Sempre per lo Speciale dedicato ai trent'anni di Dylan Dog, proseguiamo con la nostra serie di interviste agli sceneggiatori che hanno esordito negli ultimi anni sulle testate dedicate all'Indagatore dell'incubo. Questa volta abbiamo raggiunto Gigi Simeoni e Mauro Uzzeo.
Gigi Simeoni
Bresciano, del 1967, Simeoni fa parte di quel gruppo di giovani autori (Rossi, Mutti, Olivares) formatisi sotto la guida di Rubén Sosa, e che daranno vita alla serie “Full Moon Project“. Dopo una parentesi professionale maturata in ambito pubblicitario, Simeoni passa a occuparsi di fumetti a tempo pieno con la serie in questione, quindi con Lazarus Ledd (Star Comics) e Intrepido, dell'editrice Universo. È tra gli ideatori di Hammer, che chiude al tredicesimo numero; come gli altri esponenti della scuola bresciana, trasmigra alla Bonelli e debutta sulle pagine di Nathan Never con l'episodio n. 64, L'isola nel cielo. Successivamente lavora anche per Brendon (2001), Gregory Hunter (scrivendo e disegnando il primo Maxi Gregory Hunter, nel 2002) e Volto Nascosto (2007). Del 2007 è anche autore completo de Gli occhi e il buio, numero 2 della collana Romanzi a Fumetti Bonelli. In seguito realizza alcuni numeri della collana Le Storie per poi entrare nello staff di autori di Dylan Dog.
Dylan Dog è stato un fenomeno artistico, editoriale e sociale. Nel suo periodo di maggiore successo è stato protagonista di pubblicità, merchandising, ha generato bizzarri epigoni, è stato ospite di riviste a larga diffusione. Sembrava che tutti leggessero Dylan Dog. Come ci si approccia a un personaggio e a un fenomeno del genere senza esserne schiacciati? Fa paura esordire su Dylan Dog?
Non ho mai provato paura, a dire il vero. Nemmeno velato timore. Sono arrivato a Dylan Dog quando il grosso dell'ondata del successo era già passato, e ci sono arrivato senza particolari pretese da me stesso. Volevo cimentarmi con una storia, en-passant, solo come disegnatore e chiesi a Marcheselli se poteva offrirmi questa possibilità. Mauro mi disse che non c'era alcun problema, e che potevo parlare con Gualdoni (all'epoca curatore della testata) perché mi facesse scegliere una sceneggiatura tra quelle che ancora erano in attesa di disegnatore. Venivo da molte esperienze, Lazarus Ledd e Hammer, e poi Nathan Never, Brendon, Gregory Hunter, Volto Nascosto, i Romanzi a Fumetti e Le Storie, e ritenevo che fosse arrivato il momento di coronare un mio sogno facendo “strike” con Dylan Dog. Non mi passava nemmeno per il cervello l'idea di mettermi a sceneggiarlo. Poi, mentre già lavoravo alla storia che avevo scelto (Lettere dal passato di Giovanni di Gregorio, che poi è uscita con un altro disegnatore) uscì Amore Nero. Marcheselli mi chiamò e mi disse semplicemente che Tiziano Sclavi lo aveva letto e gli era piaciuto molto, tanto da chiedermi se volevo entrare nella rosa degli sceneggiatori (nonché come disegnatore) per Dylan Dog. Tutto molto naturale, per nulla traumatico. E adesso mi ci sto divertendo un sacco.
A lungo si è pensato a un Dylan Dog indissolubilmente legato a Sclavi. Per te è ancora così nelle “fondamenta” del personaggio? Come ci si muove nell'equilibrio tra ciò che Dylan Dog è nella interpretazione del suo “padre” e tra quello di personale che un autore cerca sempre di mettere nelle sue opere?
