In occasione della pubblicazione del suo nuovo fumetto, La Gameti, abbiamo incontrato David Genchi per una lunga conversazione presso il punto degradato della foce di un fiume, ambiente perfettamente adatto all’occasione, precisamente accanto ad una capanna cadente. L’intervista è arricchita da alcune foto da noi realizzate sul luogo; su alcune di queste l’autore è intervenuto con i suoi disegni.
Come ti è venuta l’idea di La Gameti?
Il fumetto è un sogno contorto che ho pensato per la prima volta in un periodo in cui avevo da poco effettuato una visione approfondita di Eraserhead di David Lynch, per cui ci sono varie influenze in quel senso. Anzi, originariamente lo avevo pensato in bianco e nero come il film, ma poi ho cambiato idea.
È il racconto di una coppia che vive dei normali litigi esasperati all’inverosimile attraverso dei contesti metafisici.
Per questo fumetto hai scelto un formato orizzontale, costituito poi da vignette molto ampie e ariose. Come mai?
L’idea principale era creare un senso panoramico e d’immersione. È concepito su due pagine in cui il lettore è spinto a osservare in maniera attenta e non dispersiva come potrebbe avvenire in formato classico. Il formato è in funzione della narrazione. Mi sono ispirato in particolare alla Metamorfosi di Escher, basata su un cordone orizzontale. La vignetta dunque non è concepita come lettura dall’alto verso il basso ma come uno scorrimento, simile alle strisce.
In questo senso, per quanto odi questa parola, il mio fumetto è abbastanza “cinematografico”, perché scandito in compartimenti precisi che danno un senso di lettura diretto e ordinato che non fa fare al lettore il solito “zigzag” fra le vignette.
Ho cercato di giocare non solo con la tavola, ma anche con il formato, perché credo che il fumetto debba essere sfruttato in ogni sua componente.
Se nel cinema ad esempio potresti fare un film di formato quadrato, ma non sfrutteresti a pieno lo spazio dello schermo; nella letteratura puoi fare un libro in formato striscia, ma nella lettura non cambierebbe assolutamente nulla. Nel fumetto invece col formato puoi fare ciò che vuoi e dare una valenza totalmente differente alla storia. L’importante è farlo però in funzione di qualcosa, e non per puro divertimento, senza porsi limitazioni. Devi concepire il formato in maniera originale solo se ha senso per quel tipo di storia.
Nell’opera ci sono dei concetti classici della narrazione fiabesca e popolare, che però vengono totalmente ribaltati.
Nel secondo capitolo ad esempio la protagonista, vestita in armatura, fa un lungo viaggio in treno per arrivare ad affrontare un enorme drago e salvare il suo compagno. L’episodio citato è qui quello del cavaliere che parte alla volta del castello in cui è rinchiusa la principessa, difeso da un drago.
L’idea era quella di creare dei fortissimi contrasti a rimbalzo. Il fumetto parla della sfera intima di una coppia di persone che si amano, e mostra i personaggi in situazioni diverse che di volta in volta capovolgono la loro apparenza. Nel primo capitolo la ragazza appare come una vera stronza, ma in realtà non è lei ad essere così, era la situazione a farla apparire come tale. È tutto un gioco di apparenze e di chi è cosa, un tira e molla di colpe.
Lo stereotipo della donna che ha bisogno di essere salvata dal cavaliere è ormai passato.
Sono d’accordo, però nel tuo fumetto non si parla di stereotipi, ma si cita una precisa struttura di fiaba popolare.
Sì, diciamo che la mia ispirazione principale è stata la storia di San Giorgio, perché sono molto fissato con il folklore italiano. Mi piace l’idea di prendere elementi nostrani e distruggerli, dando però loro un valore diverso durante questa distruzione. Non m’importa certo fare il nazionalista che esalta San Giorgio, ma prendere qualcosa che fa parte delle nostre radici per poi vedere in maniera diversa il concetto, non vedo perché debba essere uno sfregio alla storia originale.
Così come ho fatto anche ne Lo fallo perduto con le Tentazioni di Sant’Antonio e come farò con altre opere. Prendo delle idee della nostra cultura e le modifico, e questo processo dà loro anche nuova vita.
