Paperi: sotto le penne dei fratelli Rincione

Paperi: sotto le penne dei fratelli Rincione

Di paperi, violenza, falsità quotidiane, arte, debolezza e forza: intervista a sei occhi con i fratelli Rincione.

Intervista a Giulio Rincione

10Giulio Rincione, in arte Batawp, è un fumettista palermitano. Esordisce nel 2012 su Verticalismi con il fumetto C. Ha collaborato con Lelio Bonaccorso e Marco Rizzo, realizzando i colori di Jan Karski, l’uomo che scoprì l’olocausto. Nel 2013, con Fancesco Chiappara (Prenzy) e Lucio Passalacqua (Luciop) ha fondato il collettivo artistico Pee Show. All’interno di quest’esperienza ha realizzato tre storie brevi raccolte sotto il nome di Storielline. Per l’editore Shockdom ha disegnato e colorato i primi due numeri di Noumeno, pubblicato come autore completo Paranoiae, e sta lavorando al completamento della Trilogia dei Paperi, sceneggiata dal gemello Marco Rincione. Con Bonelli Editore, ha collaborato sulla testata Orfani ed è a lavoro su Dylan Dog.

 Com’è nato paperPaolo, che hai presentato al Napoli Comicon?
Nasce sostanzialmente da un’esigenza, quella di raccontare di nuovo un tema molto scomodo. Volendo sfruttare i paperi, che hanno avuto molto successo, abbiamo deciso di utilizzare personaggi zoomorfi per dare spessore a delle realtà che vive l’essere umano. Questa volta il tema non era il malessere dell’uomo, ma qualcosa di ancor più brutto: la violenza. Una persona cela un mostro dentro, e questo si rivela nella sua intimità come qualcosa di molto più brutto rispetto a quanto appare al di fuori.
Ancora una volta, ci siamo trovati a giocare con la differenza tra il personaggio che recita e la vita vera. Però paperPaolo è più sofisticato del precedente episodio dei paperi perché con Marco ci siamo voluti soffermare molto su ogni aspetto, soprattutto per quanto riguarda la scrittura. Lui ha scritto principalmente due trame: una trama grafica, che io ho illustrato con le vignette e con le tavole, e una trama con i testi che in qualche modo è scollegata. Quindi, permette al lettore più attento di godere di due o più storie, rendendo un fumetto di trenta pagine un po’ più corposo nella sua essenza.
Il tema della violenza domestica: un padre che torna a casa dalla moglie, la domenica per pranzo, e quella che potrebbe essere una qualsiasi domenica di una famiglia si rivela una tragedia famigliare. C’è una verità che si tenta di nascondere, e il tema – oltre quello della violenza – è appunto il rapporto che l’uomo ha con sé stesso, per quanto riguarda la verità e le bugie, soprattutto quelle che diciamo a noi stessi pur di convincerci che le cose vanno bene.
È una storia che in realtà lascia molti punti in sospeso: a differenza di paperUgo che è in apparenza autoconclusivo, paperPaolo ha più l’aspetto di qualcosa che deve risolversi in altra sede. Anche paperUgo deve ancora risolversi, perché intendiamo chiudere il cerchio con il terzo episodio e con degli inediti che verranno pubblicati su paperback in seguito.
Dal punto di vista grafico, c’è un sottotesto d’immagini che io invito il lettore ad osservare, ad esempio i quadri che sono messi lì appositamente per raccontare cose di cui in realtà non stiamo parlando, ma che non sono meno importanti.

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Leggendo paperPaolo mi è sembrato il frutto più maturo di una riflessione che porti avanti sin dagli inizi, anche in Paranoiae, sul tema della finzione quotidiana dietro cui si nascondono drammi e ossessioni personali. A cosa è dovuta la centralità di questo tema?  
Per me è così importante perché la disillusione fa parte della mia vita e anche di quella di Marco: ci sono dei momenti in cui ci si rende conto che non è vero nulla. Mi piace raccontare questa sorta di buco nel muro, che noi viviamo anche con noi stessi ogni volta in cui ci troviamo da soli. Domande come “io sono io, se non ci sono gli altri intorno a me?” o “cos’è che realmente sto vivendo?” ci sono in Storielline, così come in Paranoiae e in paperUgo, dove tramite la depressione c’è una distorsione della realtà.

