SettantadiTex: Fabio Genovesi, tra la Versilia e il West

SettantadiTex: Fabio Genovesi, tra la Versilia e il West

Fabio Genovesi è uno scrittore di romanzi che sin da piccolo è animato da una grande passione: quella per la lettura dei fumetti. E tra i personaggi a cui è più affezionato c'è Tex Willer.

Fabio Genovesi (Forte dei Marmi, 1974) è uno scrittore, sceneggiatore e traduttore italiano. Ha pubblicato racconti, romanzi, biografie, saggi, sceneggiature e ha tradotto autori statunitensi. Nel 2015 ha vinto la seconda edizione del Premio Strega Giovani con il romanzo Chi manda le onde entrando nella cinquina dei finalisti del Premio Strega. Collabora con il Corriere della Sera, Glamour, La Repubblica e Vanity Fair. Con Il mare dove non si tocca ha vinto nel 2018 il Premio Viareggio per la narrativa ex aequo con Giuseppe Lupo.
È anche un grande appassionato lettore di fumetti e di Tex in particolare. E proprio su questi argomenti lo abbiamo intervistato.

Fabio, benvenuto su Lo Spazio Bianco.
Quando e come è avvenuto il tuo incontro (e colpo di fulmine) per il fumetto?
È stato un attacco su due fronti: da una parte li avevo in casa, i fumetti Bonelli li leggeva mio padre: Tex e Zagor, vecchi albi di Capitan Miki e altri, tutti western. E poi in edicola, che è sempre stata per me il luogo dei sogni. Le copertine favolose, i giornaletti, le bustone misteriose con dentro chissà cosa. Ero piccolissimo e quei disegni in copertina mi facevano impazzire, ho imparato prestissimo a leggere e ho imparato perché volevo leggere quelle meraviglie.

Chi sono stati i tuoi eroi preferiti da piccolo e quali sono invece gli eroi a fumetti che frequenti ancora oggi?
Tex appunto, che è stato il primo. Il fumetto del mio babbo, dei babbi tutti. Poi Zagor, che offriva più possibilità narrative coi suoi scenari assortiti. Indiani, alieni, mummie, vampiri, samurai: tutto poteva capitare intorno a Darkwood. Poi però in edicola mi sono imbattuto negli albi della Corno, ed ecco un nuovo amore. Mi basta scriverlo, mi basta pensarlo: “editoriale Corno”, e ancora provo un brivido dentro. Li amavo e li amo, quegli albi con la copertina leggera come l’interno, coi contorni gialli e quel profumo. Soprattutto mi conquistano gli albi giganti, L’Uomo Ragno, i Fantastici Quattro, Devil… ma pure Hulk, Thor, gli X-Men.
Se Tex in un certo senso è mio padre, i supereroi Marvel sono i miei fratelli. Ancora oggi, dovunque sono in giro per la nazione, appena vedo un negozio o una bancarella mi ci tuffo e li compro. Non spendo molto, perché sono l’opposto del collezionista, che cerca le copie immacolate e spesso non le legge nemmeno per non sforzare la costolina. A me piacciono gli albi vissuti, dove il lettore originale ha magari scritto qualcosa, qualche commento, o ha provato pure lui a disegnare. Li compro e li leggo. Tante volte sono indietro con le letture che devo fare per lavoro, per scrivere magari sul giornale o per incontri a festival, perché devo leggere dei fumetti e non riesco a rimandare.

