Parodie Disney di ieri e di oggi – 1. Tra pedagogia e mitoclasma

Parodie Disney di ieri e di oggi – 1. Tra pedagogia e mitoclasma

Vi proponiamo, suddiviso in più parti, un corposo e inedito approfondimento sulla storia delle parodie Disney.

È opinione comune che dagli anni ‘80 in poi il registro delle cosiddette Parodie Disney sia andato modificandosi, passando dall’originale farsesco (più accostabile alla parodia tradizionale, intesa trasversalmente come genere nelle sue varie forme) a una sorta di “adattamento disneyano”, ricco di citazioni visuali e con un più immediato rapporto fra la “parodia” e l’oggetto parodiato; insomma, per riesumare il critico polacco Markiewicz, un passaggio fra la parodia sensu stricto e la parodia sensu largo intesa come imitazione senza intento ridicolizzante. Il confronto fra opere come Sandopaper e la perla di Labuan e Metopolis, Lo strano caso del dottor Ratkyll e di Mister Hyde e El Kid Pampeador suggerisce una sensibile differenza di approccio. Ma sarà davvero così? Esistono due (o tre, o quattro) famiglie di parodie Disney? E quando e perché la poetica dell’adattamento fedele ha preso il sopravvento sul travestimento satirico? In questo ciclo di articoli cercheremo di rispondere a queste e ad altre domande.

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Febbraio 1988: in un supplemento a “Topolino” debutta il termine “Grandi Parodie”

Tenendoci sulle generali, potremmo affermare che, in buona parte dei casi, opera parodiata e parodia afferiscono allo stesso mezzo espressivo: per fare un esempio letterario, il Don Chisciotte è, tra le altre cose, una parodia dei poemi cavallereschi; in ambito cinematografico la serie de La pallottola spuntata è una presa in giro delle pellicole poliziesche mentre, per restare a un livello popolare, i cosiddetti “centoni” altro non sono che parodie di canzoni.
Nel caso del fumetto invece rileviamo come siano molti di meno i casi di intertestualità omomediale, ovvero in buona parte dei casi c’è una non reciprocità fra i media coinvolti: da narrativa, cinema, teatro si preferisce passare a un linguaggio differente, con caratteristiche e regole proprie. Questo, se da un lato va a costituire un ostacolo aggiuntivo da superare (la traduzione intermediale) dall’altro apre a un ampio ventaglio di soluzioni e possibilità grazie alle potenzialità virtualmente infinite del mezzo. Storicamente, le Parodie Disney sono sempre state accostate prima di tutto alla Letteratura, soprattutto ai Classici, e dobbiamo aspettare fino al 1962 – anno di pubblicazione di Paperino e la pepita Dolly – per avere la prima Parodia che non abbia come base un’opera di narrativa: la storia era infatti vagamente ispirata alla farsa teatrale di Thornton Wilder The matchmaker del 1954 – dalla quale nel 1964 sarebbe stato tratto peraltro il musical Hello, Dolly! – soprattutto nella caratterizzazione dei protagonisti (Brigitta ricalcava Dolly mentre Paperone il milionario Horace Vandegelder).

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Aprile 1988: le “Grandi Parodie” continuano ad avere riscontro sulle pubblicazioni Disney.

Quale sia la ragione di tale rapporto di co-dipendenza fra “parodia disegnata” e “letteratura” è arduo a stabilirsi.

Probabilmente vi gioca un ruolo il concetto, largamente diffuso anche in chi ne realizzò e che oggi non ci è difficile rifiutare, che il fumetto sia di per sé un medium di grado basso, con un apparato estetico-formale rivolto ai più giovani e quindi limitato; il riconoscimento inconscio, quindi, dell’esistenza di un gradiente gerarchico posto a separare il fumetto dalla, più elevata, letteratura.
Non conviene dimenticare che la concessione della “patente” di prodotto culturalmente rilevante, oggi scontata, al fumetto Disney, è il risultato di un processo lungo e complesso passato anche attraverso le Parodie.

La letteratura è anche lo spazio del linguaggio per eccellenza. Ne L’Inferno di Topolino di Guido Martina e Angelo Bioletto, di cui parleremo più avanti, trovò massima espressione il “paperoletto”, il socioletto dei paperi, termine coniato dalla professoressa Daniela Pietrini, che nel suo articolo Paperus in fabula… tesori di lessico ludico descrive come

fortemente marcato nell’espressività, straordinariamente ricco e innovativo dal punto di vista lessicale.

