Durante Lucca Comics&Games 2022 abbiamo avuto il piacere di intervistare Iris Biasio, autrice di Mia sorella è pazza, pubblicato nel 2022 da Rizzoli Lizard e vincitrice ex aequo del Premio Cecchetto come artista rivelazione al Treviso Comic Book Festival 2022. L’autrice ci ha raccontato del processo creativo alla base della sua ultima opera, della difficoltà di trattare certi temi, di seguire l’ispirazione e di razionalizzarla, del bisogno di essere “esatti” quando si racconta la storia di qualcuno.
Buongiorno, Iris e grazie per questa intervista. Mia sorella è pazza incrocia diversi temi e riesce a raccontare come qualcosa di incomprensibile sia circondato da altre complessità. Potremmo dire che al centro c’è il comportamento di Rita, ma troviamo il rapporto tra sorelle, il senso di colpa di Francesca, la fede di Edo, le cure del medico. Da dove nasce questa storia così sfaccettata?
Lavorare al fumetto è stato un percorso lento, proprio perché la storia presentava varie sfaccettature. Man mano una serie di cose che mi stavano attorno sono andate a convergere: persone reali che ho conosciuto, situazioni in cui mi sono trovata, libri che ho letto. Il lavoro vero è stato far emergere il senso che già c’era in questo background. I materiali erano tutti lì, alcuni più nascosti, altri meno, bisognava mettere ordine. L’obiettivo era rendere chiara una cosa che rischiava di essere molto fumosa e difficile: volevo riuscire a dare vita a un’opera armoniosamente concreta facendo lavorare insieme tutti gli aspetti di un tema più grande e sento che alla fine questi sono andati a convergere in un’unica direzione.
È un discorso che si può applicare anche agli spazi, molto diversi fra loro: troviamo il bosco, Venezia, la clinica. Peraltro, il bosco è associato alle fiamme e alla paura, mentre Venezia all’acqua e alla sua simbologia. Come hai lavorato al concetto di spazio nel tuo fumetto?
Ho scelto questi posti innanzitutto perché mi piaceva disegnarli. Come dicevo, spesso si parte da un materiale da cui poi si deve estrarre un senso. Almeno, a me piace lavorare così: seguo una suggestione molto forte e solo dopo la razionalizzo, riesco a tradurla. La sensazione iniziale dev’essere trasformata in un’altra cosa che, se possibile, sia più potente di quella che era una mera suggestione. Penso sia stato così anche per i luoghi. Ho sempre cercato di renderli vivi e partecipi, in alcuni casi anche sordi: la non-risposta fa male e ne emerge uno spazio che soffoca, come nel caso di Venezia che toglie il respiro in quanto paesaggio liquido, una città che sta perennemente affondando. Certo, è meraviglioso disegnarne i canali o i riflessi, ma razionalizzando si scopre quanto è profonda quell’acqua. Per i luoghi del mio fumetto è stato così.
Nel tuo fumetto molto ruota attorno a qualcosa che non c’è, soprattutto rispetto al disagio di Rita. Un’assenza che, con un impatto molto forte, hai deciso di disegnare. Come pensi che Mia sorella è pazza possa raccontare l’invisibile? E, nello specifico, il tuo modo di fare fumetto?
In effetti è stato uno dei problemi principali: Rita nella propria vita ha percepito una mancanza, quella della madre, di conseguenza ho dovuto cercare un modo per renderla sulla pagina. Ho disegnato altro per rimandare a questa assenza. Il non aver percepito la figura materna ha innescato una serie di problematiche nello sviluppo della sua personalità, già particolare. Sono cose che capitano quotidianamente, non è necessario nascere in una famiglia disfunzionale o violenta perché si creino traumi profondi nelle persone. Ecco, in relazione a questi temi si possono fare molti giochi col fumetto: scelgo cosa fare vedere, ma spesso è più importante ciò che scelgo di non fare vedere. La grammatica del fumetto si basa proprio su questo: lo spazio bianco, c’è un motivo se è così importante. Tante volte è più presente quello che il lettore non vede e che può comunque immaginare. Penso che giocare con l’assenza sia una delle cose che lascia aperte più possibilità, proprio grazie alla natura del medium fumetto.In un periodo in cui si parla tanto della fine del mondo (o di diverse possibili fini del mondo) tu racconti un’apocalisse tutta personale. Perché questa scelta?
