Recchioni e Accardi: due samurai italiani per Chanbara

Recchioni e Accardi: due samurai italiani per Chanbara

Roberto Recchioni e Andrea Accardi fanno tappa a Padova nel corso del loro tour di presentazione di "Chanbara: il lampo e il tuono". Sceneggiatore e disegnatore parlano della genesi dell'opera, del loro percorso artistico e svelano le loro fonti d'ispirazione.

Mercoledì 14 novembre si è svolta a Padova, presso la libreria Feltrinelli in via S. Francesco 7, la presentazione di Chanbara: il lampo e il tuono, il primo volume di una nuova collana pensata da Sergio Bonelli Editore per le librerie di varia. Roberto Recchioni e Andrea Accardi, rispettivamente sceneggiatore e disegnatore dell’opera, hanno incontrato gli appassionati, raccontando la genesi del prodotto e della storia e rispondendo alle domande del pubblico.

Prende subito la parola Recchioni per fare luce sulla natura dell’iniziativa, specificando che Chanbara: il lampo e il tuono è la terza storia dedicata ai samurai, ma è il primo volume di una nuova collana. Si sofferma su questa parola ed evidenzia il fatto che si tratti di un esperimento, figlio della sua tendenza a provare nuove soluzioni all’interno di Sergio Bonelli Editore.

In questo caso la ricerca riguarda un altro tipo di serialità, motivo per cui la serie Chanbara farà tutto il suo percorso in libreria di varia come i volumi alla francese, ogni quattro o sei mesi, fino a completare l’arco narrativo che prevede circa nove uscite (comprese le due storie già stampate nella collana Le Storie e in un volume edito da Bao Publishing). Quindi, solo dopo la pubblicazione delle sette storie inedite e delle due già edite, la serie raggiungerà le edicole.

Lo sceneggiatore romano motiva la scelta e spiega che il mercato delle edicole è sempre meno ricettivo nei confronti delle opere che non sono ormai consolidate nella mente del lettore. Pertanto, mentre Tex e Dylan Dog in edicola vivono serenamente, i prodotti nuovi fanno molta fatica. Da qui l’idea di arrivare in edicola con le spalle già coperte da un buon successo nelle libreria di varia italiane, in alcune delle quali gli autori si stanno recando nel corso del loro lungo tour di presentazione dell’opera dopo la positiva accoglienza ricevuta a Lucca Comics & Games 2018.

Specificati questi aspetti più tecnici, Recchioni torna al momento in cui ha presentato il soggetto della sua prima storia ambientata nel Giappone feudale di epoca Tokugawa, La redenzione del samurai, pensata per la pubblicazione all’interno della collana Le Storie. Questa collana immaginata da Mauro Marcheselli, allora direttore della Bonelli, doveva raccogliere il testimone di una storica iniziativa della casa editrice: Un uomo un’avventura. Per realizzare il secondo volume, dopo Il boia di Parigi di Paola Barbato, fu chiamato proprio l’attuale curatore di Dylan Dog che propose il soggetto e il disegnatore a esso connesso, Andrea Accardi.

Poiché l’artista palermitano precisa che in quel momento era ancora in prova presso la Bonelli, lo sceneggiatore chiarisce la propria convinzione nel fatto che il collega sarebbe stato perfetto per quel contesto, avendone ammirato il lavoro svolto per i Kappa Boys.
In quel periodo Recchioni scriveva ancora John Doe e chiese ad Accardi di collaborare alla serie, egli accettò offrendo le proprie matite a Nelle fauci della follia, sesto numero della serie ideata dallo sceneggiatore romano insieme allo scomparso Lorenzo Bartoli; un albo che fu un punto di svolta del primo anno di pubblicazione. Quello fu l’inizio del sodalizio tra i due, che si consolidò e arrivò all’apice, continua Recchioni, quando si ritrovarono per realizzare La redenzione del samurai.