Che cos’è che ti appassiona di Tex? È un legame d’infanzia – quindi un fattore di nostalgia, mai da sottovalutare all’interno di una passione come quella fumettistica – o trovi nel personaggio elementi di contemporaneità che in qualche modo continuano a rinnovare il tuo attaccamento a lui?
La nostalgia è una componente di grande potenza. Se vissuta nel modo giusto, senza pensare che tutto il buono sia ormai alle spalle e prendendo invece da quella bellezza la convinzione che la meraviglia possa esistere ovunque intorno a noi, secondo me è positiva. Tex è appunto la mia infanzia, ma anche se la sua età rimane sempre la stessa posso dire che è cresciuto con me. Le sue storie mi piacciono tantissimo anche adesso, forse per il fatto che i lettori adesso sono quasi tutti adulti le sue avventure sono spesso intense, c’è una forza che le spinge e me le fa amare. Faraci, Ruju, il maestro Mauro Boselli e i pochi altri che hanno l’onore e il merito di scriverle, mi regalano tanta emozione ogni mese. L’orizzonte del west potrebbe essere per le avventure di Tex un confine molto limitante, eppure così si obbligano gli sceneggiatori a lavorare con pochi elementi che sono primitivi, diretti, fondamentali. E questo fa in modo che le storie, invece di risultare datate, vivano di quei sentimenti senza tempo che le rendono eterne.

Suddividendo grossolanamente la storia di Tex nelle ere dei suoi curatori – GL Bonelli, Claudio Nizzi e Mauro Boselli – qual è quella a cui sei più affezionato e quali sono le storie del personaggio a cui sei maggiormente legato?
A tutte, ma dovendo scegliere vado per la prima, di Bonelli Senior con la sua carica di coraggio pionieristico, e per la attuale di Boselli, con la sua tendenza visionaria che mi fa impazzire. C’è costante nella storia di Tex la passione sincera di chi lo cura, e questo è fondamentale. Si sente proprio, quando apri l’albo, giuro che si sente.

Che cosa ti piace nel Tex contemporaneo e se, ipoteticamente, fossi tu a scrivere una storia del personaggio, che cosa gli faresti fare di diverso – se glielo faresti fare – rispetto a quello che leggi nei suoi albi?
Non saprei. Tex ha delle regole di ferro, e violarle sarebbe ucciderlo. Forse, invece di stravolgerle, si potrebbe forzarle un po’ ogni tanto: Aquila della Notte non sbaglia mai, non ha dubbi e non cede a nessuna tentazione. Magari potrebbe succedere qualcosa in quella direzione, ma sinceramente il primo a non volerlo sarei io. Per queste cose c’è il suo pard Kit Carson, che adoro, da Tex vogliamo altro, vogliamo che sia Tex.

Lo scrivere una sceneggiatura per un fumetto è un lavoro molto diverso dallo scrivere un romanzo in prosa, più tecnico potremmo dire, finanche meno solitario visto l’obiettivo dello scrivere per un disegnatore che poi dovrà illustrare la sceneggiatura. Hai il desiderio di cimentarti in futuro con questo tipo di scrittura o preferisci vivere il fumetto da appassionato lettore?
Credo che ognuno debba fare quello in cui è bravo. Non è detto che se sai scrivere un bel romanzo saprai scrivere un bel fumetto, anzi sono consapevole che ci sarebbero un milione di problemi da affrontare. Una struttura inevitabilmente più rigida, limiti di spazio e tempo, e soprattutto l’avere a che fare col disegnatore, mentre il romanzo è davvero l’opera più solitaria che possa immaginarmi. Io sono un solitario, amo lavorare da solo, viaggiare da solo, andare al cinema da solo. Scrivere un’avventura di Tex, al solo pensiero mi cresce dentro un’emozione che spaesa, ma al tempo stesso avrei troppa paura di non essere all’altezza. Per cui è molto più rassicurante continuare a leggerlo e ammirarlo. Insomma, avrei paura a dire di sì, ma al tempo stesso non saprei dire di no.

Molti dei tuoi romanzi sono ambientati nella provincia toscana, in Versilia in special modo – tua terra d’origine. Tu però rappresenti anche una Versilia lontana da quella estiva da tutti conosciuta, un luogo crepuscolare, a tratti anonimo quale pare vestirsi quella terra nelle altre stagioni dell’anno. Da dove nascono quelle storie e che cosa rappresenta per te il tuo luogo di origine da un punto di vista narrativo?
Le storie nascono da quella infinita riserva di fantasia che è la realtà. Niente è più assurdo di lei. A volte sono fatti veri, più spesso c’è una base di verità che accende dentro di me la macchina visionaria e viene fuori qualcosa di diverso. A volte invece è tutto nella mia testa, o nella carne o nella pelle o dovunque sia il posto dove nascono le idee. Le storie insomma sono dappertutto. Mi piace raccontare i posti che conosco, non come una guida turistica o uno storico, ma per costruire una specie di mitologia dei luoghi. Che possa essere avvincente per chiunque, anche per chi non è minimamente interessato a dove sono nato.