 In paperPaolo avete affrontato un argomento duro e dei temi che spesso sono affrontati con reticenza, specie nel fumetto che mira a essere adatto a un pubblico molto largo. Secondo te, nel raccontare certe storie c’è anche un certo timore da parte del mondo dell’editoria?       
Sicuramente, senza voler fare spoiler sulla tematica pesantissima di paperPaolo, il nostro obiettivo è stato di non porci censure: stiamo raccontando una cosa terribile che potrebbe essere verosimile, cose che si possono sentire anche ai telegiornali, e nel momento in cui l’abbiamo raccontata non abbiamo voluto preoccuparci per il pubblico, perché è semplicemente la realtà dei fatti. Nel momento in cui lo stavo creando graficamente, per me stava succedendo realmente e ammetto che è stato difficile lavorare su paperPaolo, perché ho dovuto sviluppare empatia per i personaggi: io odio paperPaolo, però dovevo averlo dentro in qualche modo. Devo esserne partecipe, perché comunque deve uscire da me, nei suoi sguardi, nei suoi gesti, nei suoi silenzi che dovevano essere comunque anche frutto della mia persona, quindi sono dovuto andare a scavare, fino a trovare in un angolino la parte più brutta di me, pur di rendere il personaggio un minimo vero. Questo è fondamentale per me.

Su Storielline e Paranoiae sei stato autore completo, ora invece ti ritrovi a collaborare con una persona che ti è molto vicina. Com’è passare, su temi del genere, da un lavoro come autore completo a “solo” disegnatore?
Il mio caso è molto particolare: io ho vissuto tutta la mia vita insieme a Marco, praticamente ventiquattro ore al giorno, quindi è un tipo di rapporto che non riesco a spiegare. Quando mi si chiede com’è avere un gemello, io rispondo che non so com’è non averlo. Per me è normale avere una persona uguale a me nel modo di esprimere dei concetti, ognuno con la propria personalità, però sulla stessa lunghezza d’onda. Quindi, per me il cambiamento è stato quasi nullo. Quando Marco mi propone la sceneggiatura con le sue parole, sento che avrei potuto scriverle io, solo che lui le ha scritte meglio. Sono contento anche perché mi permette di alleggerirmi nella storia, perché lui crea spessore e profondità nei testi e io posso dedicarmi soltanto al punto di vista grafico per dare quanto più posso. Infatti, penso che paperPaolo sia graficamente meglio di quanto lo ha preceduto, anche perché ho dovuto preoccuparmi meno dei testi.

Hai avuto una crescita artistica che ha dello straordinario, anche per la sua rapidità. Nel giro di un anno, sei passato da un livello ottimo come quello di Paranoiae a uno ancora superiore. Come si ottiene questo risultato?
È la reiterazione della pratica, sostanzialmente. Corri su una pista e devi fare un tempo sempre migliore, a un certo punto ti rendi conto che una curva puoi tagliarla in un certo modo, in alcune parti sai che puoi dare più di gas e in altre che devi frenare per poi andare più veloce. Quindi, è solo una questione di pratica.

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Marco, a mio parere, non è abile solo nell’usare le parole, ma anche i silenzi. Tenendo conto del tuo stile, forse è necessario avere uno sceneggiatore che sappia quando stare “zitto” e lasciarti fare.          
Sì, assolutamente. Me ne sono reso conto quando ho finito il fumetto e l’ho riletto. Quando sono andato a letterare, dicevo “questo è vuoto, questo è vuoto, questo è vuoto. Ma perché?” In realtà, nel momento in cui lo leggi non è vuoto, c’è un silenzio che è molto pesante. Per me, è fondamentale, anche perché il mio stile di disegno non è leggero e a volte può stancare anche gli occhi. Ha bisogno anche del suo tempo per essere letto e soprattutto è molto emozionale e quindi ho bisogno di quel silenzio per esaltare altri momenti del disegno.

