The Punisher: il trauma della guerra secondo Marvel/Netflix

The Punisher: il trauma della guerra secondo Marvel/Netflix

Guerra, vendetta, trauma post bellico. Marvel e Netflix tornano a convincere con The Punisher, parlando di un paese braccato dai proprio demoni.

Quando Jon Bernthal ha fatto il suo esordio nei panni del Punitore durante la seconda stagione di Daredevil, gli spettatori (sia fan di vecchia data che non) hanno avuto un sussulto. Un personaggio intenso e interessante che intraprende uno scontro etico (e a volte fisico) con il protagonista, creando un’interazione complessa e stratificata, che va a scavare nel profondo il confine spesso sottile tra supereroe e vigilante.

Il Punitore, uno dei più amati e controversi “eroi”di casa Marvel, aveva già fatto il suo esordio nel mondo della celluloide addirittura nel 1989 con un film, Il Vendicatore (secondo l’assurda traduzione italiana), interpretato da Dolph Lungren, che tradiva completamente il concetto stesso del personaggio a fumetti.

Dopo quel primo disastro, né il film del 2004 (interpretato da Thomas Jane) né Punisher:War Zone del 2011 erano riusciti a rendere giustizia allo spirito del personaggio creato sulle pagine dell’Uomo Ragno da Gerry Conway, Ross Andru e John Romita Sr e portato al successo da autori come Len Wein, Frank Miller, Chuck Dixon, Archie Goodwin fino a Garth Ennis, che per molti ne ha scritto la versione definitiva.

E proprio dalle storie di guerra di Ennis prende spunto il personaggio televisivo, che si è guadagnato una serie personale trasmessa da Netflix il 17 novembre 2017.

Semper Fidelis: il Punitore, l’attualità e i grandi demoni degli USA

Come già visto in Daredevil, una delle principali differenze tra fumetto e serie televisiva risiede nella scelta delle nemesi e della vendetta di Frank Castle: se nei comics il principale nemico è la criminalità organizzata, la serie Netflix costruisce una storia più complessa che si intreccia intimamente con l’attualità politica degli USA, nonché con alcune tematiche radicate nella società americana. In questo modo, The Punisher non è più solo una serie di “supereroi” fine a se stessa (come Iron Fist, the Defenders e in parte Daredevil), ma diventa un racconto capace di interfacciarsi con il mondo reale, come già fatta in parte nei serial Jessica Jones e in alcuni passaggi di Luke Cage.

Il complotto che si cela dietro la morte della famiglia di Castle non è costruito da famiglie mafiose, bensì da reparti corrotti di quell’esercito di cui Frank ha fatto parte e per il quale ha commesso atrocità che lo tormentano ancora oggi.
Sebbene la storia si carichi di molti elementi già narrati in un modo simile nel mondo del cinema e il tema del complotto rischi più volte di crollare su se stesso, gli sceneggiatori sono bravi nel non calcare troppo la mano e scadere nel ridicolo o nell’assurdo. Buono anche il lavoro nel collegare gli eventi di questa serie a quelli visti in Daredevil, anche se chi non ha visto quest’ultima rimane sicuramente confuso da molti particolari che non vengono ulteriormente spiegati: dopo le operazioni di traffico di eroina guidate dal maggiore Schonoover, adesso veniamo a conoscenza delle operazioni di interrogatorio, tortura ed esecuzione fatte da Castle nel battaglione comandato dall’agente Rawlins in missione in Afghanistan.

Questo è il primo degli spettri che agitano l’America post-undici settembre e post Guantanamo, ovvero il contrasto interno alla “più grande democrazia del mondo” che in nome della sicurezza e della lotta al terrorismo ha adottato pratiche atroci e eticamente inaccettabili.
Un contrasto che è presente in Frank Castle, che viene portato a galla dall’ex analista NSA David Liebermann e su cui vuole fare giustizia l’agente dell’Homeland Security Dinah Medani. In questo senso, The Punisher si riconnette a opere cinematografiche recenti quali Zero Dark Thirty, Sicario o il documentario Taxi to the Dark Side, in cui il confine tra “buoni” e “cattivi” non è più così chiaro e in cui l’etica viene messa in discussione dalla real politik.