Il linguaggio disneyano italiano, anche e soprattutto nelle Parodie, fino agli anni ’70 è stato dotato di un non trascurabile indice di letterarietà essendo caratterizzato, al contrario di quanto si verificherà nel fumetto americano, da un lessico esageratamente tronfio, da un lirismo utilizzato con funzione prettamente umoristica. Scrive Antonio Faeti:

In storie come queste […] il fumetto, in quanto medium, celebra sé stesso e la propria identità. Agguantando, con rapace baldanza, i Miti più segreti e gli Emblemi meno facilmente accessibili di un Immaginario di per Sé nutrito da fonti controverse, il fumetto rivela di essere, così come si volle alle origini, un medium popolare e pedagogico.

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Il Topolino di Gottfredson non è tipo da lasciarsi intimidire da nessuno, nemmeno da un re.

“Fare tanto con poco, anzi pochissimo”. Con quattro linee ben tracciate un disegno può mostrare qualunque cosa, insegnare qualunque cosa, e rappresentare ciò che fino a quel momento si poteva soltanto immaginare.
In America, sul finire degli anni ’30, Mickey Mouse si ritrovò a vivere tre incredibili avventure “letterarie”. In quella che si può considerare la prima Parodia in assoluto, Topolino contro Robin Hood, il protagonista infatti, a causa degli effetti di un composto chimico, viene rimpicciolito ed entra nel libro che narra le gesta di Robin Hood. Il Topolino degli anni ’30, vale a dire il Topolino – all’epoca – contemporaneo, viene trasportato all’interno dell’opera parodiata, in questo caso alla lettera. Qui il travestimento burlesco è esplicito e adoperato dagli autori, Ted Osborne e Floyd Gottfredson, in funzione mitoclastica1: il mito di Robin Hood, in qualche modo “smontato” da Mickey, non proviene da un’opera di riferimento precisa quanto piuttosto da un corpus folkloristico e narrativo variegato a cui si sono aggiunti, col tempo, opere apocrife e svariati adattamenti cinematografici. Le strisce nel 1936 ricalcano quindi gli episodi più noti della leggenda del celebre eroe popolare, ma virati in chiave umoristica e con una struttura poco armonica, di fatto una giustapposizione di avvenimenti senza una vera trama figlia anche della struttura a strisce, con solo il contesto dell’epopea originale a fare da sfondo e da labile collante.

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Il volume speciale della testata “Le Grandi Parodie Disney” che nel 1999 celebrava i 50 anni del genere.

Le successive Topolino sosia di Re Sorcio (del 1937), e Topolino all’età della pietra (pubblicata nel 1940) mostrano una differenza di approccio rispetto alla precedente: più complesse, meno farsesche e caratterizzate da un minor grado di stravolgimento rispetto alle opere di riferimento (nell’ordine The prisoner of Zenda di Anthony Hope e Il mondo perduto di Arthur Conan Doyle), in un divertente gioco metatestuale e quasi “negando” i romanzi da cui sono tratte, sostituiscono i protagonisti originari con Mickey, Minnie e personaggi creati ad hoc; gli autori, i già citati Osborne e Gottfredson, con l’aggiunta di Merrill De Maris, utilizzano il mezzo della parodia per contrapporre realtà differenti e inconciliabili: in Re Sorcio troviamo una monarchia che sembra il residuato anacronistico di un tempo passato, con personaggi impaludati e “schiavi” della propria posizione, e sul fronte opposto Mickey Mouse, l’alfiere del “new deal” americano, libero e sfrontato, capace di stravolgere lo status quo del piccolo regno e mettere del sale in zucca a un regnante imbelle e refrattario alle proprie responsabilità.

Ne L’età della pietra lo scontro è fra l’uomo civilizzato, fulgido esponente di una potenza in crescita, e il misterioso, l’inconcepibile bestiale altro che ancora si annida da qualche parte nel mondo, in attesa; sono opere raffinate, adatte al pubblico cui le comic strip americane erano rivolte, eterogeneo e non necessariamente infantile. Il movente travalica il semplice travestimento burlesco per fondarsi sulla competizione positiva con il modello in chiave divulgativa o pedagogica. Sono questi i primi due esempi di Parodia “in Tempo Reale”.
Dall’altra parte dell’oceano, in Italia, in seguito anche alla traduzione e pubblicazione di queste storie su Topolino Giornale, si verificano le condizioni giuste perché gli autori nostrani interiorizzino l’idea del mondo Disney come sistema mitologico di secondo livello (la definizione è di Andrea Cannas): essi infatti

si rivelano essere straordinari interpreti di storie o narrazioni già attivate e funzionanti.