Ho trovato l’espressione “È come vivere la fine del mondo” studiando delle casistiche reali di persone che vivono varie forme di psicosi. Naturalmente ci sono profonde differenze tra un caso e l’altro, ma mi aveva colpito leggere delle descrizioni anche molto poetiche riportate da medici, psichiatri e pazienti di questi stati terribili. Se almeno un minimo di questa sensazione è passata nel mio fumetto sono contenta, perché è difficile affrontare simili tematiche senza renderle o patetiche o troppo leggere.
Non volevo sdrammatizzare, ciò che cercavo era di essere esatta. Concretamente esatta, il più possibile. Non ho vissuto quel tipo di esperienza, ma mi sono sforzata di restituire una cronaca calda di questo modo d’essere. Se avessi usato molta terminologia medica il racconto ne sarebbe uscito raffreddato, mentre se avessi lasciato troppo spazio al vagare poetico, si sarebbe persa la potenza. Ecco, se una diga aperta può essere totale poesia e un canale di cemento invece è scienza e calcolo, io ho cercato di raccontare il fiume. La riva del fiume cambia sempre, vi si creano diversi microclimi, è qualcosa di vivo in continuo cambiamento ma segue comunque una direzione precisa: il mare. Volevo la precisione, ma senza forzarla, senza raffreddare.
Quali fonti e materiali hai usato per scrivere questa storia?
Tanti libri di filosofia. Pochi fumetti, ne tenevo alcuni vicino mentre disegnavo, più per questioni di regia. Oltre alla filosofia ho letto con moderazione saggi di psicologia, come anche i testi di Eugenio Borgna, che sono stati fondamentali soprattutto per rendere l’esperienza della psicosi. E poi qualche film: la produzione di Ingmar Bergman mi ha dato tanti spunti iniziali per tematiche come il non detto, il silenzio di Dio. Mi risuonavano, sentivo che lui li stava raccontando molto bene e volevo trovare il mio modo per fare altrettanto.Rispetto al disegno, si vede una certa influenza del manga, con personaggi ben caratterizzati in pochi tratti e sfondi realizzati con un disegno più dettagliato e realistico. Come hai lavorato alla resa grafica del fumetto?
Ho lavorato molto per trovare l’equilibrio giusto. Alla fine mi sono trovata alle mie origini: ho iniziato a disegnare fumetti come tanti altri, proprio leggendo manga. Mi piace il fatto che con pochi tratti puoi già sentire il personaggio vivo e ben caratterizzato.
Sfruttare un espediente immersivo è utile, come dice anche McCloud: se disegno una maschera cartoonesca e stilizzata, molte persone potranno riconoscervisi e indossare quella maschera, entrando in un mondo che va a toccare la sensorialità e il piacere anche estetico della lettura. Io per prima come lettrice adoro quando succede.
E riguardo al colore? Come mai questa scelta dell’arancione?
Ho provato una serie di mezzetinte. Anzi, all’inizio avevo provato il bianco e nero puro, ma non mi soddisfaceva, così sono arrivata a un verde oliva che stava bene solo in certe sequenze. Poi sono andata a rivedere i lavori di Edvard Munch, un autore che adoro e che ho studiato. C’erano delle litografie in cui utilizzava questo arancio-nocciola, in particolare una stampa in cui è raffigurato un pesce mostruoso arenato sulla spiaggia, con una ragazzina inginocchiatagli accanto.