 

Un altro spettro tipicamente statunitense che prende forma in The Punisher e che ha come illustri antesignani capolavori come Taxi Driver e Rambo,  è il tema dei veterani e del trauma post bellico, che qui si salda anche con la discussione (sempre attuale) del controllo delle armi. Frank Castle è un uomo che non è mai rientrato a casa dal deserto afghano e che è tornato sul campo di battaglia non appena persa l’unica ancora di salvezza, un uomo che non può vivere senza guerra, con gli altri e soprattutto con se stesso.

Ma anche i personaggi che si muovono intorno a lui sono segnati allo stesso modo: dall’agente Medani, che ha perso un partner in guerra e deve fare giustizia, a Curtis, che aiuta gli altri per aiutare se stesso a superare i traumi, fino ad arrivare al giovane Luke Wilson, un ragazzo che ha perso il contatto con la realtà, che non ha più un posto nel mondo e che sente di essere stato tradito dal suo paese, puntato verso il nemico come una pistola, usato e abbandonato.
Questi è il personaggio forse più drammatico dell’intera serie, che si evolve fino a diventare tutto quello contro cui ha lottato, catturato da un populismo di stampo smaccatamente trumpiano e destinato a una sconfitta dolorosa e brutale.

Tutti questi temi sono rappresentati con una violenza non edulcorata e in alcune parti addirittura estenuante, violenza che diventa uno strumento narrativo per indagare queste tematiche e mostrare uomini ormai trasformati in macchine assassine e incapaci di ritornare alla realtà.
The Punisher diventa così una riflessione sulle conseguenze fisiche e soprattutto psicologiche che la guerra comporta, uno spaccato di grande narrativa americana su uno dei problemi più profondi e controversi della società americana.

Bentornato Frank: i personaggi e gli attori

 

Tutte queste tematiche sono messe in scena da un buon cast, in cui spicca senza dubbio un Jon Bernthal che dimostra una totale identificazione fisica e spirituale con il Punitore. L’attore, oltre ad avere la fisicità giusta per il ruolo, centra perfettamente il linguaggio del corpo, fatto di tic e scatti di ira devastanti, lo sguardo, talvolta rabbioso e crudele, talvolta perso e impaurito, nonché la voce, che esplode in grida animalesche di rabbia e che a volte mugugna e nasconde parole e sentimenti, un lamento roco che cela dolori e ferite impossibili da lenire. Un’interpretazione intensa ed efficace, che ci fa comprendere il personaggio, che fa prendere le sue parti senza però portare a una empatia completa, perché Frank è un uomo che ha oltrepassato il limite e Bernthal non fa che ricordarcelo in ogni inquadratura.

Gli altri personaggi, pur risultando in molti casi derivativi e già inquadrati in ben precisi meccanismi, ricevono delle buone interpretazioni.  Ebon Moss-Bachrach (Micro) si dimostra un ottimo comprimario, capace di bilanciare al meglio il protagonista con una attitudine meno violenta e più incline alla speranza, ma sempre tormentata dai propri demoni, che lo fanno aggirare come uno spettro di fronte a monitor in cui vede la propria vita (quella della propria famiglia) scorrere senza di lui. Amber Rose Revah (Dinah Medani) emerge come una donna forte e tenace, andandosi ad aggiungere alla convincente Simone Missick (Misty Knight) tra le fila delle comprimarie donna con un carattere solido e interessante, contrapposta a una sempre troppo stucchevole Deborah Ann Woll (Karen Page) la quale, pur avendo una continua crescita ed essendo sempre al centro di dibattiti etici importanti, manca a volte del carisma necessario.

Molto interessanti le parti di Jason R. Moore (Curtis) e Daniel Webber (Lewis Walcott): il primo, amico di vecchia data di Castle ed ex Marine che gestisce il recupero di altri veterani, rappresenta l’esatto contrario del giovane e disperato ex-soldato e la loro interazione crea un intenso, doloroso ritratto della vita da militari, grazie a interpretazioni convincenti e mai sopra le righe.