A lungo si è pensato e ancora lo si pensa. Almeno, l'impressione è quella (anche se so bene che internet falsa le percezioni). Dylan è stato pensato da un autore che ha una cifra personale molto marcata, e il personaggio si trascina dietro tutto ciò. Prenderlo tra le mani e muoverlo in qualcosa che sia personale ma allo stesso tempo rispettoso di una così peculiare personalità, non è facile. Ma, allo stesso tempo, una sfida golosa. Sclavi stesso muoveva Dylan con estrema libertà e fantasia. Ed è quello che ho creduto fosse la cosa giusta da fare: rispettare appieno questo imprimatur di Tiziano, cioè la libertà interpretativa. Del resto, è questo il motivo per il quale credo di essere stato scelto personalmente ed espressamente da Tiziano: ho un modus operandi tutto mio, me la canto e me la suono e mi diverto a saltare di palo in frasca, ma sempre tenendo la barra a dritta su tematiche per me importanti. Una volta mi va di scrivere un giallo-thriller, la volta dopo un horror, la volta dopo ancora un poliziesco o un falso-soprannaturale… Del resto, lui è l'Indagatore dell'Incubo, non dell'Horror. Quindi, chi pretende di avere il soprannaturale ad ogni albo, sbaglia in partenza. Sta interpretando male l'intera serie.
Rendere l'orrore è difficile. La paura, l'irrazionale. Ci sono tante sfumature del genere in Dylan, commistioni. Lo stesso genere è cambiato molto dagli anni '90 a oggi. Cosa significa scrivere un fumetto horror oggi? Come evolve Dylan Dog in questo?
Fosse per me, scriverei spesso storie in cui entra i qualche modo il Demonio. E' un argomento che mi affascina, l'origine stessa del Male e del suo Signore. Ma poi dovrei inserire anche figure di esorcisti, e inevitabilmente la sfera della fede e del misticismo. Argomenti che ancora non vengono accettati con facilità, ma spero che col tempo cada anche questo tabù. Rendere l'orrore che esiste, ed è sempre più presente nel nostro quotidiano, non è difficile se si sa esattamente cosa si vuole descrivere, e soprattutto se si tengono gli occhi aperti. È dappertutto, è strisciante, a volte è colorato e profumato, suadente, elegante (e per questo ti frega). Io sono atterrito sempre, invariabilmente, non tanto dal sangue e dalla violenza esplicita, quanto da quella velata, il preludio della manifestazione del Male. Un medico nazista che dà un buffetto a un bambino, sorridendo e chiedendogli come si chiama, sapendo che lo sta scegliendo per esperimenti atroci che finiranno con la camera a gas. Un militante dell'IS che dice a una donna di chiedere perdono ad Allah chiamandola “cara figlia mia” poco prima di lapidarla, o le riprese con ralenty ed effetti-video ai condannati a morte, assurdamente vestiti di un allegro color arancione (cosa che mi sconvolge ulteriormente, essendo il mio colore preferito). Una ragazza violentata e uccisa in una canonica, il cui cadavere viene nascosto per anni sotto un cumulo di vecchie tegole, offesa dall'omertosa tracotanza di chi sapeva e tace, senza nemmeno una tomba per piangerla. Questo è orrore vero, per me. Tragicamente vicino all'umanità, emanazione della stessa. Non soprannaturale, ma tragicamente naturale. È agghiacciante. Io sto cercando, con le mie storie, di raccontare un orrore nascosto più nella normalità che quello eclatante di un'orda di zombie famelici. Poi, certo… le scene splatter e d'azione ci vogliono. Fanno da “carico a briscola”, e non si possono lasciare da parte. Il mio Dylan evolve non tanto perché ora usa il cellulare o internet, quanto per il fatto che insegue mostri e fantasmi e alla fine si ritrova a combattere contro qualcos'altro, più potente e maligno, che sfugge allo sguardo dei più, distratti dai contorni roboanti. Di recente ho scritto una scena di Dylan che combatte contro uno zombie in un cimitero, facendolo letteralmente a pezzi a mani nude (la vedrete in Il tango delle anime perse disegnato da Brindisi). Un classico. Ma a me premeva soprattutto spiegare perchè quell'ex-uomo, ex-vivente, fosse stato ridotto in quello stato. Cosa cercava. Cosa lo muoveva. E alla fine, la spiegazione dirà al lettore che quell'uomo era stato molto più “mostro” da vivo che da morto.
Mauro Uzzeo
Nato il 25 agosto 1979 a Marino (RM). Da anni al servizio del fumetto, del cinema e della televisione. In ambito fumettistico ha collaborato con Montego, Edizioni BD, Coniglio Editore, Bao e Nicola Pesce Editore, Editoriale Aurea, Sergio Bonelli Editore. È uno degli sceneggiatori dello staff di Orfani, Ringo e di Dylan Dog.
