Uno dei sogni di Gaiman bambino era quello di raggiungere un universo parallelo dove Tolkien non fosse esistito, portandosi dietro una copia de “Il Signore degli Anelli“: lo avrebbe pubblicato a proprio nome e avrebbe così goduto della popolarità e del successo conseguente, senza la fatica della creazione. Ebbene, “Il Gioco della Vita” racconta proprio il più classico dei luoghi narrativi della letteratura fantasy: il viaggio di ricerca di un gruppo di amici, viaggio che qui, come già l'intreccio di “Casa di Bambola“, si svolge sui due piani di realtà: quotidianità e sogno. Nel mondo del sogno seguiamo una tipica quest: un gruppo di bizzarri personaggi, un ratto in mise bogartiana (o constantiniana), un dodo, una scimmietta e un cane cercano la loro principessa, che possiede un portentoso gioiello magico, il Porpentino, capace di sconfiggere il Cuculo, malvagio e misterioso dominatore di quel mondo. Nel piano della quotidianità, seguiamo le vicende di un gruppo di amiche (due delle quali, Barbie e Foxeglow avevamo già incontrato in precedenti episodi [1] ), in piena deriva esistenziale, coinvolte in una serie di eventi, che le trascineranno fin dentro il mondo del sogno. La loro ricerca è la ricerca di un nuovo equilibrio nella propria vita, che le metta in condizione di ridefinire sia la rispettiva identità sia le relazioni fra loro e quelle con il mondo intorno. Questa ricerca è esattamente “Il gioco della vita” cui allude il titolo.
Lo svolgimento segue i più classici percorsi del fantasy picaresco, con ambizioni di conte philosophique [2] ed al termine della ricerca i vari personaggi troveranno nuove possibilità aperte per le proprie vite. La scoperta più interessante, dal punto di vista meta narrativo, è pero' quella della sorgente dei sogni di Barbie, che è anche ipotesi della sorgente delle storie. Gaiman ci guida in viaggio attraverso la mente di Barbie e nel suo passato: scopriamo così che la sorgente dei sogni è semplicemente il desiderio di giocare con la realtà, con le idee. Magari tutto inizia per sconfiggere la noia e poi le vite e gli eventi messi in scena diventano sempre più appassionanti e coinvolgenti ed in essi filtrano pensieri, paure e speranze. In un'opera per tanti versi massimalista, che parla del senso e della struttura del reale, delle dinamiche dell'immaginario collettivo, questa proposta minimalista riesce ad essere sorprendente, grazie al percorso che Gaiman ci fa esplorare prima di esporla. L'energia e la spinta creativa non sono ricondotti a traumi o a superamenti di una qualche oscura patologia, bensì ad un normale e quotidiano bisogno di confrontarsi con ciò che ci sta intorno, con le esistenze e le identità, con il normale e quotidiano sforzo di vivere. In questo senso, “Il gioco della vita” offre la risposta di Gaiman alla classica domanda: “da dove nascono le storie?”; la creazione di storie è un gioco della vita di chiunque (ancora: “A game of you”), nel quale trasformiamo ogni cosa che conosciamo in componente per un nuovo mondo: persone, caratteri, un aneddoto.
Nel sottofinale, Gaiman ci mostra una scena divertente, dove Barbie si reca in una fumetteria per cercare un fumetto, Hyperman [3] , da lasciare sulla bara di Alvin/Wanda. La presenza di una ragazza lascia piuttosto sconcertati avventori e proprietario del negozio, poiché di ragazze in carne ed ossa in quel posto non se ne incontrano [4] . La scenetta è ovviamente esagerata, ma allude ad una situazione reale nel mercato del fumetto, almeno fino agli anni 1980. Ora, una particolarità di Sandman fu che, secondo le analisi della DC, circa la metà dei lettori fosse di sesso femminile: la saga aveva cioé sfondato un muro storico, aprendo ed accedendo a un segmento di mercato fino allora trascurato, almeno nell'ambito dei titoli supereroistici e collegati.
