Parodie Disney di ieri e di oggi – 4. Parodia o Adattamento

Parodie Disney di ieri e di oggi – 4. Parodia o Adattamento

Quarto appuntamento con l'approfondimento dedicato alle parodie Disney.

Per quanto il sub-genere delle Storie in Costume sia stato il più fecondo e abbia portato al maggior numero di ottime prove negli anni, anche questo paradigma è andato mutando nel corso dei decenni, quasi che il sempre maggiore peso dei personaggi più iconici e il sempre minore impatto dei protagonisti dei Classici della Letteratura o del Teatro sull’immaginario collettivo abbiano portato a un ribaltamento totale di prospettiva.

Le origini di questo quarto e ultimo tipo di Parodia, che autori e addetti ai lavori chiamano semplicemente Adattamento, sono ardue a definirsi. Fatta eccezione per l’anomalo Dottor Paperus di Luciano Bottaro, dominato dalla tragica figura del protagonista (di cui abbiamo parlato nei precedenti articoli di questa serie), le Parodie Disney hanno sempre avuto un tono farsesco o umoristico, indipendentemente dal registro dell’opera originale – tono che saltuariamente, quando i testi erano opera di Guido Martina, poteva diventare anche “acido” e cattivo. L’intento della parodia sensu stricto è da sempre la distorsione in senso comico, il porsi in posizione critica rispetto all’opera di primo grado, a volte con risultati derisori, altre volte con l’intenzione di diffondere e omaggiare, ma senza mai (o quasi mai) rinunciare al riso.

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Il finale malinconico di “Paperino di Bergerac”

Le prime incrinature in questo schema, che ha attraversato i decenni (Dottor Paperus a parte), le troviamo nello stesso Martina, che di tanto in tanto, in virtù della sua scrittura “schizofrenica”, riesce a inserire nelle proprie storie dei tocchi agrodolci che, proprio per questa loro singolarità, risaltano e sono capaci di incardinarsi nella memoria del lettore. È il caso, ad esempio, di Paperin Fracassa del 1967, complice anche il registro favolistico della storia, con la cecità di Biancaneve e la prova “mortale” dell’albero delle 3333 pere cui Paperino non si sottrae. Altro caso è Paperino di Bergerac, caratterizzata da un finale non meno malinconico di quello originale. Si tratta ancora di piccole eccezioni rispetto alla norma, minime eccentricità “esplorative”, volte forse a studiare un nuovo linguaggio e a preparare il terreno per ciò che sarebbe venuto dopo.

Il cambio radicale si ha nel 1982. L’artefice è sempre Guido Martina, che realizza una Parodia nella quale l’umorismo, la narrazione scanzonata e la reinterpretazione, quest’ultima tra le caratteristiche formali meglio definite di una parodia, si fanno completamente da parte. Stiamo parlando di Canto di Natale, storia illustrata da José Colomer Fonts e ispirata all’omonimo racconto di Charles Dickens.
Esattamente un anno prima che venga rilasciato, nelle sale di tutto il mondo, il quasi omonimo mediometraggio Disney diretto da Burny Muttinson, lo sceneggiatore piemontese ha l’idea di far interpretare a Paperone il personaggio cui deve il nome e l’iniziale caratterizzazione.
Che il racconto questa volta abbia uno stile diverso appare chiaro già dalla didascalia di apertura, che avvisa esplicitamente il lettore:

questa storia […] vuol far pensare oltre che divertire

come a segnalare un esplicito cambio d’intenzioni.

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La vignetta di apertura del “Canto di Natale” che sancisce un cambio di rotta nel genere parodistico.

Se dovessimo quindi, pistola alla tempia, indicare un “padre” dell’Adattamento Disney, questo sarebbe forse proprio Canto di Natale. Nelle sue settanta pagine, infatti, non troviamo alcuno stravolgimento della storia ideata da Dickens, nessuna riscrittura o travestimento burlesco. La vicenda si dipana in maniera esattamente sovrapponibile a quella raccontata dal romanziere inglese, fedele in molti dettagli (dai due gentiluomini in cerca di donazioni, al batacchio della porta di casa che si trasfigura nel volto di Marley), mutuandone anche buona parte dei dialoghi, seppur mondati dai passaggi troppo crudi per gli standard disneyani.