Le tue tavole sono, appunto, colme di emotività. Forse anche per questo ci vuole più tempo a leggere le trenta tavole di paperPaolo che un classico bonellide. Come pensi alle tue tavole, come nascono?Parto, innanzitutto, da uno studio tecnico sulle inquadrature e le soluzioni grafiche, per cercare di rendere quanto più equilibrata la tavola. Lo step successivo, che è quello che fa la differenza, è quando comincio a colorare. A quel punto, non penso tanto all’emozione nella tavola, penso “io qua ci sono già stato”. Cerco di riproporre un’atmosfera a livello cromatico, qualcosa che ho già vissuto o che comunque fa parte dell’immaginario collettivo di tutti, come il supermercato di paperUgo o la giornata plumbea in paperPaolo; ed è un determinato grigio, un determinato colore che crea in realtà l’emozione. Il problema del bonellide di cento pagine in bianco e nero, che può essere comunque meraviglioso, è che secondo me all’interno della storia manca una sorta di buco in cui cadere, io cerco sempre quel passaggio che porta all’interno di quell’atmosfera, come se ci si fosse già stati in quella stanza e si assistesse direttamente a quella scena. Di conseguenza, tutto diventa più forte a livello d’impatto.

La tua ricerca artistica da dove inizia e dove ti sta portando?
Inizia al terzo anno della Scuola del Fumetto, quando disegnavo in modo completamente diverso (simil-bonelli, Diabolik) perché ancora non conoscevo quegli autori che poi mi hanno in realtà formato. A un certo punto, sono venuto in contatto con il fumetto di Metal Gear Solid disegnato da Ashley Wood e mi si è aperto un mondo, perché ho trovato un disegno asimmetrico, sporco, molto istintivo. Erano tutte caratteristiche che io sentivo moltissimo, ma che dovevo reprimere perché non conoscevo questo tipo di autori.
Da Ashley Wood poi ho conosciuto Kent Williams, Bill Sienkiewicz, poi Dave McKean. Con loro ho trovato una certa affinità e ho cominciato a fare delle cose che ricordano quel certo tipo di linguaggio, perché quella è la mia lingua, cercando ovviamente di non copiare e mantenere la mia personalità. Da lì poi ho cominciato a sperimentare.
Inizialmente avevo un senso di colpa su alcuni mezzi che adesso utilizzo senza problemi, ad esempio l’uso delle foto. Inizialmente, lo vivevo come un senso di colpa e mi chiedevo “il lettore capirà che per me è una scelta fondamentale o penserà che è una paraculata, perché non voglio fare quella cosa?” Dubbi del genere mi frenavano e non mi lasciavano esprimere al cento per cento, ma a un certo punto il bisogno ha avuto la meglio su tutto e mi son detto “se io qua sento di dover utilizzare una fotografia e poi dipingerci sopra, anziché utilizzare una base fatta coi pastelli, allora deve essere così.”

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Durante la realizzazione di Paranoiae, hai ascoltato molta musica, in particolare i Pink Floyd. Come entra la musica in questo tuo processo creativo?
In realtà, per Paranoiae, ho ascoltato soltanto The Wall, quattro volte al giorno, per sette mesi. La musica ha un ruolo particolare, che dipende molto dalla fase del lavoro in cui mi trovo. Paranoiae è un caso a parte, perché era un esperimento che voleva mettere la ritmica di un album in un fumetto, a livello di immagini, da lì è derivata la ciclicità del libro al pari di quella dell’album: non finisce, non inizia. Per quanto riguarda la musica in generale, invece, come dicevo dipende molto dalla fase di lavorazione. Ad esempio, quando faccio le basi di colore, che è una fase molto noiosa, molto meccanica, io metto le mazurke, perché sono velocissime, mi mettono allegria, mi ricordano quando ero piccolo e andavo al mare e la sera sentivo queste musichette, ed è come se mi alienassi. È una musica, in questo caso, che mi serve per ipnotizzarmi e lavorare più veloce. Nella fase di colorazione o di disegno che sono più importanti, metto o una musica particolare che in quel momento sento oppure c’è il silenzio, in quel caso vuol dire che la musica la sto sentendo realmente, ma in un altro posto.

