Ricordando Franco Caprioli: Dovuto a Effe Ci

Ricordando Franco Caprioli: Dovuto a Effe Ci

Il lavoro di Franco Caprioli merita molto meno una lettura "per ragazzi" e assai di piu' una attenzione da autore di livello piu' complesso di quello del "semplice" autore di fumetti; i criteri attuali di valutazione del fumetto permettono di comprendere e apprezzare meglio il lavoro di un autore la...

Dovuto a Effe CiForse ciò che maggiormente colpisce il lettore di Franco Caprioli che lo abbia conosciuto da adolescente, nel tornare a incontrarlo dopo decenni, è lo scoprire una inattesa modernità in un autore al quale la critica ha sempre riconosciuto bensì tanti meriti ma sostanzialmente monocordi: il “disegnatore del mare”, quello “dei puntini” e dello “scrupolo figurativo” e poco altro: requisiti senza dubbio veri ma diventati poi degli stereotipi interpretativi che hanno fatto da schermo ad analisi più approfondite e a più ampio spettro. Sicché in sostanza gli sono stati attribuiti anche vari e in fondo immeritati limiti. Specie a proposito di una sua carente sensibilità fumettistica, intesa come una sua forte attenzione agli aspetti illustrativi, a scapito di uno scarso dinamismo narrativo.

Ora, è vero che da una parte i suoi disegni rimangono di una bellezza che ti cattura immediatamente, ancora più apprezzabile da parte di chi – ormai approdato alla maturità dell’adulto – è andato acquisendo nei decenni una cultura visuale nutritasi di pittura, di grafica e via discorrendo. Dall’altra, pero’, il lettore adulto non può mancare di essere colpito da una nuova necessità interpretativa: quella cioé – in tempi di revisionismo generalizzato! – di operare una revisione critica nei confronti di Caprioli. Le cui caratteristiche sono più vicine di quanto ci si aspetterebbe – basandosi sui puri e semplici ricordi nostalgici – a quei requisiti che negli anni Sessanta la (allora neonata) critica fumettistica attribuiva al nuovo concetto del “fumetto d’autore”. E benché anche tale concetto si sia gradualmente ridimensionato negli anni, rimane il fatto che il lavoro di Caprioli merita molto meno una lettura “per ragazzi” e assai di più una attenzione da autore di livello più complesso di quello del “semplice” autore di fumetti. O per lo meno, di quanto un ruolo del genere corrispondeva ai suoi tempi, ciò che finì per condizionare tutto il suo operato. è come dire, in altre parole, che rispetto ai suoi tempi l’opera fumettistica di Caprioli era un po’ più avanti di quanto i tempi medesimi permettessero di capire. E che invece, con i criteri attuali, siamo in grado di meglio comprendere e apprezzare.

Alla luce di questo concetto, i racconti apparsi nel 1947/48 su Topolino con i titoli di I fanti di Picche, Nel Mar Cinese del Sud e La tigre di Sumatra, ossia l’insieme di storie che – tanto per semplificare – potremmo chiamare la trilogia dei Fanti di Picche, si presta forse in maniera particolare. Qui in effetti non intendo entrare nel merito della sostanza delle storie, le quali rientrano nei normali canoni di racconti esotico-avventurosi così com’erano intesi a quel tempo, magari da parte di un autore che, come succedeva allora, si era nutrito di Salgari o Verne o Kipling. è invece più interessante analizzare le modalità con cui l’autore-Caprioli affrontava il suo lavoro, quali dal lavoro stesso traspaiono; e che erano certamente abbastanza differenti dalle modalità di approccio da parte, in genere, dei disegnatori coevi. In definitiva, vale la pena di occuparsi, più che dell’opera in sé, dei modi secondo cui l’autore si poneva ad essa.

E quindi al proprio lavoro, alla realizzazione materiale dei propri intenti creativi e princìpi artistici, alle pulsioni della propria fantasia, eccetera. Che, in Caprioli, si palesano più da artista che da fumettaro. E non perché – beninteso – il fumettaro non sia un artista, bensì per il fatto che a quel tempo l’autore di fumetti veniva frustrato, depauperato del rispetto per se stesso e ostacolato nella realizzazione integrale della propria dimensione estetica (e come conseguenza, in qualche misura, anche di quella umana). Ebbene, con Franco Caprioli quest’azione castrante nei confronti degli autori, che andava allora per la maggiore, è stata in buona misura elusa sul piano della sostanza (anche se non sul piano della sua sofferenza umana).