Facendo un parallelo: come mai i giapponesi del loro folklore e della loro nazionalità fanno un enorme vanto e li usano come strumento, anche nei contesti più stupidi e futili, mentre in Italia siamo dei classicisti così estremi da non permettere mai di toccare nulla della nostra tradizione, che spesso non è nemmeno conosciuta dai più. Si potrebbero prendere dei mostri del folklore andati quasi perduti per basarci qualcosa sopra e dargli linfa nuova, evitando però l’approccio di chi vuole raccontare queste storie solo per educare.
Se vogliamo un processo simile si sta in qualche modo muovendo: ultimamente penso a La Galaverna di Marco Corona o Cosma e Mito di Vincenzo Filosa e Nicola Zurlo.
Sì, ultimamente si sta creando una ricerca e studio in questo senso.
Aggiungo: un’altra cosa che non sopporto è l’attaccamento totale degli autori verso le storie quotidiane, anche se questa affermazione è totalmente in contrasto col mio fumetto, che parla proprio di litigi, di scaramucce quotidiane che non consistono assolutamente in nulla di serio.
Non si discute di questioni importanti, ma di sciocchezze amplificate all’inverosimile, perché nella vita reale è questo che accade.
Quindi è una storia quotidiana che non è solo una storia quotidiana, ma ne è l’archetipo assoluto.
Hai preso la storia quotidiana, esasperandola, ma tutto lo sfondo poi è totalmente altro, non è vita quotidiana, è un’ambientazione quasi da Apocalisse.
Sì è una distorsione della realtà. Dopo aver finito il fumetto, riosservandolo, mi è sembrato uno di quei sogni in cui sai tutto e tutto appare scontato mentre lo immagini, ma quando ti svegli ti domandi “ma che cazzo ho sognato?”. La sensazione era quella di percepire di trovarmi in una situazione normalissima, che però non lo era per nulla. È uno di quei sogni in cui dovresti chiederti “che cosa sta succedendo?” ma essendo lì in prima persona non ti poni questo problema.
Ad esempio il viaggio nel treno in cui la ragazza circondata da mostri prova un forte disagio durante il controllo dei biglietti.
In quell’occasione però non prova disagio perché è circondata da mostri (cosa che accadrebbe normalmente), ma prova un disagio puro solo per la situazione.
Il secondo capitolo del viaggio appena citato, è l’unico in cui è presente una relazione con il resto del mondo “sociale”: negli altri capitoli i protagonisti sono totalmente da soli, non c’è nulla a parte la natura “viva”.
In quel capitolo invece i protagonisti sono circondati da morti putrefatti. I due, anche se stanno vivendo un conflitto, mantengono però la loro integrità fisica, mentre gli altri sono tutti spenti e in decomposizione.
Sì, anzi nì. Ho fatto questa precisa scelta di capitoli per creare un effetto simile al battito cardiaco: nel primo capitolo ci sono solo due personaggi, nel secondo ci sono più personaggi, nel terzo si torna solo a due personaggi e nel quarto ed ultimo c’è una sorta di esplosione in cui tutto è anche niente.
Una sorta di caos primordiale, simile al Big Bang. Del resto l’esplosione deriva da una rottura di un uovo gigante, per cui non può non rimandare a questo, all’inizio dell’esistenza.
Esatto, origine, ma anche fine, non si capisce in realtà se ci sia differenza fra le due cose.
Non vedo però i personaggi attorno ai protagonisti come spenti, li vedo semplicemente come distanti. Chi è in difetto teorico non sono gli altri ma è la protagonista, è lei ad essere chiusa agli altri, mentre gli altri si fanno semplicemente i fatti loro. Quindi in realtà questo disfacimento fisico degli altri c’è, ma è un disfacimento relativo alla visione del mondo della protagonista. In tutto ciò che ho disegnato non vedo nulla di corrotto o malvagio, vedo cose che riguardano l’individualità dei personaggi. Il senso che volevo trasmettere è solo quello di distanza.
Diciamo quindi che se fossimo entrati nella soggettività di quei personaggi decomposti sul treno, ad essere putrefatta sarebbe stata la protagonista vista dal loro punto di vista
Corretto. È la sfera del personale che si amplifica, non dico corrompendo il resto, ma avvolgendolo di una patina distorta.
Parliamo un po’ della tua fissazione per le ambientazioni medievaleggianti. A parte i personaggi della tradizione, anche gli ambienti sono di quell’epoca, sia ne Lo fallo perduto che La gameti. Ormai sembra essere parte del tuo stile.