In quell’occasione gli autori non partivano certo avvantaggiati: Marcheselli li aveva messi in guardia dicendo che Sergio Bonelli non tollerava due generi di storie: quelle con i pirati e quelle con i samurai. Tuttavia, proprio il direttore editoriale dell’epoca credette fortemente nel progetto presentatogli, una volta viste le prove di Accardi, e lo portò a Bonelli che gradì e diede il benestare anche per il secondo episodio della saga, I fiori del massacro. Entrambi i racconti, dopo essere stati pubblicati in bianco e nero nella collana Le Storie, vennero raccolti da Bao Publishing in un volume intitolato Chanbara.

A questo punto, lo sceneggiatore di John Doe coglie l’occasione per chiarire le motivazioni dietro le differenze tra il cartonato stampato dalla Bao e il nuovo libro della Bonelli, spiegando perché quest’ultimo sia stato realizzato interamente in bianco e nero, persino nella copertina (una novità per Sergio Bonelli Editore), mentre per il primo si sia optato per il colore: questa strategia rendeva infatti il volume più appetibile per il mercato estero, come dimostrato da Orfani, serie per la quale Recchioni si occupò anche degli aspetti produttivi.

Così per Chanbara cercò dei coloristi che dessero il loro apporto autoriale sul piano emozionale ma, sebbene sia rimasto soddisfatto della pregevole fattura dell’oggetto, ritenne già da allora che qualcosa si fosse perso rispetto alla versione in bianco e nero. Dunque, per la nuova serie da mandare in libreria di varia, insieme ad Accardi, ha deciso di tornare al bianco e nero, in un formato più grande di quello dell’edizione Bao, per dare maggior risalto alle tavole del disegnatore.

Dopo questo passaggio il discorso vira verso la nascita di Chanbara dal punto di vista contenutistico. Recchioni parla del momento in cui ha affrontato la stesura della sceneggiatura, definendolo “molto particolare”: dopo aver portato il suo stile di scrittura tipico all’apice estremo in David Murphy 911, in cui faceva “esplodere” le pagine, riempite di battute post-moderne e di scene molto dinamiche, voleva andare verso un’altra direzione, portando alla Bonelli l’esperienza accumulata grazie alla scrittura di alcuni numeri di Diabolik che gli aveva insegnato l’importanza del rigore e della disciplina, della sintesi e della concretezza. Ancora, desiderava realizzare un fumetto che funzionasse in sé e per sé, senza dover inserire una parte della sua anima sanguinante come aveva fatto in Mater Morbi, albo di Dylan Dog che aveva riscosso gran successo.

L’autore continua e racconta di aver chiesto al collega di attenersi alla disciplina ferrea con la quale aveva impostato la storia e la gabbia. Il punto di riferimento era l’haiku, una forma poetica giapponese che, sebbene sia rigidissima, non ha impedito ad artisti come Basho di esplorare una gamma di sentimenti infinita. Questa rigidità, che però offre anche la possibilità di esaltare con forza ancora maggiore il contenuto dell’opera, è molto cara a Recchioni che si dice tuttora orgoglioso della sceneggiatura de La redenzione del samurai, ricordando con ammirazione il balzo in avanti compiuto da Accardi, che per disegnarla non copiò meccanicamente i manga ma si comportò come un nipponista francese dell’Ottocento, andando a guardare all’arte giapponese e al Giappone in sé.

Chiamato in causa, il disegnatore parla del suo primo approccio con la massa narrativa, dicendo di aver accolto con entusiasmo la proposta di lavorare a una storia di samurai, forte anche dell’esperienza maturata con Il viaggio di Akai, racconto ambientato nel Giappone moderno, scritto da Massimiliano De Giovanni e pensato per il mercato francese. Il suo tratto, inizialmente sintetico e impostato sulla lezione di Mike Mignola, si stava già evolvendo nella direzione di una maggiore cura per il dettaglio e gli sfondi, ma fu proprio la nuova collaborazione con Recchioni, unita alla comune passione per il Giappone, a stimolare la ricerca artistica.

Accardi ricorda come al momento di cominciare conoscesse principalmente gli artisti Katsushika Hokusai e Utagawa Hiroshige, il regista Akira Kurosawa, autori di manga come Jiro Taniguchi. Ispirato da questi pochi nomi ha dato il via al lavoro e, nel proseguire, la mole di informazioni e documentazione è aumentata sempre di più: si sono aggiunti tanti artisti e illustratori giapponesi, anche più moderni, e registi che hanno girato film del genere Jidai Geki o Chanbara.