In questo senso la Parodia, in tutte le varianti possibili, risulta un ottimo mezzo per propalare il mito disneyano “appoggiandosi” a prodotti popolari già radicati nell’immaginario dei lettori. Al tempo stesso, gli autori utilizzeranno sempre più i personaggi Disney per diffondere presso il pubblico le opere parodiate e renderle gradite al palato dei più piccini.

Del 1949 è la prima Parodia nostrana. Quello che oggi gli addetti ai lavori chiamano Topolino Libretto (e che per tutti è semplicemente “il Topolino”) era nato da soli sei mesi, subentrando allo spillato in formato giornale. All’epoca le storie proposte ai lettori erano in gran parte americane con una minima presenza di avventure autoprodotte, tutte realizzate da Guido Martina, padrino della Disney italiana. Dato il target e la spinta culturale di quegli anni di Ricostruzione postbellica, non sorprende che una delle prime storie italiane di rilievo abbia come base un’opera al centro di ogni programma di studio. La Divina Commedia di Dante Alighieri è un poema capitale sia per fattura artistica e sia per valore storico-culturale; in più, da sempre l’ambientazione infernale accende l’immaginazione dei suoi lettori. Il Topolino di quegli anni voleva essere vicino agli scolari e, nel rispetto della cultura del nostro Paese, “alleggerire” le ore di studio con un prodotto fresco e divertente.

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Un esempio di “Paperoletto”, il socioletto dei personaggi Disney.

Letta oggi questa prima Parodia, L’inferno di Topolino, appare singolare per più di un motivo. Parte come una storia “normale”, ambientata ai nostri tempi (che poi sono gli anni ‘40) ponendo i personaggi che conosciamo in un contesto spirituale/onirico, similmente a quanto accade in Topolino contro Robin Hood e a differenza di quanto vedremo nelle Parodie più moderne. L’espediente iniziale dell’ipnosi, come racconta Massimo Marconi nella prefazione alla nuova edizione de L’Inferno, fu il risultato di una richiesta fatta a Martina “dall’alto”, da chi si preoccupava che i lettori potessero restare scioccati dalla visione di Topolino e Pippo all’altro mondo.
L’Inferno di Topolino deve il proprio successo a due principali meccanismi:

  1. i personaggi Disney, popolari e infantili, inseriti nel contesto colto ed elevato della Divina Commedia, e
  2. la discrepanza fra ciò che ci si mostra nelle vignette e la descrizione che possiamo leggere nelle didascalie, le quali, oltre ad essere il trait d’union con l’opera “di primo grado”, potenziano il contrasto umoristico che è una tecnica-base di molte Parodie.

La grafica dettagliata e ispirata all’iconografia classica (Dorè è citato esplicitamente dal disegnatore, Angelo Bioletto), l’utilizzo del verso dantesco a rima incatenata e il viaggio spirituale nell’oltretomba rappresentano l’aspetto colto, il registro elevato; la contrapposizione fra registri genera l’umorismo, senza che qui sia presente l’intento derisorio tipico di tante cattive parodie.
Scrive Maurizio Giannattasio:

Martina ha tratteggiato una sua personalissima Divina Commedia (…) operazione a metà tra Derrida e la goliardia universitaria.

L’Inferno era forse stato pensato come un unicum nella storia della rivista, dato che trascorsero ben sette anni prima che un’altra Parodia comparisse nuovamente sulle sue pagine. Questo lungo lasso temporale determinò uno stacco anche stilistico con quelle a venire, consegnando L’Inferno a un posto tutto suo, dove nessun’altra delle successive può trovare collocazione. Se Martina, in quegli anni, ebbe modo di approfondire la conoscenza di personaggi che all’epoca non dominava ancora appieno, Bioletto, più portato all’illustrazione, lasciò il posto alla prima generazione dei talenti Disney italiani.

[CONTINUA]


  1. con il neologismo mitoclasma, presente anche nel titolo, si vuole intendere la non riconosciuta autorità nei confronti del racconto mitico e la decostruzione del mito stesso con intento satirico 

2 Commenti

2 Comments

  1. AleSensei

    5 Giugno 2023 a 21:14

    Cosa significherebbe mitoclasma?

    • la redazione

      12 Giugno 2023 a 18:36

      Ciao! Mitoclasma è un neologismo degli autori per indicare la non riconosciuta autorità nei confronti del racconto mitico e la decostruzione del mito stesso con intento satirico. Ti ringraziamo per la domanda, che ci ha spinto a integrare all’interno del testo una nota per chiarire il significato del termine.

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