Soltanto adesso, infatti, siamo in grado di valutarlo più correttamente che in passato, in quanto l’analisi dei suoi fumetti ci permette di accorgerci che essi richiedono un approccio di lettura inteso a gustare l’intimo rapporto fra disegno e narrazione piuttosto che una vorticosa immersione nell’azione raccontata, che lasciasse al disegno solo un ruolo marginale, ossia di farsi dare una passiva sbirciatina distratta. Sbarazziamo subito il campo, in via preliminare, da questa faccenda. Perché il disegno di Caprioli possiede in se stesso requisiti tali da non lasciarsi guardare in maniera distratta. Perché – è vero – la “trilogia” è incentrata sostanzialmente sul racconto della lotta fra la “setta” I fanti di picche, il cui capo si chiama Ta-la-tà ed ha il volto celato sotto un cappuccio nero a forma di picche e quella denominata I draghi verdi: “cattivi” questi e “buoni” gli altri, per cui vi si configura l’eterno stereotipo della lotta fra il bene e il male. Scenario di fondo è inizialmente la Cina, poi l’azione si sposta alle Filippine. Nel ruolo di protagonisti, ci sono il pittore italiano Stefano Gioberti e, al suo fianco, l’eroina femminile che è una ragazza francese, la bionda Danielle, figlia del dottor Gaston Chardin. C’é anche una bellissima e cinica nemica rituale, Samada. A un certo momento, anche Stefano e Danielle entreranno a far parte del gruppo I fanti di picche. In definitiva, avventure in mezzo al mare, sulla terra e in cielo, fra templi buddisti e popolazioni primitive… Il consueto armamentario dei racconti d’avventura. I quali pero’ sono qui conditi anche da non pochi momenti incalzanti e da una dovizie di inquadrature cinematografiche. Guardare per credere e pertanto “farsi convinti” che non risponde al vero l’appunto fatto spesso a Caprioli, di mancare di dinamismo. La faccenda è tutt’altra e dipende invece dal suo gusto estetizzante, dal piacere della bella immagine. E il punto è proprio questo: che essa rischia di essere così attraente per l’occhio da rallentare il ritmo della lettura. Ma se questo è un limite, fossero mai tutti così limitati, i fumetti! Fossero tutti così capaci di “distrarre” il lettore a punto tale da indurlo a gustare le immagini.

Dovuto a Effe CiMa al di là di questi valori estetici intrinseci, queste storie si portano dietro valori “altri”, capaci appunto – come si accennava sopra – di avvicinarle a quei parametri che soltanto decenni più tardi sarebbero stati attribuiti al cosiddetto “fumetto d’autore”. E cominciamo proprio dall’autore medesimo. Il quale, fin dalla vignetta iniziale della prima storia della trilogia, nel protagonista ritrae sé stesso. Non, si badi, nella semplice fisionomia, ma in qualche modo integralmente, perché costui è “il giovane pittore Stefano Gioberti”. Cio’ che pertanto deve andare inteso come una affermazione di sé, come un reclamare una propria presenza in quanto persona, al di là dell’umile ruolo riservato dalla società del tempo a un autore di fumetti. Come dire “io sono qui, e mi si deve dare ascolto”. Che fu il principio capace negli anni Sessanta di fare evolvere il fumetto, quando la critica fumettistica valorizzo’ il ruolo dell’autore, fino a quel periodo decisamente snobbato.