Il terzo capitolo dei Paperi esce a settembre, cosa ci aspetta?
One$ – questo il titolo che abbiamo svelato poco tempo fa -, e non è difficile capire di che papero stiamo parlando. Insieme a Marco, sto lavorando tantissimo al soggetto, a differenza di paperPaolo dove lui ha fatto la gran parte del lavoro. Questo perché voglio in qualche modo chiudere il cerchio e dare un senso di lettura a questo micromondo di paperi che ho creato con Marco. Non voglio che si creda che siano episodi singoli fatti tanto per: è un mondo, con le sue regole, che non abbiamo mai raccontato esplicitamente, con tanti elementi come la dominazione dei topi sui paperi o la stella di David sui camerini degli attori. Nel terzo, ci sarà molta più chiarezza su ciò che riguarda il mondo dei paperi, su Papertopolis.

Shockdom, come realtà in cui sviluppare questo discorso, com’è stata?     
Credo che fosse l’unica casa editrice in grado di proporre questo progetto. Innanzitutto per il rischio a cui si poteva andare incontro, che in realtà è minimo: il nostro obiettivo non è mai stato quello di disturbare la Disney. Era però l’unica adatta anche per quanto riguarda il tipo di formato e le uscite, che magari avrebbe messo in difficoltà altre case editrici così com’è: piccolo, spillato, da fumetteria. Altri editori, forse, avrebbero optato subito per un volume unico, io invece ci tenevo che fosse quanto più popolare possibile e di basso costo, per me è importante che la storia arrivi a quante più persone possibile. Poi è stato Lucio Staiano a fare per la prima volta la battuta “facciamoci un fumetto” e sempre lui ha inventato il nome paperUgo.

Hai intanto iniziato a collaborare con Bonelli, l’editore che può darti la platea più larga possibile in Italia. Il tuo modo di fare fumetti, molto personale, autoriale, riuscirà a conciliarsi con il lavoro in Bonelli?
Vi racconto un episodio che mi ha fatto capire veramente cosa dovevo fare. Quando ho realizzato le prime quattro tavole di Orfani – che poi sono diventate prima otto e poi dieci – all’inizio mi sono limitato, ho cominciato a diventare più realistico, più pittorico, a sfumare il colore in una maniera più plastica. Consegnata la prima tavola, dopo dieci minuti mi ha scritto Roberto Recchioni in chat: “la tavola è bella, però perché?” In realtà io avevo tantissimo bisogno di quella tirata d’orecchie. Continuò dicendomi: “se volevamo una persona che ci facesse il pittorico realistico già ce l’abbiamo. Se ti ho chiamato c’è un motivo.” Quindi capii che dovevo essere me stesso.
Il problema, ovviamente, è il distacco che io vivo con la storia. Sarei un pazzo, se dicessi che con Orfani provo una grande empatia a livello emozionale per la sua storia. No. Però questa cosa mi piace, perché mi permette di dedicarmi molto di più all’immagine: la vivo come un gioco, com’è giusto che sia, perché nei giochi i bambini sono sempre più attenti di quando sono a scuola, imparano molto di più, e quindi io voglio sempre giocare. In più ho sperimentato anche molto, perché sono dieci tavole, ma sono tutte una diversa l’altra: tra la prima e l’ultima è passato un mesetto e ho fatto cose anche molto diverse.