 

Il meno riuscito, oltre allo stereotipato e superfluo Agente Rawlins, è forse Billy Russo, miglior amico di Frank Castle ma anche suo nemico1: l’aspetto e la capacità recitativa dell’interprete Ben Barnes si adattano molto bene al personaggio, che risulta crudele, calcolatore e manipolatore al punto giusto, ma senza delle motivazioni forti e definite che ne definiscano il carattere.

Pur con queste limitazioni, sia i comprimari che gli avversari sono molto più strutturati e tridimensionali rispetto alle altre produzioni Marvel/Netflix, ponendo la serie alla pari di Jessica Jones e Daredevil in quanto a caratterizzazioni e realisticità.

Ritmo, trama, musica: gioie e dolori del connubio Marvel/Netflix

Il ritmo e la regia sono i punti dolenti di ogni serie Marvel fin qui prodotta, e The Punisher non è da meno: la struttura a 13 episodi sembra ormai un obbligo più che una esigenza narrativa e questo porta a una necessaria diluizione degli eventi e a un disequilibrio nel ritmo narrativo.
Nel caso in oggetto, dopo le prime due puntate la serie arranca un po’ fino a metà stagione e prende un ritmo sostenuto e costante solo nelle ultime cinque puntate.

Questo non è necessariamente un male, perché permette un maggior approfondimento dei personaggi e un tempo maggiore per i dialoghi, che risultano sempre molto convincenti e genuini, mai sopra le righe o forzati; al contempo però si ha l’impressione che magari un paio di episodi in meno non avrebbero influito molto su questo aspetto, garantendo invece un ritmo più serrato. Inoltre, l’ultimo episodio spezza un po’ l’idillio narrativo fatto di realismo e violenza militare, riportando il tutto a una narrazione più supereroistica per fondare le basi di una seconda stagione, anche se la riflessione finale di Castle da un senso compiuto a tutte le tematiche esposte poco sopra.

Anche la regia e la fotografia sono ambivalenti: alcune scene di guerra e di combattimento sono realizzate con grande maestria (lo scontro nella foresta, la battaglia a Kandahar, che riesce a unire adrenalina ed introspezione) e senza censurare alcun tipo di violenza, fatta di morti, sangue e pallottole, talmente vivida che in alcuni punti diventa disturbante (episodio 12).
Anche alcuni passaggi introspettivi o momenti più lenti sono curati in maniera molto attenta e ricercata, sia in termini di inquadrature che di luci (ad esempio il bagno purificatore di Dinah, o i sogni di Frank). In altre occasioni invece la regia e la fotografia appaiono molto meno curate, in particolare in alcune scene diurne in cui le luci sembrano eccessivamente sovraesposte e l’effetto è quello da fiction di seconda fascia.

Un plauso va invece alla scelta delle musiche e della colonna sonora, forse una delle costanti positive di queste produzioni: il tema introduttivo e principale è ben riconoscibile e il lavoro di Tyler Bates riesce a sottolineare i vari passaggi di scena, sfruttando un connubio tra stili diversi in cui le sonorità blues e la musica elettronica si incontrano per definire l’atmosfera di un thriller action tipicamente statunitense.
Anche la scelta di brani country (White Buffalo), blues rock (Tom Waits) o rock (Creedence Clearwater Revival) contribuisce a definire ed inquadrare l’atmosfera e il tono della serie.

The Punisher non è una serie perfetta, ma la sua capacità di interagire con il mondo attuale, di interpretare in maniera fedele ma non pedissequa le fonti, di calare i personaggi in un contesto diverso senza tradirli e di renderli credibili la rende una delle migliori serie Marvel per il piccolo schermo.

 

 


  1. Nel fumetto, Billy Russo è un sicario mafioso che dopo essere stato sfigurato dal Punitore ne diventa la nemesi, mentre nella serie tv è un ex-marine, compagno di Castle in Afghanistan 

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