Ad aprile 2016 ho incontrato Omar Tuis presso il suo studio in provincia di Milano. Omar è letterista di lunga data alla Sergio Bonelli Editore, figlio di Sergio Tuis (pittore e già disegnatore per Bonelli) e Renata Tuis (storica letterista per l’editore milanese, in particolare di tutte le storie della serie regolare di Tex).
Abbiamo fatto un approfondimento sul lavoro di lettering e di come sia cambiato nel corso degli anni, in particolare nel passaggio dal lettering a mano a quello in digitale. La Sergio Bonelli Editore è stata l’ultima casa editrice italiana a passare al lavoro al computer e ancora oggi un gruppo di professionisti lavora completamente a mano, come Renata Tuis.
Ci è sembrato comunque interessante aprire una finestra su questa professione, celebrata e riconosciuta in altre realtà, in particolare nel fumetto statunitense, ma quasi mai al centro della riflessione nel nostro Paese.
Ciao Omar e benvenuto su Lo Spazio Bianco.
Mi racconti la tua biografia e come hai iniziato a fare il letterista in Bonelli?
Ho iniziato nel maggio ’94. Era un periodo complesso perché soffrivo del morbo di Crohn e stavo molto male. Avevo lasciato architettura, da un anno preparavo panini in piazza 25 aprile a Milano. Poi ho sentito la necessità di fermarmi in qualcosa di più stabile. Maria Baitelli insisteva con mia madre perché provassi a lavorare in redazione alla Bonelli perché c’era bisogno: mi conosceva perché spesso andavo a consegnare le tavole di mia madre. Ho chiesto a mia madre di insegnarmi, lei non era molto persuasa perché il lettering è un lavoro che si fa da soli, piegati su un tavolo. Pensava che sarebbe stato difficile per me, invece consideravo il lavoro una cosa molto importante. Mi sono allenato tanto a fare balloon e nella scrittura. Ho trascorso un mese scrivendo tutto il giorno, poi sono andato in casa editrice. Maria Baitelli mi ha dato un dossier di prova, alcune tavole di Tex, Zagor, Dylan Dog, con stili standard di diverse testate forse per darmi una collocazione. Non sapendo fare le pipette ho chiesto a mia madre e lei le ha fatte per me. Ho consegnato le tavole e Maria mi ha detto: ” Va bene ma devi rifare le pipette. Qui in Bonelli vanno fatte “alla Tuis””. Ora non saprei dire se mi ha detto così perché si fosse accorta che non le avevo fatte io e voleva che trovassi il mio stile, oppure non si fosse accorta. È un aneddoto divertente. Sono tornato a casa, ho fatto io le pipette e le ho riportate a Maria che mi ha detto: “Ecco così va bene, queste sono le pipette come vanno fatte.”
Negli Stati Uniti ci sono importati letteristi dei fumetti supereroistici considerati delle celebrità. Dagli anni ‘90 in poi, superata la fase artigianale, con l’arrivo nel fumetto della grafica digitale e la nascita della Image nasce un trend di lettering molto aggressivo. Alcuni hanno inventato degli stili personale e sono diventati dei punti di riferimento.
Sì, io mi sono sempre sentito imbrigliato nella schematicità che bisognava seguire. A un certo punto ho fatto di necessità virtù.
L’ambito Bonelli richiede un livello di standardizzazione molto forte. Nella percezione del lettore ci sono pochi spazi per innovare, almeno fino a poco tempo fa.
Uno dei pochi fumetti Bonelli dove c’era uno spazio di creatività importante è stato Gea di Luca Enoch, che ha chiesto a mia madre Renata che anche il lettering partecipasse al fumetto in maniera creativa. Mentre nello standard Bonelli, data la vasta produzione e per la necessità di effettuare delle modifiche anche dopo il lavoro del letterista, si richiede la possibilità di accedere al lavoro fatto in maniera semplice. Si è creato uno standard che viene applicato a tutte le testate, anche se ci sono alcune eccezioni. Per esempio alcuni fumetti di Tex e Zagor, dove la didascalia è appoggiata al margine della vignetta, o in Nathan Never dove la didascalia galleggia nel vuoto. Questi sono accordi a cui ci si abitua facilmente: anche in questa modalità diventano degli standard.
Raccontami com’è il processo di lavoro. Come lavori oggi in digitale?
Il lettering su cartaceo (su originale o su etichette) è sostanzialmente uguale al digitale: con Photoshop, la casa editrice ci fornisce un font, prodotto a mano all’interno da un grafico, simile a quello manuale.
Il digitale ha velocizzato il lavoro, dal momento che gli interventi di correzione e modifica delle posizioni dei balloon sono velocemente accessibili, mentre un tempo nel cartaceo dovevi semplicemente rifare tutto da capo. Il digitale si cancella e si rifà. Sergio Bonelli voleva mantenere l’artigianalità, voleva che il lettore percepisse il senso del fatto a mano. Per fortuna.