Parlando di cinema il discorso si sposta, a titolo d’esempio, sul film Zatoichi di Takeshi Kitano, poiché la pellicola ha dato modo al disegnatore palermitano di approfondire questo personaggio del folklore nipponico, uno spadaccino cieco che attraversa il paese presentandosi come un massaggiatore e portando una lama celata nel bastone. Proprio a questa figura si rifà Ichi, character che ritroviamo anche ne Il lampo e il tuono, storia nella quale Accardi sostiene di essere riuscito a concentrare tutto ciò che aveva appreso nello studio del cinema e del fumetto giapponesi, citando i manga Vagabond di Takehiko Inoue e Lone Wolf and Cub di Kazuo Koike.
A questi titoli si legano le digressioni dei due autori: definiscono Inoue il più grande disegnatore realistico di tutti i tempi e ammettono di aver scelto di non ispirarsi troppo al suo tratto perché inavvicinabile; di Lone wolf and cub parlano come di un capolavoro assoluto, ricordando come Frank Miller sia diventato uno dei più grandi nipponisti americani dopo che Chris Claremont gli suggerì di leggere proprio il manga di Koike.

A proposito di Miller, tra le opere dell’americano Recchioni cita Ronin, fumetto decisivo nella propria formazione personale, perché perfetta sintesi di elementi di narrazione e di regia giapponesi uniti alle influenze di Moebius e di Hugo Pratt.
Sempre restando ai fumetti, Accardi nomina Vittorio Giardino e Magnus, fondamentali nel suo avvicinarsi a una linea chiara, Alex Raymond, Dino Battaglia e Sergio Toppi, senza dimenticare che le sue origini sono da ricercare nei primi cartoni animati giapponesi giunti in Italia alla fine degli anni Settanta.

Anche Recchioni parla delle sue fonti di ispirazione, annoverando i film di Sam Peckinpah, di Takashi Miike e di Kurosawa, in particolare La sfida del samurai e il suo seguito, Sanjuro, che mostra anche un umorismo e un’umanità confluiti in alcuni siparietti comici de Il lampo e il tuono, utili per spezzare la crudezza della vicenda. Oltre a queste pellicole ricorda l’importanza che ha avuto per lui il western e spiega come questo genere abbia spesso saccheggiato le storie di samurai per trasformarle in vicende di pistoleri. Si sofferma sul fatto che I magnifici sette di John Sturges sia un bellissimo remake de I sette samurai di Akira Kurosawa, rammenta che Sergio Leone ha plagiato La sfida del samurai per realizzare Per un pugno di dollari e che George Lucas ha guardato a La fortezza nascosta, sempre di Kurosawa, per la porzione centrale di Star Wars.

Proprio al peso del western nella formazione dello sceneggiatore si devono due fatti. Anzitutto che Sergio Bonelli apprezzò il meccanismo de La redenzione del samurai, poiché riconobbe che la matrice di fondo era esattamente il western; in secondo luogo, come il western non racconta il West ma prende un contesto storico e lo trasforma in mitologia, così volutamente Recchioni e Accardi non hanno specificato in quale anno dell’epoca Tokugawa si svolgono le avventure di Ichi e compagni. I due intendono giocare col mito, rimanendo fedeli a una verosimiglianza, soprattutto sul livello visivo, figlia di studi accurati della Storia.

In questo frangente, il disegnatore richiama alla memoria le ricerche fatte per capire e rappresentare il teatro giapponese, un’arte costellata di regole e codici come tanta parte della tradizione nipponica. A questa tradizione ha guardato per dare vita alle storie di Chanbara arrivando a studiare attentamente come dovesse essere piegata una lettera scritta nell’epoca Tokugawa.