Dal 2001 svolge l'attività di sceneggiatore e regista di cortometraggi animati (Tricky'n'Ducks, Il Bambino che ha spento le stelle), spot televisivi (Coca-cola, Vodafone, Acqua Lete) e videoclip musicali (Tiromancino, Jovanotti, Subsonica, Coolio & Snoop Dogg). Dal 2006 al 2012 è direttore responsabile del reparto creativo della Rainbow Cgi per cui contribuisce alla realizzazione delle avventure delle Winx e al film animato in CG Gladiatori di Roma. Per la Lucky Dreams di Andrea Lucchetta realizza le sceneggiature di Spike Life, serial tv coprodotto dalla Rai.
In campo cinematografco, ha lavorato agli effetti visivi de L'ultimo terrestre di Gipi e ha curato la regia della sigla animata del film di Fausto Brizzi Com'è bello far l'amore. È nello staff degli autori Wildside. Ha scritto per il magazine XL di Repubblica. Ha girato Cose da Uomini, primo serial web realizzato in collaborazione col Dipartimento delle pari opportunità per sensibilizzare sul tema della violenza sulla donna. E' uno dei curatori di ARF! Festival. Insegna comunicazione e narrazione cross-mediale.
Dylan Dog è stato un fenomeno artistico, editoriale e sociale. Nel suo periodo di maggiore successo è stato protagonista di pubblicità, merchandising, ha generato bizzarri epigoni, è stato ospite di riviste a larga diffusione. Sembrava che tutti leggessero Dylan Dog. Come ci si approccia a un personaggio e a un fenomeno del genere senza esserne schiacciati? Fa paura esordire su Dylan Dog?
No, esordire su Dylan Dog mi ha messo davanti a parecchie emozioni diverse, ma devo dirti che la paura non era tra queste. Che poi, si fa presto a dire “Esordire su Dylan”, ma in realtà ci sono un sacco di step intermedi che fanno sì che quando si arriva, effettivamente, all'esordio, il più è stato già bello che affrontato. C'è il momento in cui ti dicono: “Ti piacerebbe scrivere una storia di Dylan Dog?” e quello, solitamente successivo, in cui, in seguito a una tua risposta affermativa, la domanda diventa: “Ok, proponimi un soggetto per Dylan Dog”. Quello in cui ti siedi davanti al computer e inizi a mettere insieme tutte le idee che ti sono venute negli anni in cui ti sembrava assurdo anche soltanto fantasticare di poter scrivere, un giorno, le avventure di un personaggio che ami da così tanto tempo; quello in cui ti rispondono “No, quel soggetto non va bene, quello neanche, ma quell'altro invece sì, puoi iniziare a sceneggiarlo.” E c'è, infine, quello in cui ti rendi finalmente conto che stai scrivendo il tuo primo “Giuda Ballerino.”
Ecco, io ricordo benissimo il momento in cui è successo. Stavo scrivendo una storia che si intitolava Guardami, insieme a Roberto Recchioni, una storia che partiva da un mio spunto che Roberto aveva trovato interessante e che venne subito accettata in Bonelli, anche se poi il titolo venne trasformato in L'eliminazione.
Scrivemmo quella storia insieme, proprio nel senso di stare seduti uno accanto all'altro e alternarsi al portatile, così mentre uno dei due preparava il thè recitando ad alta voce i dialoghi, l'altro scriveva le descrizioni di scena, e viceversa. Me lo ricordo come fosse ieri, avevo lasciato da poco la postazione a Roberto quando lui, improvvisamente, si fermò, e mi fece tornare a sedere, dicendomi: “No, questo tocca a te. È il tuo primo Giuda Ballerino.”
Ecco, lì ho sentito una sensazione alle gambe che non era paura, ma una miscela di batticuore e gratitudine verso chi quel personaggio l'aveva creato, verso chi mi era stato vicino negli anni in cui provavo a fare questo mestiere straordinario, verso chi stava dando, anche a me, la possibilità di prendere in mano un'icona dell'immaginario collettivo e imprimere un proprio segno.