Nell’ambito della tua carriera, breve ma intensa, stai avendo un certo successo e ti stai creando un certo seguito. Alla luce del fatto che i tuoi lavori parlano di una dimensione molto personale e intima, come vivi questo successo e il fatto che molti tuoi lettori apprezzano il tuo lavoro e ci si ritrovino dentro?
La prima reazione è sempre quella dell’incredulità. Quando vedo un gruppo di persone che mi aspetta allo stand e si sono accumulati, magari perché mi sono assentato mezz’ora in più, non posso che chiedermi “Perché? Perché dovrebbero volere quello che faccio io?” L’incredulità, però, si trasforma poi in grandissima soddisfazione e piacere e mi rendo conto che noi esseri umani, per quanto possiamo essere diversi, viviamo comunque delle vite che si somigliano un po’ tutte: ciclicamente, certe problematiche le affrontiamo tutti, le stesse. Quindi, parlando di certe cose nelle mie storie, nei miei fumetti, parlo un po’ di tutti e quindi si viene a creare una sorta di comunità, chiamiamola così. Ci si espone a vicenda e, se so che ti piace paperUgo, probabilmente ci sarà anche un motivo dietro, ma non te lo sto a chiedere, perché è una cosa molto tacita.

Condividere ti fa anche un po’ di paura?       
Mi fa tantissima paura. C’è una sorta di patto che io faccio con il lettore. Gli dico: “scopriamoci insieme e rispettiamo ognuno le debolezze dell’altro, come la cosa più preziosa che abbiamo.” Quindi il momento in cui io mostro al lettore una mia possibile debolezza, è lo stesso in cui il lettore deve spogliarsi di tutte le sue corazze. Come quando ci si toglie le scarpe quando si entra in un luogo sacro. Stiamo parlando delle debolezze di una persona e per me sono sacre.

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Riusciresti a realizzare un fumetto in cui non ti senti minimamente coinvolto?
No, non ci riuscirei. Io vorrei disegnare, non so, un Tex. Lo dico sempre, lo faccio per battuta, ma è la verità: io vorrei disegnare un texone a colori, non esiste con il mio stile, però chissà. Però dovrebbe essere scritto da me (lo so, sto sparando altissimo): sarebbe un western, sarebbe Tex, ma in realtà non potrebbe mai essere una cosa senza coinvolgimento emotivo. Probabilmente piangerebbe, non andrebbe bene, e quindi non lo farò mai. Mi piacerebbe fare tutto, non dico alle mie regole, ma sempre con un coinvolgimento emotivo, non riuscirei a distaccarmi troppo. Se non fosse stato così, avrei fatto un altro lavoro.

Su cos’altro stai lavorando, oltre al terzo capitolo dei Paperi?
Su Dylan Dog. È una storia scritta da Michele Monteleone, per me molto bella, soprattutto a livello grafico sarà molto interessante e divertente da affrontare. Non abbiamo una scadenza precisa, quindi non so quando finirà e non posso darti una data.

Invece, come autore completo?
Al momento, non c’è nulla, perché ci sono tanti altri progetti a cui sto lavorando con Marco, ma sono molto lontani, quasi a livello di sogni su cui abbiamo costruito solo alcune basi.

Intervista a Marco Rincione

9Marco Rincione (classe 1990) è uno scrittore siciliano. Nel 2015 si laurea in Scienze Filosofiche presso l’Università di Palermo con una specializzazione in filosofia antica, occupandosi in particolare del pensiero di Aristotele, su cui ha scritto alcuni saggi. A partire da settembre 2015 inizia la collaborazione con il fratello fumettista, Giulio Rincione, con la realizzazione di “Paperi”. Oltre alla sua attività di fumettista, porta avanti quella di romanziere. Su Facebook, cura la pagina Paint-Diario.

Com’è nato paperPaolo?
Non saprei rispondere con precisione, in verità. Mentre con paperUgo io e Giulio avevamo pensato di sensibilizzare (si fa per dire) i lettori sul tema della depressione come vera e propria malattia, in paperPaolo c’è la voglia di raccontare l’irraccontabile, di aprire la porta che ci conduce a tanti orrori di cui sentiamo parlare ogni giorno senza effettivamente capire di cosa si tratta. Credo che questa voglia sia stata la scintilla che ha acceso l’idea.