Complice l’innata somiglianza di Paperone con Ebenezer Scrooge e anche quella caratteriale tra i due nipoti, Paperino e l’affettuoso Fred, si ha davvero l’impressione di leggere una versione illustrata di A Christmas Carol, una “parodia” che ne lascia intatti fabula, estetica e messaggio finale. Chi conosce la carriera del “Professore” si può sorprendere leggendo una simile storia, non solo perché lontana dalle sue sceneggiature più celebrate e caratteristiche, ma proprio perché l’operazione di travestimento è davvero minima e costituita soprattutto da un lavoro di sintesi narrativa necessaria a condensare le numerose pagine del racconto originario in un fumetto dalla foliazione più contenuta.

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Il duro addestramento di Pluto nella parodia de “Il richiamo della foresta” di Guido Martina e Romano Scarpa.

Due anni più tardi, il Professor Martina si congeda dalla rivista cui ha collaborato fin dal primo numero con un ultimo esempio di quel genere che ha creato e contribuito a sviluppare: stiamo parlando di Buck alias Pluto e il richiamo della foresta, uscita a cavallo fra il 1984 e il 1985 per i disegni di un Romano Scarpa al culmine della propria maturità espressiva. L’Adattamento del londoniano Richiamo della foresta è operazione molto simile a Canto di Natale, sia per impostazione che per ambizione autoriale, mancando di fatto solo il cortocircuito mitologico tra i protagonisti. Anche qui registriamo la mancanza di qualsivoglia alleggerimento umoristico (Martina e Scarpa ricalcano in toto il mood drammatico del racconto ispiratore, con risultati quasi traumatici) e il ricalco pedissequo dell’opera di primo grado: fatti salvi gli ovvi cambiamenti operati per ragioni di politica editoriale (come ad esempio il destino di Topolino-Thornton, che non viene ucciso dagli indiani ma si dà più prudentemente alla fuga), l’unica vera discrepanza la troviamo nella riduzione della parte centrale, anche qui dovuta forse alla necessità di condensare la lunga avventura in un fumetto che potesse rientrare nelle canoniche due puntate da una trentina di tavole ciascuna. Il resto è, ancora una volta, una riproposizione molto precisa dello scritto di Jack London, in cui non si lesina sulla drammaticità di alcune sequenze, come quello dell’addestramento di Pluto-Buck, e che cerca di ricostruire il percorso interiore del cane protagonista: la scoperta della crudeltà umana, le capacità adattative e di sopravvivenza che è forzato a sviluppare, la crescente consapevolezza delle proprie capacità che lo rende più forte e feroce, di nuovo la fiducia negli umani quando sta quasi per arrendersi e infine, appunto, il richiamo della foresta, della vita selvaggia, che gli appartiene in maniera primordiale e che alla fine, morta (o, in questo caso, svanita) l’unica persona che lo teneva in bilico tra i suoi due mondi, prende definitivamente il sopravvento.

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La doppia splash page che introduce “Guerra e pace” di Giovan Battista Carpi.

È più o meno in questo momento, tra Canto di Natale e Buck alias Pluto, che nasce la parodia sensu largo, sempre seguendo la classificazione di Markiewicz. Ad oggi è difficile dire quanto di questa operazione di attribuzione, di sussunzione disneyana di un’opera apparentemente non “disneyanizzabile”, sia stata dettata da motivi autoriali precisi o non sia piuttosto dovuta a una qualche “stanchezza” pervenuta alla fine di una sequenza lunghissima e prolifica. Resta il fatto che la strada, come si suol dire, era tracciata.
Nel 1986 esce una delle Parodie più amate in assoluto, Guerra e pace di Giovan Battista Carpi, ispirata al capolavoro di Lev Tolstoj. Considerando la complessità dell’opera di primo grado, questa Parodia-che-parodizza-poco risulta straordinaria riuscendo a condensare in 65 pagine uno dei romanzi più lunghi della storia della Letteratura. La relativa fedeltà al narrato originario, la cura grafica strepitosa e la presenza di momenti tesi e seri (l’intenzione burlesca, come si diceva, sta gradualmente svanendo) fanno di questa una delle opere della maturità di Carpi, nonché una delle storie Disney italiane migliori di sempre.
Il fatto che l’omologo di Paperone, Paperon Paperzuckoff, si sia arricchito vendendo armi, l’incalzante incombere della guerra e la cura nel tratteggiare i personaggi di secondo piano, danno a questa avventura un sapore diverso dal consueto. Il maestro Carpi andrà anche oltre nella successiva Il mistero dei candelabri, Parodia con Cornice del classico di Victor Hugo I miserabili con qualche elemento preso da I misteri di Parigi di Eugene Sue, in cui gli argomenti angoscianti come la fame, la miseria e l’apparente impossibilità di scampare al proprio passato attestano un ulteriore passo avanti nei territori della sensibilità e della maturità.