Volevo lo stesso effetto, erano la luce e il colore giusti. All’inizio l’avevo usato solo per le parti di flashback, con le scene ambientate nel presente ancora verde oliva. Poi ho realizzato che mi piaceva di più questo arancio antico: mi son detta che i flashback si capivano anche senza l’aiuto del colore, così ho messo l’arancione in tutto il fumetto. Poi in fase di editing lo abbiamo reso più dorato e luminoso, in modo che si leggessero meglio il disegno e il bianco e nero. Sono molto contenta del risultato, è diventato tutto più luminoso, solare.Sempre dal punto di vista del disegno, c’è stato sicuramente un grande lavoro sulla resa grafica delle emozioni, del panico, della pazzia, di momenti onirici e flussi di coscienza. Com’è stato lavorare al disegno di questi elementi?
In una prima fase cercavo di rendere le emozioni in modo più realistico, ma mi sentivo bloccata. Lì ho capito che dovevo andare più verso il cartoon. Ho anche guardato dei video di interviste di alcuni pazienti psichiatrici che sono state girate in Francia negli anni ’70.
Ho visto aspetti e modi di fare che non avrei potuto immaginare, come ad esempio lo sguardo di una persona che soffre di psicosi depressiva o l’inclinazione del capo, la costruzione di un discorso, l’atteggiamento corporeo. Quei filmati mi hanno aiutata, soprattutto per rendere i caratteri di alcuni pazienti che compaiono nell’ambiente della clinica. Non volevo che fossero solo comparse, cercavo precisione e dignità anche per la loro storia.
Nel fumetto c’è un forte riferimento all’iconografia sacra cristiana, insieme a un rapporto con Dio profondo e complesso. Che rapporto c’è tra il tuo modo di fare fumetto e questo universo (religioso e iconografico)?
Mi ha sempre affascinata. Ho trovato terreno fertile nei miei primi anni di studio all’Accademia, perché l’ho frequentata a Venezia. Lì ad ogni angolo ti puoi infilare in una chiesa meravigliosa, anche la città è ricca di riferimenti a questa dimensione iconografica del sacro. Di conseguenza è comparsa anche nei miei fumetti, soprattutto in una piccola autoproduzione, La casa dei garofani, che la mia etichetta NeroVite ha coprodotto con MalEdizioni. Lì mi sono proprio sfogata, l’ho inserita perché mi piace.
In Mia sorella è pazza ho ripreso questo interesse, ma per dire qualcosa di mio, per far dire qualcosa ai personaggi. Ritorna il tema del silenzio di Dio: quella solitudine può essere anche quella di Rita che non ha sentito la presenza della madre, sono cose che si rifanno a una sorgente comune. Inserendo quell’iconografia avevo modo di rivisitarla. Mi ha anche permesso di giocare con le forme, i contenuti, le allegorie. Nel Medioevo, nel Rinascimento, nel Barocco, ci sono tanti di quei riferimenti che non si possono immaginare. Studiando la Storia dell’arte scopri che in un quadro c’è un libro intero: questa stratificazione mi ha sempre affascinata.
Ti faccio un’ultima domanda di rito: stai già lavorando o pensando a qualcosa di nuovo?
Pensando sì, molto. Sono in una fase di recupero forze dopo questo lavoro, ma c’è un sentimento di libro. Diciamo che non è ancora stato tradotto: è tutto materiale grezzo, devo ancora capire che forma dargli. So che vorrei fare qualcosa di diverso.
Intervista realizzata dal vivo il 31 ottobre a Lucca Comics and Games 2022
Iris Biasio nasce nel 1994 in provincia di Padova. Illustratrice e fumettista, nel 2016 ha creato il progetto NeroVite con cui ha pubblicato racconti brevi come Storia di Mu (2016), Ommatokoita (2018) e La casa dei Garofani con MalEdizioni (2019). Collabora con la rivista online di graphic journalism STORMI. Nel 2022 pubblica con Rizzoli Lizard Mia sorella è pazza, fumetto con cui ha vinto ex aequo il premio Cecchetto come artista rivelazione al Treviso Comic Book festival 2022.