Quello è più che altro colpa delle mie precedenti influenze: sono da sempre amante del fantasy e della storia medievale, di conseguenza mi ritrovo a ficcarla spesso nelle mie storie. Continuo a documentarmi su questi temi e sono affascinatissimo dall’iconografia medievale che spesso è passata in secondo piano nella nostra cultura, bollata come qualcosa d’inferiore. È per passione personale, ma ovviamente se penso ad altre cose che voglio disegnare, so che mi piacerebbe soffermarmi anche su altri contesti, come ad esempio quello fantascientifico.
Certamente, il mio comunque era un apprezzamento, perché tu la percepisci come un’influenza, ma in effetti attualmente in Italia, e forse non solo, non c’è nessuno che faccia fumetti in questo stile.
Sì, però la vedo come una tappa. Se non mi evolvo resto bloccato. In realtà è stato anche un caso. Si è creata una sovrapposizione editoriale fra La Gameti e Lo fallo perduto: Lo fallo perduto inizialmente non era nemmeno previsto come pubblicazione, e sicuramente avrebbe dovuto uscire dopo La gameti. Per cui alla fine mi sono ritrovato a far uscire a breve giro due fumetti a tema medievale che fanno sembrare che io sia fissato con questi temi. In parte è vero, ma è anche tutto frutto di un caso.
In un’intervista ad Alan Moore l’autore sosteneva che abbiamo un rapporto con il porno e l’erotismo che senza alcun motivo è un cortocircuito: non è mai una narrazione curata qualitativamente. Per Moore non ci sono praticamente opere porno o erotiche che abbiano un certo spessore, una cura nella narrazione. Per questo ha sentito il bisogno di scrivere Lost girls che tratta quei temi e ha un grande valore di scrittura.
Nei tuoi fumetti gli aspetti di nudo hanno di certo delle connotazioni diverse, ma io vedo comunque una somiglianza con l’idea di Moore. Hai preso elementi gore, splatter ed erotici su cui hai costruito una narrazione seria e raffinata, che non ha il solo scopo di mostrare nudità, violenza o eccitare.
Sì, su questo sono molto attento. Togliendo concezioni strane del porno come quella di Carmelo Bene, il porno è mostrare non necessariamente l’atto sessuale o la nudità, ma un atto tabù.
Potrei ad esempio fare un film in cui chiedo al mio attore di cagare sul tavolo del suo datore di lavoro, ma deve farlo sul serio. Questa azione, se la inquadro nel suo insieme, potrebbe essere considerata porno, ma se la svolgo in una determinata maniera, non è più porno.
Stai dicendo che un atto del genere, oltre alla declinazione pornografica, può avere una valenza sociale, e questo effetto dipenderebbe dal modo in cui tale atto viene narrato? Nello stile della ribellione proletaria al padrone ad esempio.
Esatto. Siamo tutti nudi e del nudo non bisognerebbe scandalizzarsi. Siamo tutti fatti di carne, e la carne non dovrebbe mai creare sensazione. Lo scandalo vero è invece quello di non voler ammettere di essere fatti di carne o di non voler riconoscersi in un corpo smembrato, ma fondamentalmente siamo quello. L’essere umano non è solo quello, è principalmente quello.
La mia idea non è mostrare la carne per dare al lettore il contentino in modo tale che possa usarlo per autoerotismo, io mostro perché quello è ciò che sei anche tu, è questo aspetto che mi affascina moltissimo.
La cultura del tabù che c’è dietro queste cose è anche motivo di molte discrepanze sociali ed odio. Se tutti prendessero atto davvero di ciò che siamo probabilmente molti problemi sociali scomparirebbero.
Quindi per me non c’è differenza fra togliere un vestito, togliere la pelle o togliere gli arti. Oltre al fatto che comunque mi piace esteticamente farlo, mi piace anche distruggere il concetto del porno: è il discorso che fa Gaspar Noè col cinema, il nudo e il sesso esplicito che non hanno solo valore masturbazionale.
Torniamo al tuo racconto: il personaggio femminile ha un evidente peso maggiore di quello maschile. La donna è più indipendente, la si vede all’aperto ad affrontare i problemi; l’uomo invece è un inetto alla ricerca di riparo, che va sempre a rintanarsi. Il tuo protagonista fra i due è quello che ha più paura di vivere e vuole rimanere nel calore della sua bolla protettiva.