Un autore per disegnare un volume di 90 pagine ci mette quattro mesi, se è veloce; un lettore lo legge in, al massimo, tre quarti d’ora. Bonelli non voleva troppo testo ed io sono d’accordo con lui perché il fumetto racconta per immagini. Il fumetto deve essere fatto di azioni, deve avere movimento.
Già a questo punto il lettering a mano era arrivato a un livello di standardizzazione molto alto.
Assolutamente. I letteristi della vecchia generazione, come mia mamma, sono in grado di fare decine di font diversi. Mia madre ha fatto decine di libri per Mondadori, dove il lettering era estremamente creativo. Io personalmente e i più recenti letteristi siamo più schematizzati, meno spontanei. Dare forma al lettering è un’espressione artistica.
Tornando all’aspetto produttivo. A te vengono inviate le tavole e poi?
Lavoriamo su più livelli. Uno è quello dei balloon, che corrisponde a quello che prima era quello delle etichette. Questa è stata una mossa intelligente di Bonelli perché solo il lettore più attento nota la differenza. Il lavoro è diverso ovviamente rispetto a quello che fanno le case editrici che traducono materiale estero, dove generalmente i balloon sono già presenti, e si cerca di usare un font piccolo per adattare qualsiasi quantità di testo al suo interno. Nella produzione Bonelli, invece, è il letterista che posiziona i balloon. Io ritiro le tavole e la sceneggiatura in digitale tramite FTP e stampo quest’ultima perché mi è più facile lavorare. Organizzo il lavoro, che deve essere in formato standard, che svolgo con Photoshop in scala di grigio. Schiarisco le tavole in modo che durante la lavorazione il lettering si evidenzi. Poi copio la sceneggiatura nei balloon. Cerco di dare una forma ovale al testo (che sarà quella del balloon), poi con lo strumento dell’”ellissometro”, si traccia il balloon e si riempie di bianco.
Quindi l’autore ti manda la tavola senza balloon?
Sì, certo.
Il disegnatore lascia lo spazio per il balloon?
Dipende. Ci sono dei disegnatori che quando disegnano la tavola non tengono molto conto del testo. Per cui noi letteristi siamo costretti a lavorarci. In questo caso noi dobbiamo modificare la tavola, abbassiamo, riduciamo e se mancano dei pezzi, lo comunichiamo e la casa editrice la aggiusta. Alcuni autori più sensibili, quando si usava il cartaceo, scrivevano a mano con la matita il testo per rendersi conto della quantità di spazio che avrebbe occupato.
Quindi tu in base al lavoro dei disegnatori, puoi applicare delle modifiche alla tavola?
Se ce n’è bisogno sì, ma tendo a non farlo per non cambiare la tavola. Ma dato che il lettering ha la sua dignità, piuttosto che sacrificarlo, modifico il disegno.
Fai la modifica e la sottoponi all’autore?
Sì e normalmente le modifiche vengono accettate.
Chi è il tuo referente?
La casa editrice. Quando lavoravo in cartaceo, mi relazionavo con il curatore di testata, oggi invece con le segretarie di redazione, che si occupano di assegnare i numeri ai vari letteristi. Prima il letterista era più legato alla testata. Il mio primo lavoro inedito è stato uno Zagor, ma per tanti anni ho lavorato sulle ristampe per ammodernarle. Sono passato a Zagor quando il curatore era Mauro Boselli, poi ho cominciato anche con Dampyr che ha creato lui. Allora gestivo Dampyr e Zagor in contemporanea, poi mi passavano altre cose urgenti. Quando siamo passati al digitale, c’è stata più promiscuità perché il lavoro è più veloce e sono nate le miniserie, hanno aggiunto i maxi, gli speciali, etc. C’è stata una fioritura di testate nuove e bisognava essere più veloci. Ho fatto Tex, Dylan Dog e Ut di Corrado Roi e Paola Barbato.
Decidi tu la dimensione del lettering?
No, c’è uno standard deciso in casa editrice, che ho sempre ritenuto essere troppo grande. Me ne ha data conferma Mauro Boselli che per Dampyr ha deciso di diminuire un po’ la dimensione. Io lavoro già sul formato di stampa così ho idea della dimensione reale. Prima, sul cartaceo, dipendeva dalle dimensioni delle tavole, ogni autore aveva dimensioni diverse. Con il digitale questo problema viene superato.
Hai presente Black e Mortimer di Jacobs? È celebre per la quantità di testo, in alcune tavole c’è un font piccolo, quasi un corsivo. Quello è diventato un format.
Bonelli ha creato un prodotto che entra in tutte le case italiane. Però, anche restando nell’artigianalità, hanno creato uno standard industriale.