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La prima tavola de “Il mistero dei candelabri” di Giovan Battista Carpi.

Sempre nel 1986 compare, sulle pagine di Topolino #1573, Paperinik e l’arca dimenticata di Bruno Concina e Massimo De Vita. Già da un po’ di storie il personaggio di Paperinik ha completato la sua trasformazione da vendicatore a vigilante (o supereroe che sia), prestandosi a ruoli decisamente meno “introspettivi” e seriosi rispetto ai primordi. L’arca dimenticata risulta quindi ingannevolmente in linea con le avventure coeve del papero mascherato, e potrebbe sembrare una Parodia come tante. In realtà il film a cui è ispirata, I predatori dell’arca perduta, ha già di per sé una forte componente ludica e umoristica, risultando essere esso stesso parodia di un certo tipo di cinema e letteratura avventurosa. Il suo andamento è infatti mimetico nei confronti di un certo tipo di fumetto “esagerato” (i due autori, Steven Spielberg e George Lucas, non hanno mai negato il loro debito verso Carl Barks, che citano esplicitamente proprio nella sequenza iniziale rifacendosi a una scena di Zio Paperone e le sette città di Cibola). Ancora una volta, quindi, quella che leggiamo non è una Parodia in senso stretto, ma una operazione similare a Canto di Natale e Buck alias Pluto, peraltro brillante nella scelta dell’opera di primo grado. Il fumetto ricalca il film quasi scena per scena, con difformità minime dovute alla necessità di eliminare gli aspetti religiosi (l’Arca dell’Alleanza che diventa una generica arca contenente il tesoro di un faraone), e alla necessaria eliminazione dei riferimenti alla morte (il veleno che uccide la scimmietta “convertito” in un più innocuo sonnifero).
Tutte le sequenze più iconiche della pellicola – come quella iniziale già citata e quella finale con il “fuoco divino” – vengono riproposte pedissequamente, rispettando anche la corrispondenza tra i personaggi del film e quelli del fumetto.

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Da Barks… a Spielberg… a Concina/De Vita.

Paperinik interpreta ovviamente Indiana Jones (anche lui con una doppia identità, professore e archeologo-avventuriero-supereroe); Marianne, l’ex-fiamma dell’archeologo, è portata in scena dalla sempiterna fidanzata Paperina; Pico è un Brody fatto e finito, mentre il Rockerduck di quegli anni, canaglia senza scrupoli, è una perfetta sintesi tra René Belloq e i nazisti. Interessante notare come il passaggio definitivo da Parodie a Adattamenti sia sancito da un’opera tutto sommato priva di guizzi particolari, un semplice divertissement privo di un motivo di interesse che vada oltre il guilty pleasure di vedere personaggi di un franchise planetario reinterpretati da Paperino e compagni, un’opera insomma priva del pretesto valoriale rappresentato dall’aggancio utile ad avvicinare i lettori a un’opera d’arte, un classico letterario o cinematografico più o meno noto.
Poco dopo Giorgio Cavazzano entra nella nostra storia con risultati tellurici, contribuendo in modo determinante a fare dell’Adattamento la variante di Parodia più apprezzata al giorno d’oggi.

[CONTINUA]

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