelta o esigenza, o una scelta editoriale “di comodo”?
È stata una scelta editoriale. Quando abbiamo deciso di spezzare la storia in due volumi abbiamo voluto far sì che il prezzo fosse accessibile a tutte le tasche. Chiaramente poi ci sarà un integrale in grande formato che raccoglierà le due parti, ma la mia priorità che è il libro sia letto e apprezzato anche dai lettori più giovani, o da chiunque abbia meno disponibilità.
Il nuovo fumetto di Gipi ha esplicitamente come tema portante il rapporto tra genitori e figli, reali o mancati. Anche il tuo libro ha, almeno in questa prima parte, per protagonisti dei giovani, se non addirittura giovanissimi, che sembrano voler prendere le distanze in maniera decisa dal mondo degli adulti. Trovandosi almeno anagraficamente dalla parte dei matusa, per dirla alla Elio, è un modo per fare auticritica o cosa?
Non ci ho mai pensato a dire il vero. Mio figlio ha solo tre anni, per il momento non mi ha ancora accusato di niente, ma arriverà sicuramente il giorno.
Intervista realizzata via mail a novembre 2019.
Manuele Fior
Nato a Cesena nel 1975, Manuele Fior ha vissuto a Venezia, a Berlino e a Oslo; ora risiede a Parigi. Artista di respiro internazionale, è uno dei disegnatori più apprezzati in Italia e all’estero. Collabora con le sue illustrazioni a riviste come The New Yorker, Le Monde, Vanity Fair, a quotidiani come La Repubblica e Il Sole 24 Ore, a case editrici come Feltrinelli, Einaudi, EL.
Nel 2017 le ha raccolte e commentate ne L’ora dei miraggi (Oblomov Edizioni). Con il graphic novel Cinquemila chilometri al secondo ha vinto il premio Fauve d’Or come Miglior Album al Festival Internazionale di Angoulême 2011. L’intervista (2013) segna il suo esordio nel bianco e nero. Ha inoltre pubblicato Le variazioni d’Orsay (2015) e I giorni della merla (2016), raccolta di racconti brevi. (biografia tratta da https://www.oblomovedizioni.com)