Il fatto che Giulio sia tuo gemello è un valore aggiunto o riusciresti a lavorare allo stesso modo, sugli stessi temi, anche con un estraneo?
Penso che riuscirei a lavorarci comunque, il rapporto tra uno sceneggiatore e il suo disegnatore si basa sulla comunicazione, non sulla parentela. Però Giulio è un’altra cosa: abbiamo vissuto insieme quasi tutti i giorni della nostra vita, ci conosciamo alla perfezione. La comunicazione diventa osmosi, il lavoro si unifica in una collaborazione continua dall’inizio alla fine.

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Nel fumetto, soprattutto quello seriale, chi scrive non sempre sa chi disegnerà. Conoscere, invece, lo stile di Giulio e la sua potenza visiva, come ha influito sulla sceneggiatura?    
Ha influito. Conosco bene i punti forti (e quelli deboli) del tratto di Giulio, e ho evitato di proporgli illustrazioni che non avrebbero dato sfogo alla sua peculiarità. Se dovessi scrivere per un disegnatore ignoto, probabilmente mi limiterei a informazioni più semplici (accettando in seguito, eventualmente, proposte di modifica da parte del disegnatore stesso).

Giulio accennava al fatto che la scrittura di paperPaolo è avvenuta in maniera diversa rispetto a paperUgo. Cosa puoi dirci?
Sì, diciamo che paperUgo non è nato in modo regolare. La prima cosa che ho scritto era molto lontana da una sceneggiatura, somigliava ad un lungo monologo interiore con sporadiche descrizioni di luogo e azione. Con paperPaolo, invece, mi sono preso cura di visualizzare approssimativamente la tavola, per avere più consapevolezza di problemi come il numero di tavole, lo spazio per i testi e altre maledizioni simili che gravano su chi fa questo lavoro.

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PaperUgo è un personaggio verso cui era possibile provare pietà, compassione. PaperPaolo genera invece ribrezzo, odio. Da sceneggiatore come si crea un personaggio del genere e com’è averci a che fare?           
Non lo si crea. Nulla della sua persona ci viene detto, non possiamo conoscere i suoi pensieri. Rimane un vero e proprio enigma che si manifesta soltanto nelle sue azioni bestiali. Per questo direi che è rimasto molto lontano da me (non mi sono voluto avvicinare troppo).

L’intera vicenda è raccontata in maniera molto esplicita. Com’è maturata questa scelta, su un tema il cui racconto è nella maggior parte dei casi allusivo, nella cronaca giornalistica quanto nell’arte?  
In realtà, non tutti i lettori di paperPaolo hanno capito di cosa stessimo parlando. PaperPaolo è un pedofilo e, proprio come per la depressione di paperUgo, nel fumetto non si parla affatto di pedofilia.  Ma un contenuto ancora più esplicito avrebbe causato uno scandalo che in questo momento non abbiamo voglia di portare sulle nostre spalle: per questo abbiamo deciso di mettere a rischio la comprensibilità della trama. Nella cronaca ascoltiamo/leggiamo parole, commentiamo con distaccato disgusto. Ecco, volevo vedere che succede se assistiamo a qualcosa del genere in prima persona.

Giulio si è sbilanciato poco, tu puoi dirci qualcosa in più sul prossimo capitolo dei Paperi?         
Una cosa, sì: è un capitolo molto cattivo. E anche molto conclusivo. Alcune (non tutte) delle possibili domande che i lettori possono avere sul mondo dei paperi e sulla loro storia troveranno risposta.

Al di fuori di questa trilogia, quali altri progetti hai in cantiere?
Vorrei riuscire a pubblicare il mio romanzo, scritto circa due anni da e da allora rimasto chiuso nel cassetto. A parte questo, con Giulio stiamo discutendo nuove idee di pubblicazione e – udite, udite! – con molta probabilità scriverò un altro fumetto. Ma non per Giulio.

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Si ringraziano gli autori per la disponibilità

Intervista realizzata dal vivo in occasione del Napoli Comicon 2016 e via mail nel mese di maggio

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