I letteristi in Bonelli prendono i diritti d’autore sulle edizioni?
No.
Secondo te il lettore si accorge se il lettering è fatto da un letterista o un altro?
Credo che il lettore attento se ne accorga, ma oggi con il digitale è più difficile. Io vedo le differenze, ma so di essere un addetto ai lavori e poi mi sembra di porgere più attenzione ai particolari.
Quanti sono i letteristi oggi in Bonelli?
Non più di quindici, di cui sei lavorano in digitale.
Gli altri lavorano ancora a mano?
Sì, tra cui mia mamma. Lavorano meno, anche perché hanno una certa età. La casa editrice tutela da sempre i suoi dipendenti, quindi continua a farli lavorare, se lo desiderano. Un certo numero di tavole vengono mantenute in cartaceo per permettere a queste persone di lavorare. E li pagano di più ma è una scelta etica della casa editrice. Sergio Bonelli ha lavorato tanto per amore del fumetto e delle persone. Sono convinto che questo sia stato un motivo della crescita della sua casa editrice: ha permesso alla cultura di diffondersi.
Oggi ci sono nuovi esperimenti in Bonelli. Si stanno esplorando nuovi livelli di marketing, videogiochi, libri, magliette. Però mi sembra ancora un processo in divenire, in parte legato alla singola iniziativa degli autori.
Ed è cambiato molto il rapporto con i lettori. Tempo fa sono stato invitato a una cena dei fan di Zagor, una bella serata, molto divertente. Ho sentito l’affetto dei fan perché io mi occupavo in particolar modo di Zagor. Questo rapporto speciale oggi si è un po’ perso.
Come si è arrivati a un preciso standard produttivo?
Ti risponderà meglio mia mamma. C’è stato un progressivo lavoro di standardizzazione del lavoro. Il lettering veniva fatto a cartiglio e poi veniva disegnato un balloon che seguiva il testo. Poi si è cominciato a lasciare che il testo conquistasse il suo spazio nella vignetta, acquistasse dignità. Si è passati a utilizzare un righello che facesse da binario per il testo. Per praticità si prendevano due righelli che si posizionavano con il nastro adesivo alla distanza definita dalla dimensione voluta e ci si scriveva dentro. Il righello ti obbligava alla dimensione.
Che tu sappia, sono mai stati prodotti questi righelli doppi?
Ci hanno provato ma non funzionavano bene, oltre al fatto che sono oggetti che usano solo i letteristi, quindi una produzione antieconomica. In ogni caso, a seguito di questo sviluppo, il testo prende parte alla tavola in maniera armonica. Mia mamma usava questo metodo già prima di arrivare in Bonelli: quando lavorava a La Pimpa, lei tagliava il balloon e incollava su nuove tavole il nuovo layout con la colla a caldo. Trent’anni fa Sergio Bonelli elogiava molto mia madre per la sua cura.
Qual è il tuo rapporto con il fumetto?
Sono sempre stato un gran lettore. Ora meno perché mi addormento prima alla sera e mi sveglio presto al mattino. Mi piacciono molto le storie che raccontano qualcosa, mi piaceva molto Ken Parker. Sono affascinato da alcuni disegni e passo molto tempo nell’osservazione di alcune tavole. Il fumetto deve essere caratteristico. Per dire, Pratt con quattro linee ti trasmette tutto, basta un dettaglio per dare un senso del tutto. Questo è il mio modo di vivere il fumetto: cerco la storia, che non sempre è accattivante. Io non sono un lettore standard, perché non leggo per svago.
C’è qualcosa fuori dal fumetto bonelliano che ti è piaciuto tanto?
Torpedo di Abuli e Bernet per la sintesi e l’umorismo, due qualità molto importanti nella vita. Essendo guarito da una malattia come il Morbo di Crom, che è considerato inguaribile dalla medicina, l’umorismo mi ha permesso di osservare la realtà con distacco. Capisci che non è tutto vero, che tu sei un personaggio che sta interpretando un ruolo, e che hai la chiave per cambiare questo ruolo. Credo che l’umorismo sia sempre necessario. Nel fumetto di Bernet io mi sento a casa mia. La realtà è estremamente pesante ma anche ironica. La vita è un grande gioco, il problema è che non ci insegnano a giocare perché neanche loro sanno come si fa.
Nella Bonelli c’è poco di tutto questo.
Sì di solito c’è la spalla del personaggio principale che sdrammatizza. Abbiamo Cico, Groucho, il giochino tra Tesla e Kurjak in Dampyr. Ho letto recentemente altre cose in cui manca completamente l’ironia. Sono senza speranza. Deprimenti.
Fine prima parte. Nella seconda parte Renata e Sergio Tuis ci parleranno della storia del lettering nella SBE.
Intervista realizzata a Meda il 04/04/2016