La domanda spontanea che un lettore può porsi avvicinandosi a Qual è il posto più lontano da qui, fumetto di Matthew Rosenberg e Tyler Boss (Quattro ragazzi entrano in una banca), con lettering di Hassan Otsmane Elhaou, edito negli USA da Image Comics e portato in Italia da Bao Publishing, è: “era davvero necessaria un’altra storia postapocalittica?”.
Al termine della lettura del primo volume che racchiude l’arco iniziale della serie (#1-6), la risposta è altrettanto spontanea: “sì, perché non si tratta solo di una storia postapocalittica”.
Gli autori utilizzano infatti quel filone della fantascienza che guarda oltre la fine della società umana (spesso abusato), come un’ampia cornice nella quale allestire un proficuo e variegato connubio di generi. Un amalgama che, con un setting avventuroso, spazia dal romanzo di formazione al dramma psicologico e abbraccia tematiche che vanno dalla ricerca di un senso attraverso forme alternative di idolatria all’importanza della famiglia.
I protagonisti di Qual è il posto più lontano da qui sono i ragazzi sopravvissuti alla fine del mondo in forza all’Academy, una famiglia punk postmoderna che agisce in un territorio definito da confini e leggi. A vigilare sulla nuova società ci sono gli imperscrutabili Estranei, elemento mistery della storia e probabili ideatori di un patto che stabilisce le regole di convivenza (e di ingaggio) fra i vari gruppi.
La base dell’Academy è un vecchio negozio di vinili, trasformati in una sorta di oggetti di culto e utilizzati come preziose reliquie identitarie legate a un afflato religioso che ha come cardini l’esaltazione della gioventù, la denigrazione dell’anzianità e la conseguente messa al bando dei vecchi.
La filosofia delle varie famiglie – ognuna con peculiarità proprie e tratti distintivi evidenziati anche grazie alla caratterizzazione visiva – sembra evitare le domande scomode e i ragionamenti troppo audaci: qualsiasi ipotesi su chi siano gli Estranei, su cosa ci sia oltre i quartieri dove vivono e su possibili altre realtà, viene evitata o ostracizzata. I ragazzi vivono quindi in un di clima di accettazione, privi del desiderio di conoscenza e abituati a ignorare il funzionamento di vecchi oggetti che li circondano, come una TV o un videoregistratore, o nozioni biologiche fondamentali come la gravidanza. E in questo clima sociale posticcio è spesso necessario ricorrere alla forza o a un surrogato di religione.
Un atteggiamento che non piace però a Sid, ragazzina incinta che sembra aver scambiato il pancione per una malattia sconosciuta e che sin dalle prime pagine dimostra un carattere sfaccettato in bilico fra dolcezza, ingenuità, cocciutaggine e idealismo. È lei a provocare l’incidente che spinge l’Academy fuori dal mondo ordinario: la sua scomparsa causa una serie di effetti e ripercussioni sulla famiglia, spinta infine a seguire le sue tracce in un’avventura dura che ne stravolge la composizione. Alabama, Prufrock, Mallory, Oberon e il resto dei protagonisti affrontano una ricerca che diventa ben presto una lotta per la sopravvivenza e che porta il gruppo a confrontarsi con gli Estranei e a riflettere sul mondo che abitano. Il tono corale di Qual è il posto più lontano da qui è senz’altro uno dei suoi punti di forza, grazie a caratterizzazioni forti e coinvolgenti, alla possibilità di variare protagonisti e punti di vista e alle vicissitudini che mettono in discussione i legami fra i ragazzi.
Il finale apre una vasta gamma di possibili scenari ed evoluzioni. Nonostante introduca almeno tre linee narrative da sviluppare in seguito e le numerose domande che restano in sospeso, la conclusione lascia comunque soddisfatti e con un sano desiderio di leggere al più presto il seguito della storia.
Rosenberg utilizza una narrazione lineare ma molto ritmata, di stampo principalmente drammatico ma che non lesina su simpatia, umorismo e approfondimento psicologico. L’ottima gestione del “non detto” crea inoltre suspence e curiosità e valorizza la lettura tutta d’un fiato.
Una caratteristica dominante del fumetto è la divisione in capitoli, ben 45 a loro volta inseriti in sei atti: alcuni sono brevissimi o addirittura di un’unica tavola (come nel caso del sesto) e creano un ritmo compresso e quasi costipato per i frequenti stacchi fra una scena e l’altra. Capita a volte che singole sequenze siano identificate con i capitoli in una costante azione di separazione e spezzettamento che, alla lunga, rischia però di infastidire. Nonostante questo, anche se il numero di capitoli avrebbe forse potuto essere ridotto, l’opera nel suo complesso risente positivamente della cifra stilistica evidente e delle scelte forti e consapevoli degli autori.
Un’altra particolarità in tal senso è l’interessante e gradevole uso dei volti dei vari personaggi in formato “avatar”, che compaiono in alcune situazioni per variare le meccaniche dei dialoghi. In certi casi si sostituiscono ai balloon limitando l’eccesso di didascalie e spostano anche dal punto di vista temporale i dialoghi fra le vignette e all’interno delle sequenze. La gestione di dialoghi taglienti, essenziali e cuciti sulle caratteristiche di giovani sopravvissuti a un’apocalisse mai esplicitata, l’uso di balloon e font diversi a scopo narrativo (vedi presentazione del Luna Park), oltre alla divisione in capitoli e agli avatar, conferiscono all’opera una connotazione moderna, che non stride e anzi ben si sposa a una gabbia che al contrario è in prevalenza classica.
Tyler Boss sfrutta un segno non troppo stilizzato e ricco di dettagli in una griglia a tre o quattro strisce con vignette regolari, intervallate da qualche splash o doppia splash. Raramente la tavola sfrutta montaggi più elaborati ma è giusto citare il ventottesimo capitolo (anche in questo caso composto da un’unica pagina), dove meno di mezza tavola ospita quindici mini vignette con controcampi laterali e un fitto dialogo.
La linea del disegnatore è spessa e ben si sposa al mood cupo e oppressivo delle ambientazioni, a volte definite con successo anche da immagini potenzialmente iconiche come la piramide di televisori “muti” presente nel diciassettesimo capitolo. Questo tratto volutamente pesante contribuisce inoltre alla resa delle espressioni per mezzo di ombre o sfumature spesso utilizzate sui volti in primo piano per trasmettere tensione, paura o altri stati d’animo.
I numerosi personaggi sono caratterizzati con particolarità fisiche distintive, come le calze smagliate di Mallory o il dente mancante e la voglia sul viso di David, e si riconoscono con facilità. Anche gli ambienti sono studiati con attenzione, come il negozio di dischi dell’Academy, con sfondi più essenziali ma sempre in grado di restituire la particolarità di luoghi solo in parte sfuggiti all’abbandono. Ad aggiungere profondità ai disegni ci sono i colori – gestiti sempre da Boss con l’assistenza di Clare Dazutti nei i primi due capitoli e di Shycheeks dal terzo al sesto capitolo – fondamentali per inquadrare le famiglie ma anche per l’interpretazione dei punti luce.
Abbiamo parlato di:
Qual è il posto più lontano da qui
Matthew Rosenberg, Tyler Boss
Traduzione di Leonardo Favia
Bao publishing, 2023
272 pagine, brossurato, colori – 22,00 €
ISBN: 9788832738285