Il microfono torna nuovamente a Recchioni che a questo punto parla brevemente dei personaggi del fumetto, raccontando che aveva pianificato fin dall’inizio la formazione di una quartetto. Il numero non è casuale: ogni character corrisponde a uno dei pard della serie più famosa della Bonelli. Quindi, Daisuke è Tex, con tanto di fazzoletto nero al collo, Ichi è Carson, Tetsuo è Kit Willer, la letale June è Tiger Jack: si tratta della versione giapponese e personale dello scrittore romano degli eroi che ama, dei quali è anche sceneggiatore.
Inoltre, alcune parole sono riservate al futuro della collana: oltre al curatore di Dylan Dog ai testi troveremo Gabriella Contu che scriverà due storie, una per i disegni Walter Venturi e una per Isabella Mazzanti; al tavolo da disegno si siederanno poi anche Paolo Bacilieri e Werther Dell’Edera.

Dopo le anticipazioni tocca alle domande del pubblico e la prima riguarda la possibilità che venga realizzata anche un’edizione inglese di Chanbara. La risposta è che questa vedrà la luce se un editore straniero si dimostrerà interessato a comprare il fumetto, fermo restando che la produzione americana è molto elevata e che il mercato statunitense è molto protettivo.

Un altro quesito chiama in causa il passato di Ichi, ma Recchioni precisa che al momento non sente il bisogno di svelare di più del suo spadaccino cieco, ricordando che per venticinque film di James Bond si sapeva ben poco e che non si sentiva la necessità di aggiungere dettagli alla sua figura, tanto efficace perché vero e proprio vettore narrativo universale.

Un appassionato chiede se il personaggio di Daisuke sia ispirato anche al bandito del film Rashomon di Kurosawa e gli autori confermano che sono presenti alcuni elementi tratti dalla pellicola, mescolati ai tratti del Brancaleone di Vittorio Gassman, alle figure di Toshiro Mifune e Miyamoto Musashi, sebbene in concreto Daisuke non sia nemmeno un ronin.

Quando il microfono arriva a noi, chiediamo allo sceneggiatore se esista una relazione tra le splash-page rintracciabili in Orfani, nel primo capitolo del Ciclo della meteora di Dylan Dog da lui scritto e in Chanbara e se nell’impostazione delle tavole sia importante il fatto che tutti questi fumetti siano caratterizzati dalla presenza della continuity, altro elemento cardine del fumetto americano.

La risposta è molto precisa e articolata: l’autore predilige una gabbia ordinata e rigida ma talvolta sente la necessità di un’apertura che si può tradurre in una splash-page spettacolare o in una che invece di accelerare il tempo spinga il lettore a fermarsi per guardare i dettagli, quindi di una tavola più contemplativa rispetto alla versione tipica americana che “esplode in faccia” al lettore. Mentre su Orfani ha scelto di inserire tante splash-page proprio con lo scopo di ottenere l’effetto “in your face“, su Chanbara l’approccio a questo strumento è diverso e generalmente sono usate per motivi narrativi. Concretamente, ne troviamo una con la presentazione di Daisuke, pensata proprio per suggerire che l’uomo è troppo grande per essere contenuto in una sola vignetta. Più avanti, una spread-page deve fermare il momento: l’esplosione di violenza è spettacolare, ma devono esserci tantissimi elementi diversi, tantissimi dettagli che portano a fermarsi a guardare la composizione formale, capace di trasformare la violenza in una cosa allo stesso tempo respingente e bellissima.
Il discorso sulla gabbia di Chanbara prosegue e chiama in causa Watchmen di Alan Moore, dov’è presente la griglia da nove vignette, usate dal bardo di Northampton – spiega Recchioni – come se fossero unità di tempo che scandiscono la storia.

A questo punto cogliamo la palla al balzo per chiedere all’autore di Orfani cosa pensi del lavoro di Tom King che nei comics sta usando spesso la griglia da nove vignette. Ci viene risposto che la soluzione è molto bella perché consente di inserire tantissimi dialoghi in movimento senza rallentare il ritmo della narrazione, e conveniente perché permette di giocare molto con le espressioni facciali, sebbene abbia in alcuni casi il difetto di far finire troppo presto un albo di una ventina di pagine.

Infine, le ultime parole sono per la continuity di Chanbara: ogni volume che esce in libreria non sarà numerato e, per quanto ci sia una continuity, è realizzato per essere letto e capito perfettamente in modo autonomo, fermo restando che se il lettore leggerà le storie cronologicamente noterà la naturale progressione del racconto.

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