Un altro aspetto idoneo a conferire alla “trilogia” una componente insolita rispetto ai fumetti del tempo è la presenza di protagoniste femminili, mentre come ben si sa gli eroi dei fumetti (quelli “correnti”, non quelli erotici, del resto arrivati decenni più tardi) sono quasi esclusivamente maschili. Qui ci sono invece addirittura due donne, autentiche deuteragoniste rispetto a Stefano Gioberti: la fidanzata Danielle e la “nemica” Samada. Presenze per nulla convenzionali, ché infatti da esse emana molto spesso una sottile sensualità. Si può osservare già fin dalla seconda tavola come Danielle, semplicemente seduta a telefonare, abbia le gonne rialzate al di sopra del ginocchio e alla quarta tavola figuri in una mise del tutto déshabillé, una specie di baby-doll (che pero’ sarebbe comparso solo decenni dopo…). Né si tratta di casi isolati o momenti casuali. Infatti lungo tutto lo svolgimento dei racconti le donne evidenziano le loro “grazie muliebri”, si mostrano con grande naturalezza un po’ discinte o sono ritratte in pose languide (per esempio quando sono svenute), oppure indossano preferibilmente corti pantaloncini piuttosto che lunghe gonne o pantaloni idonei a coprir loro le gambe.

Non sono del resto casi, perché invece a volte escono dei dettagli intrinsecamente osé, anche se non platealmente esibiti. Per esempio, alla sesta tavola del primo racconto, Stefano e Danielle, pur semplicemente amici o al massimo neo-fidanzati (ossia non “uniti dal sacro vincolo del matrimonio”, come avrebbe preteso il perbenismo bacchettone del tempo) sono a un primo approccio eppure si presentano – a coloro che arrivano in casa per rapirli – in una evidente condizione déshabillé: lui è in canottiera e lei indossa una vestaglia che lascia intravedere delle belle gambe nude. In sostanza, delle mise che sottintendono, ma non troppo. Anzi, alludono invece con chiarezza alla circostanza che essi sono stati sorpresi in un momento di intimità che non lascia adito a malintesi. Perché non ci si abbiglia in quel modo per discutere di formule misteriose ma per attuare altre intenzioni. Il che – da parte dell’autore – è anche una specie di affermazione che quei personaggi “sono” umani e hanno pertanto fra loro dei rapporti umani e non dei banali rapporti convenzionali da marionette di carta.

Tutte queste non sono semplici illazioni ma “fatti” che si possono leggere con chiarezza direttamente sulle tavole. Dalle quali emana nei dovuti momenti una sottile suggestione erotica, una inattesa malia, una insinuante sensualità. E in una prospettiva del genere Caprioli si rivela molto più anticonformista dei fumettari coevi, più ricco di contenuti “anche” umani e realistici. Guarda caso, proprio quelle componenti che furono poi attributi essenziali del “fumetto d’autore”. Scrupoli dunque contenutistici, i suoi. Cio’ che tuttavia non lo distraeva da uno scrupolo ancora più fondamentale per lui, riscontrabile non soltanto qui ma in tutta la sua opera, dal primo fumetto del 1937 (Gino e Piero) fino all’ultimo del 1974 (I figli del Capitano Grant), rimasto incompiuto. Vale a dire lo scrupolo figurativo, quello per egli cui si preoccupava di attribuire alle sue immagini un valore che risultava poi contestualmente sia documentaristico sia esteticamente suggestivo. Quindi anche le tavole della trilogia sono brulicanti di immagini scrupolosamente realistiche, dove nulla è lasciato all’approssimazione: non le “banali” armi, non i frequentissimi mezzi di trasporto – via terra, via mare, via cielo – non gli affascinanti paesaggi naturalistici, non le costruzioni umane, che assumono la valenza di suggestive documentazioni etnografiche e di documenti antropologici. Fra cui mi piace ricordare ad esempio la risaia dell’ultima vignetta, alla tavola 7 di I Fanti di Picche, o le casupole abbarbicate in cima ai muri alla seconda vignetta della prima tavola di Nel Mar Cinese del Sud, oppure ancora tutta la serie di paesaggi esotici e di capanne indigene dalla tavola 13 alla 17 di La Tigre di Sumatra.