Da Esche vive al più recente Il mare dove non si tocca, i tuoi libri raccontano l’infanzia, anche autobiografica, come in Morte dei marmi. La tua scrittura riesce a restituire la prospettiva e la vitalità dei bambini, attraverso un linguaggio semplice che riporta la realtà alla sua essenza senza sbandare nella banalità. Credi che la frequentazione passata e attuale del fumetto abbia avuto un ruolo, nel salvaguardare questa innocenza dello sguardo?
Ha avuto e ha un ruolo fondamentale. Io penso ai fumetti come penso ai film dell’orrore e ai film di genere anni Sessanta-Settanta-Ottanta e come penso alla musica heavy metal: è tutta una enorme passione dentro di me, un miscuglio che ribolle e mi ruba il respiro e mi mette la voglia di alzarmi dal letto e tuffarmi ogni giorno in questa sfrenata storia a fumetti che è la realtà. E poi, grazie a queste cose sono ancora vivo, sopravvissuto all’adolescenza. Sono stato un adolescente clamorosamente solitario, non mi interessava quello che facevano tanti miei compagni, le cose che piacevano a loro. Era il periodo dei paninari, li guardavo e mi sembrava di essere un terrestre finito su un pianeta alieno sperso nella galassia. Però avevo pochissimi amici con cui ci capivamo, il giorno andavamo al negozio di dischi o a quello dei fumetti, e la sera arrivati a casa potevo ascoltare e leggere. E ancora oggi provo la stessa emozione. Spesso si dice che la differenza tra gli eroi dei fumetti e i loro lettori è che i fumetti restano giovani per sempre mentre i loro lettori invecchiano. Non sono d’accordo: grazie a certe emozioni restiamo giovani anche noi, restiamo ragazzi. Io quando oggi trovo in vendita su qualche bancarella un albo della Corno, per esempio, provo la stessa emozione di quando li trovavo da ragazzino. E lo prendo. E me lo leggo. E mi verrebbe da scrivere a quelle stupende rubriche della posta, chiedendo se è più forte Hulk o la Cosa, se in uno scontro avrebbe la meglio Thor o l’Uomo Ragno. Me lo chiedo spesso, lo ammetto.

Quella dei Super Devoti, presenti ne Il mare dove non si tocca, è una esilarante trovata, efficace presa in giro di un certo modo di intendere e vivere la religione, e allo stesso tempo una critica alla nostra società, impegnata nella ricerca del talento, meglio se giovane o giovanissimo. Eppure un lettore di fumetti non può non leggervi, tra le righe, una frecciatina ai pomposi supereroi USA. È una lettura un po’ forzata? Qual è il tuo rapporto con quella tradizione fumettistica?
No no, io adoro i fumetti americani! Quelli DC assai meno, quelli Marvel invece mi hanno cresciuto insieme a quelli della Bonelli. Ancora oggi li accumulo. Mi fanno impazzire soprattutto le serie Corno Gigante, l’Uomo Ragno, Devil, i Fantastici Quattro. Ancora oggi sono felice che esca Rat-Man Gigante, che li richiama nell’aspetto (e Ortolani è un grandissimo). Oltre ai Marvel, i fumetti dell’orrore della vecchia EC, quelli sfrenati e tremendi prima del Comic Code, e poi quelli come Uncle Creepy che in Italia chiamavamo Zio Tibia. Sono disperato, perché editori come Panini fanno uscire ristampe favolose, e non è possibile dire di no a nessuna, così il mio conto in banca si prosciuga, e la mia casa esplode di roba. Ma è roba stupenda, e allora viva le esplosioni.

Ringraziamo Fabio Genovesi per il suo entusiasmo e la sua disponibilità.

Intervista realizzata via mail nel mese di giugno 2018

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