Fino a circa metà degli anni 1970, i lettori di fumetti erano in larghissima maggioranza maschi: questo naturalmente creava un circolo vizioso editoriale (e culturale) per il quale, mirando a conservare quel pubblico, piuttosto che allargarlo, le opere erano prodotte per soddisfare un gusto di genere e stereotipato. Nel filone supereroistico, inoltre, il target di età era sostanzialmente quello adolescenziale, e questa impostazione risultava in storie e personaggi strutturate e costruiti per solleticare (e definire?) un immaginario maschile basato su stereotipi. Alla grossolanità del trattamento dei rapporti interpersonali e sentimentali, si univa una parata di figure femminili le cui connotazioni anatomiche ascendevano direttamente alle pin-ups (da cui le battute sulla stabilità dei costumi delle varie supereroine).
Il pubblico delle lettrici (o, se si vuole, il corrispondente segmento di mercato) inizio' una profonda mutazione, in occidente, in seguito alla distribuzione delle serie animate nipponiche, che prepararono il terreno per la diffusione dei manga, fra la fine degli anni 1970 e l'inizio degli anni 1980 [5]. L'editoria giapponese aveva già stabilmente diversificato i suoi prodotti, definendo, dal punto di vista commerciale se non stilistico, due categorie abbastanza precise, shonen e shoujo, rispettivamente indirizzate al pubblico maschile e femminile [6] . Il successo ottenuto da molte delle opere di tipo shoujo importate mise in evidenza almeno due punti importanti: innanzitutto, dimostro' che le ragazze erano disposte a leggere fumetti con la stessa passione dei ragazzi; inoltre, come si poteva apprezzare frequentando gli appassionati, quella divisione di generi era in gran parte una mera convenzione di catalogo, poiché maschi e femmine condividevano molte letture [7] . Si poteva quindi contare sul pubblico femminile anche per storie non classificabili nei generi che gli stereotipi commerciali e culturali gli associavano (le cosiddette commedie rosa, per essere chiari). Così, in Italia, intorno alla metà degli anni 1980, poteva capitare di incontrare per strada ragazze che leggevano il numero appena uscito di Dylan Dog. Era una visione che segnalava una doppia buona notizia per il fumetto italiano: non solo il successo di una testata mainstream ma anche la conquista di un tipo di lettore nuovo, le ragazze appunto, da parte di storie che un tempo si sarebbero dette “per maschi” e che, da allora in poi, è sensato definire “storie” senza connotazione di genere.
Il gioco della vita è sicuramente il più classico degli archi narrativi della saga e forse per questo è stato il capitolo meno amato dagli appassionati, che forse si attendevano “qualcosa di veramente diverso” ad ogni episodio. Eppure, é una storia costruita con mirabile equilibrio ed alcune sue scene hanno una costruzione esemplare. Consideriamo ad esempio l'incipit: tre tavole che dal bianco abbacinante di un paesaggio innevato mutano nell'oscurità di una grotta; i dialoghi fra Luz, Martin, Bernie e Wilkinson, resi con un lettering specifico e colorato per ciascuno; il corpo del tantoblin, inquadrato dall'altezza del suolo. Questa sequenza immerge il lettore in un'atmosfera di mistero ed aspettativa: su quale mondo ci siamo affacciati? Chi sono i personaggi, che parlano? chi è il Cuculo? chi è la principessa? Tutte le questioni della vicenda sono poste nell'incipit. E sapientemente epico è commovente è il racconto della morte di Martin Dieciossa, con il montaggio alternato fra la sequenza centrata su Martin e quella su Barbie. E come non ammirare quella malinconica allegria che accompagna la sfilata dei personaggi, che si congedano dal mondo, allorché Sogno lo cancella dal suo regno? L'effetto della scoperta della natura del Cuculo è invece il risultato della bontà della progettazione della vicenda, perché sfrutta il ribaltamento delle aspettative del lettore, aspettative non tanto basate su elementi oggettivi della storia, quanto su uno stereotipo: l'ispirazione creativa, la complessità dei sogni nasce da e nasconde un trauma, il cui disvelamento consentirà al protagonista di riconsiderare la propria identità. Ma Il gioco della vita non è la storia di un topo cattivo [8] e la soluzione di Gaiman la rende la possibile storia di ognuno, nella misura in cui ognuno di noi ha inventato storie, anche solo per giocare con i propri pupazzi (appunto “A game of you”).