A lungo si è pensato a un Dylan Dog indissolubilmente legato a Sclavi. Per te è ancora così nelle “fondamenta” del personaggio? Come ci si muove nell'equilibrio tra ciò che Dylan Dog è nella interpretazione del suo “padre” e tra quello di personale che un autore cerca sempre di mettere nelle sue opere?
Che sia totale emanazione di Sclavi è fuori d'ogni dubbio, perché Dylan Dog non è mai stato un personaggio “vettore” a cui far vivere delle storie forti, ma le storie forti avvenivano proprio perché a viverle era un personaggio particolarissimo, unico nella scena del fumetto mondiale, che era modellato sulle paure, le idiosincrasie e le passioni, di un uomo come Sclavi. Un mix così preciso e particolare che, più di altri, lontano dal suo creatore ha rischiato di perdere non solo la sua forza ma di vedere stravolte alcune delle sue caratteristiche salienti.
Ma d'altronde, nella trentennale carriera del nostro, sarebbe assurdo ipotizzarlo sempre scritto dallo stesso uomo e questo, a mio modo di vedere, alla lunga è stato un bene, perché ha permesso a diversi autori di perdersi in quegli stessi territori e di regalarci avventure straordinarie contribuendo, e non poco, alla mitologia del personaggio. Penso al Signore del Silenzio di Ferrandino, al Buio di Chiaverotti, al Vicino di casa di Ruju, alla Moonlight pensata da Marcheselli, alla Necropolis della Barbato, il Dylan del futuro di Bilotta, fino alla Mater Morbi di Recchioni. Tante voci che, una dietro l'altra, hanno traghettato Dylan negli anni, dimostrando che c'è un equilibrio delicatissimo da rispettare, ma quando si riesce a non cadere si possono raggiungere vette altissime. Per quanto mi riguarda, l'unica regola che mi sono dato scrivendolo è quella di fargli affrontare tutto quello che mi spaventa davvero, senza pensare a quanto dovrò mettermi a nudo per farglielo fare.
Rendere l'orrore è difficile. La paura, l'irrazionale. Ci sono tante sfumature del genere in Dylan, commistioni. Lo stesso genere è cambiato molto dagli anni '90 a oggi. Cosa significa scrivere un fumetto horror oggi? Come evolve Dylan Dog in questo?
Innanzitutto senza dimenticare che Dylan Dog, pur essendo un fumetto nato negli anni '80, è ambientato nell'oggi, ogni sua avventura sta avvenendo ora, e dovrà riuscire a colpire non solo gli storici fan del personaggio, ma anche i giovani lettori che gli si avvicinano per la prima volta.
Fortunatamente la paura è senza tempo, nasce con l'uomo nel momento stesso in cui arriva al mondo e piange, non capendo cosa stia succedendo intorno a lui, e finisce l'attimo prima di vedere quella rassicurante luce bianca alla fine del tunnel. Perché la paura evolve, seguendo la nostra crescita, e nonostante sì, siamo tutti qui per festeggiare trent'anni di storie, le paure dell'uomo del 2016 non sono poi tanto diverse da quelle del 1986, si tratta solo di avere il coraggio di guardarle negli occhi e continuare ad affrontarle.
Per quanto mi riguarda, sono convinto che l'horror, più di altri generi, non debba conoscere mezze misure. Non deve essere garbato, non deve bussare prima di entrare, non deve chiedere il permesso, non deve essere attento, anzi, all'horror si deve perdonare qualsiasi sguaiatezza, qualsiasi maleducazione, purché abbia il coraggio di essere estremo, di esporsi, di rischiare di colpire forte nello stomaco qualcuno, anche a costo di danneggiarlo e di non piacere.
Da Il Sesto Senso in poi s'è creata, in qualcuno, la strana convinzione che l'horror debba essere qualcosa di innocuo, per famiglie, e tanti hanno provato, e stanno provando, a farlo passare per quel processo di disneyzzazione che ha colpito le favole più famose.
L'horror non merita una fine simile.
L'horror, al contrario, deve continuare a essere sempre più disturbante, sempre più sgradevole, altrimenti perderebbe la sua funzione più importante: quella di tormentare il nostro sonno con incubi talmente angoscianti, che al nostro risveglio non possiamo far altro che tirare un sospiro di sollievo nel pensare quanto la nostra vita sia, comunque, migliore di quella appena sognata. Quasi bella.
Interviste condotte via mail tra agosto e settembre 2016.