E poi c’é un particolare in apparenza minore ma invece decisamente significativo: quella assoluta varietà delle fisionomie che ancora una volta caratterizza i fumetti di Caprioli. è del tutto evidente che quelli dei suoi personaggi non erano volti elaborati a tavolino bensì desunti da osservazioni di facce reali che lo circondavano, facce vere, fisionomie di carne e non convenzionali o ripetitive. Cioé ancora una volta uno scrupolo di “verità” una via per eludere i luoghi comuni. E se pure non potremo mai sapere a chi risalgono i volti di questo o di quel “caratterista” presente nelle sue storie, perché soltanto lui lo aveva visto e ritratto, in compenso abbiamo ampia documentazione di quei volti che conosciamo anche noi. Vale a dire che a svariati dei suoi personaggi egli ha attribuito il volto di ben noti attori del cinema. Sicché suggerisco ai lettori che abbiano un’età tale da ricordarseli, di cercare – e li troveranno! – i volti di Linda Darnell o di Maureen O’Hara, o di Judy Holliday e Rita Hayworth; e anche fra quelli maschili si potrà rintracciare per esempio Sabù, l’attore filippino che ebbe il suo quarto d’ora di celebrità interpretando in quegli anni Il ladro di Baghdad di Ludwig Berger o Il libro della giungla di Zoltan Korda.

Alla conclusione di tutti questi opportuni e non necessariamente semplici ragionamenti, ci sono due punti essenziali che occorre sottolineare, uno per l’autore e un altro per il giornale che ha ospitato queste storie (oltre alle altre di Caprioli, beninteso, e a quelle degli altri autori). Innanzitutto, dunque, bisogna rendersi conto che Franco Caprioli è stato un autore di fumetti in una certa misura incompreso, perché le caratteristiche della sua opera erano probabilmente più mature di quanto la cultura critico-fumettistica del tempo – inesistente! – potesse permettere. E se lo fosse stato, probabilmente la sua statura sarebbe stata considerata con assai maggiore rispetto. Magari da grande autore internazionale, ossia da quel Frank K che, con involontaria ironia esterofila, si è definito lui stesso, firmando in quel modo nel 1950 una bella copertina raffigurante un Galeone sulla rivista Modellismo. E in certo senso smentendo quel se stesso che a volte, in via minimalista, firmava invece con l’umile sigla FC. In secondo luogo, va anche dato atto al Topolino di allora di essere stato un giornale abbastanza “laico” – inteso in senso lato – e pertanto capace di non dare troppo ascolto a tutte quelle limitazioni che venivano imposte ai fumetti da un imperante, pruriginoso perbenismo. Cio’ si deduce naturalmente dall’insieme delle storie di ogni genere che il giornale andava pubblicando, ma che la trilogia dei Fanti di Picche lascia trasparire in maniera assai chiara, assumendo la valenza metaforica di tutto un trend.

I racconti qui citati sono usciti come segue:

I fanti di picche
Testo di Franco Caprioli, 15 tavole in bianco/nero
Topolino, dal n.642 (7 giugno 1947) al n.649 (26 luglio 1947)

Nel mar cinese del Sud
Testo di Franco Caprioli, 16 tavole a colori
Topolino, dal n.688 (24 aprile 1948) al n.703 (7 agosto 1948)

La tigre di Sumatra
Testo di Franco Caprioli, 22 tavole in bianco/nero
Topolino, dal n.713 (16 giugno 1948) al n.734 (12 marzo 1948)

La “trilogia” è stata ristampata dall’ANAFI in: Albi dell’Avventura (ottobre 1973)

Questo articolo si trova pubblicato sul numero 54 (maggio 2005) di FUMETTO, la rivista trimestrale dell’ANAFI (Associazione Nazionale Amici del Fumetto e dell’Illustrazione), distribuita solo ai soci della medesima. Punto di riferimento degli appassionati di fumetti fin dal lontano 1971, FUMETTO è uno dei benefici di chi si associa all’ANAFI; infatti, ogni anno, oltre ai quattro numeri della rivista, vengono poi destinati ai soci almeno due volumi omaggio appositamente editi. Nel 2005, i due omaggi sono il volume in formato comic book intitolato LE REGINE DELLA GIUNGLA, dedicato alle “tarzanelle” a stelle e strisce, con storie inedite in Italia firmate da grandi autori come Lubbers, Powell, Fletcher, Kamen, Webb e altri ancora, e l’albo dedicato a SERGIO TARQUINIO – Un disegnatore per l’avventura, uno studio di oltre 200 pagine su uno dei disegnatori italiani che maggiormente ha improntato col suo stile un lungo periodo del fumetto italiano.
La quota sociale per il 2005 è di 75,00 euro (110,00 euro per l’estero). Per le modalità di adesione e di pagamento, visitare la home page del sito www.amicidelfumetto.it
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