Ed infine, merita sempre sottolineare la vitalità dei personaggi, che Gaiman rende (apparentemente) con una facilità disarmante: Hazel, Foxglove, Barbie, Wanda, George (un naufrago dei sogni: quale sarà stata la sua storia?) e tutti i membri della Compagnia che accompagna la principessa, con nota particolare per Luz e Martin.
Il gioco della vita non tratta l'intreccio principale della saga: si concentra su un gruppo di personaggi e Sogno è per gran parte della vicenda spettatore, salvo naturalmente adempiere ai suoi imprescindibili doveri nel finale. In questo senso, é un ottimo esempio della visione della DC del futuro della saga, una volta che, magari, Gaiman se ne fosse staccato. Sandman si presta in maniera particolare alla trasformazione in contenitore di storie, attraversate da miriadi di personaggi più o meno ricorrenti. Gaiman riuscirà ad evitare questa evoluzione ed alla DC/Vertigo rimarrà l'opzione, comunque fruttuosa, di una collana intitolata “Sandman presenta“, dove compariranno alcuni dei personaggi della saga madre, ma non il Signore del Sogno, in nessuna delle sue incarnazioni.
Note
[1] Foxeglowe è Donna Cavanagh, compagnia di Judy, apparsa nell'episodio “Twenty Four Hours” in Preludi e Notturni; Barbie l'incontrammo in Casa di Bambola.
[2] Ne “Il gioco della vita” Gaiman intende realizzare una parodia ed un omaggio al genere fantastico classico, a Tolkien in particolare. Scrive l'autore: “What I want to do here […] is to grab the subtext and make it text, grab the metaphor and make it text”. Vedi [SC] , pag 110.
[3] Lo script originale de “Il gioco della vita” citava Superman e la mini saga dei “Bizzarros”; la DC ne richiese il cambiamento, generando un effetto di sarcasmo aggiunto. Particolarmente divertente il fatto che, nella prima edizione in episodi, in un punto la correzione era sfuggita, causando qualche difficoltà di lettura e creando un ulteriore gioco di specchi. Vedi [SA] capp. 32-37.
[4] Nella posta dei lettori della serie dineyana PK, la tipica risposta dei curatori alle lettere che chiedevano ragione di dettagli od apparenti incongruenze era “Poche ragazze da quelle parti, eh?”. Quei lettori erano immancabilmente maschi.
[5] Naturalmente la storia è assai più complessa ed interessante; qui interessa notare che la tipica strategia di gran parte delle case editrici di fumetti si basava su un target maschile. Tuttavia, eccezioni e casi particolari sono presenti e generalmente collegati all'evoluzione della caratterizzazione dei personaggi femminili (un esempio italiano potrebbe essere la “Valentina – mela verde” di Grazia Nidasio, pubblicato alla fine degli anni 1960). Ringrazio Valerio Stivé per la segnalazione: questo tema meriterebbe un articolo tutto per sé, anche solo per presentare organicamente le varie analisi critiche prodotte.
[6]La suddivisione in shoujo e shonen, nel mercato delle riviste manga giapponesi si riferisce a linee editoriali dalle scelte tematiche e narrative indirizzate rispettivamente alle ragazze ed ai ragazzi.
[7] Una divertente esposizione di questo processo è raccontata in Fanboy, di Aragones ed Evenier [AR].
[8] Nel romanzo di Talbot la protagonista trova nella passione per Beatrix Potter la forza per confrontarsi con i traumi della propria infanzia ed affrontare finalmente il padre. Vedi [TA].
Riferimenti
[AR] Sergio Aragones, Mark Evenier: Fanboy, Play Press.
[TA] Bryan Talbot: Storia di un topo cattivo, Comma 22.
[SA] Greg Morrow e David Goldfarb, curate da Ralf Hildebrandt: The Sandman Annotations
disponibili presso http://www.arschkrebs.de/sandman/annotations
[SC] Hy Bender: The Sandman Companion, Titan Books.