Silvia Mericone nasce a Roma nel 1976; due anni dopo, a Palermo, nasce Maria Rita Porretto. Vivono serene per più di vent’anni, fino al giorno in cui fanno la reciproca conoscenza.
A un anno di distanza, Silvia nel 2007 e Rita nel 2008, vincono lo stesso concorso nazionale di racconti brevi ®esistenza – manuale di storie contemporanee e capiscono che non si può sfuggire al destino. Inizia così un sodalizio artistico, che le vede impegnate nei primi anni in collaborazioni con piccole realtà editoriali del teatro (nel 2009 curano una riduzione di Bestia da stile di Pier Paolo Pasolini, rappresentata al teatro Tor bella Monaca, con il patrocinio del comune di Roma), della letteratura (tra il 2009 e il 2010 collaborano con la casa editrice 9muse) e dei fumetti (tra le altre, pubblicano storie brevi per Coniglio editore, nel 2010). Il grande pubblico le conosce con la miniserie Dr. Morgue, edita da Star Comics tra il 2011 e il 2012, che permette loro di esplorare tematiche personali in una chiave noir. Grazie al Dr. Morgue, nel 2012 si aggiudicano il premio ANAFI (Associazione Nazionale Amici del Fumetto e dell’illustrazione) “per aver dato vita ad una serie originale e soprattutto aver dimostrato sensibilità e rigore scientifico verso i temi trattati”. Esordiscono in Bonelli nel 2011, realizzando una storia per il Dylan Dog Color Fest #6 dal titolo La camera chiusa. Negli ultimi anni hanno realizzato la loro prima sceneggiatura per Dampyr e Nathan Never, oltre ad aver cominciato una nuova collaborazione con Dylan Dog.
Dylan Dog è stato un fenomeno artistico, editoriale e sociale. Nel suo periodo di maggiore successo è stato protagonista di pubblicità e merchandising, ha generato bizzarri epigoni, è stato ospite di riviste a larga diffusione. Sembrava che tutti leggessero Dylan Dog. Come ci si approccia a un personaggio e a un fenomeno del genere senza esserne schiacciati? Fa paura esordire su Dylan Dog?
Rita: So cosa intendi. Alle superiori avevo anche il diario, con la copertina di Villa tratta da Jack lo squartatore. Avevo anche i quaderni ora che ci penso… leggo Dylan da quando avevo 12 anni ed è un po’ come quando hai a che fare con una persona in carne ed ossa: dopo un po’ di tempo è naturale imparare a conoscerla, a capirla. Forse non l’ho mai visto come un fenomeno, quanto come una presenza costante nella mia vita. Però ti dico, mi sono resa davvero conto che stavo realizzando un sogno lungo vent’anni solo quando ho scritto la sua prima battuta. Quando sono stata io a dargli voce per la prima volta. E la paura c’era, ma mescolata a un sacco di altre emozioni.
Silvia: Al liceo avevo una compagna di banco fissata con Dylan Dog e non era Rita, ma ricordo perfettamente la sua fascinazione e soprattutto i disegni di Dylan sul banco, che mi lasciavano le braccia piene di inchiostro… forse era un segno. Personalmente non essendo una persona molto emotiva e dovendo compensare l’eccesso di entusiasmo di Rita, il mio approccio è stato eminentemente razionale e per certi versi critico. Ho sentito la responsabilità e il timore di fallire, ma la paura o l’imbarazzo no.
A lungo si è pensato a un Dylan Dog indissolubilmente legato a Sclavi. Per voi è ancora così nelle “fondamenta” del personaggio? Come ci si muove nell’equilibrio tra ciò che Dylan Dog è nella interpretazione di suo “padre” e quello di personale che un autore cerca sempre di mettere nelle sue opere
R: Dal mio punto di vista l’interpretazione vera e propria sta a chi è venuto dopo Sclavi. Sclavi non interpreta, Sclavi fa (è) Dylan Dog. Ogni autore arrivato dopo secondo me ha dato una propria interpretazione a Dylan, e al Dylan di Sclavi, e poi ha messo del proprio. Lo vedo anche quando lavoriamo io e Silvia: tendo a far emergere aspetti del personaggio diversi da quelli sottolineati da lei. Diversi, ma non di minore importanza. Dylan è un personaggio complesso e il fatto che lavorino su di lui autori differenti non fa altro che far risaltare questa complessità e ricchezza del personaggio. Come dicevo prima è stato un po’ come parlare di un amico di lunga data, qualcuno di familiare, che ho visto cambiare nel tempo, come qualsiasi creatura viva.
S: Il Dylan che preferisco è quello di Sclavi, da sempre. Lo trovo umano e cinematografico insieme, il che non è una fusione sempre armonica da ottenere. A me piacciono gli eroi fallibili, quelli che cambiano psicologicamente e che vengono messi di fronte ai loro limiti avendo reazioni che vanno fuori da come il lettore è abituato a vedere il personaggio, mi piacciono gli stravolgimenti morali. In questo io e Rita abbiamo i più grandi scontri, perché io tendo a mandare Dylan per strade mai battute e lei lo tiene più al guinzaglio.
Rendere l’orrore è difficile. La paura, l’irrazionale. Ci sono tante sfumature del genere in Dylan, commistioni. Lo stesso genere è cambiato molto dagli anni ’90 a oggi. Cosa significa scrivere un fumetto horror oggi? Come evolve Dylan Dog in questo?
R: Bella domanda. Dunque, da una parte è vero che il concetto di horror si è evoluto nel tempo… e meno male, aggiungo. Dall’altro ci sono elementi e cliché che durano da secoli e da lì non li smuovi. Nelle nostre storie io e Silvia ironizziamo su alcuni, ma sempre con rispetto. Anche per Dylan è così, è cambiato in molti aspetti e in altri è cocciutamente rimasto uguale… e meno male, aggiungo. Perché da una parte un personaggio devi riconoscerlo e sentirlo ancora quello di un tempo e dall’altro ti deve stupire e spingere a una riflessione. Dylan Dog non è mai stato “solo un fumetto” e secondo me è principalmente con questo che deve confrontarsi un autore che scrive una sua storia, con questo e con il fatto che il “personalismo dell’autore” deve emergere solo se è propedeutico a Dylan. L’autore deve essere uno specchio attraverso cui Dylan si riflette sul pubblico e non un semplice filtro. Perché un filtro rischia di omettere, uno specchio non mente (quasi) mai. Credo infine vada considerato anche il modo in cui tutti noi oggi usufruiamo dell’orrore, lo percepiamo e ci approcciamo ad esso. È un altro degli aspetti di cui tengo conto quando mi avvicino a un’idea o a una storia nuova.
S: Prima di scrivere un horror, bisogna capire cosa si vuole da un horror: “fare paura” oppure “raccontare la paura”? Sono due cose diverse. La prima genera un’emozione istantanea, la seconda spinge alla riflessione. Io e Rita quando scriviamo Dylan oscilliamo sempre tra queste due cose, ma confesso che attualmente è molto più difficile la prima rispetto alla seconda, perché il lettore moderno è abituato a tutto, le uniche paure che gli sono rimaste sono quelle ataviche o quelle inconfessabili, legate al proprio vissuto. Quindi il lavoro che facciamo è come quello di uno scandaglio, cerchiamo di intercettare una paura e andiamo più a fondo possibile, ma non so dire se ci riusciamo sempre.
Intervista condotta via mail ad agosto 2016.