Sì, è così, hai azzeccato totalmente. Ovviamente non posso dire che questo fumetto sia autobiografico, però di certo mi sono un po’ descritto e riscritto al suo interno.
Di fatto esco poco, non mi piace eccessivamente stare con troppe persone, e voglio avere spesso la sicurezza di stare in un mio spazio, che potrebbe benissimo essere quello del fumetto o del disegno. Ripeto che l’opera non è autobiografica, ma di sicuro ho in parte trasmesso me stesso al suo interno. Penso però che questo sia dovuto soprattutto a un latente egocentrismo.
Inoltre voglio aggiungere una cosa di cui mi sono accorto mentre realizzavo il fumetto. Inizialmente avevo paura che potesse essere scambiato per una di quelle strisce di merda che si trovano online. Quelle con certe frasi e stereotipi.
Pensavo fra me e me: “Se sto facendo una cosa del genere forse c’è qualcosa che non va”.
Poi mi sono però accorto che questo fumetto è l’antitesi di quelle strisce, nonostante ci siano probabilmente dei punti di contatto.
Quel tipo di vignette hanno alla base una ricerca del consenso del pubblico molto facile e che cerca a tutti i costi la sua immedesimazione, con un contatto umano e rassicuranti pacche sulle spalle. Ed è il motivo per cui hanno successo, perché la gente pensa “quella cosa capita anche a me!”.
Qui invece c’è una sorta di autolesionismo o forse autocoscienza. Il lettore non si sente come i protagonisti, o forse potrebbe farlo, ma è quasi impossibile simpatizzare per loro. Non c’è una visione univoca o lineare che fornisce un punto di appoggio e sicurezza e fa poi pensare “mi sento proprio così”.
Perché ad esempio, nel terzo capitolo, che è la parte più sceneggiata e che più mi è piaciuto scrivere, c’è un botta e risposta fra i personaggi.
Il protagonista maschile dice “dovremmo parlare di più”, ma poi si trasforma in una specie di mostro e divora la sua compagna. Qui lui fa intendere come di base esista quella cattiveria che tutti noi abbiamo dentro, ma che in realtà non è proprio cattiveria. Spesso proviamo dei fortissimi sentimenti di odio verso la persona amata, che però non sono vero odio, ma in quel momento ti fanno essere stronzo. Quindi, nessuno vorrebbe ammettere a se stesso di essere stronzo, per cui è difficile simpatizzare coi personaggi.
Il dualismo è un tema fondamentale in La gameti. Il contrasto che racconti avviene fra il linguaggio, che porta alla finzione totale, e la presenza dei personaggi in carne ed ossa, nudi, che non può in nessun modo essere messa in discussione, è oggettiva.
Siamo abituati a ribaltare questo discorso: a credere che siano i sensi a ingannarci, e quindi pensiamo che ciò che percepiamo con la carne è in realtà un’illusione. Con i secoli abbiamo imparato, almeno a livello filosofico, a diffidare dei sensi e credere ci sia qualcosa che va oltre la “realtà”.
Sì infatti la mia è una critica a questo. Il noumeno o l’anima esistono solo perché siamo riusciti a creare l’astrazione nel linguaggio, ma sono una coincidenza. Come esseri umani ci siamo evoluti attraverso la parola per convenienza quotidiana. Abbiamo iniziato quindi a dare nomi alle cose concrete, ad esempio il sasso. Poi abbiamo iniziato ad esprimere dei concetti astratti che nemmeno noi conosciamo davvero, come ad esempio la tristezza o l’amore. Questi sono discorsi sì reali, perché riguardano delle percezioni personali e dei sentimenti, ma ci costruiamo sopra, attraverso il linguaggio, delle enormi sovrastrutture che si fondono fra loro e creano labirinti.
Questo è un po’ quello che ha fatto anche l’arte, per cui non voglio schifarlo totalmente e dire che dovremmo tutti stare nudi ed accoppiarci in libertà o sgozzare capretti. La mia è però una presa di coscienza del fatto che determinate idee o concetti sono spesso sopravvalutate rispetto alla realtà dei fatti.
La natura è indifferente alle nostre azioni, anche quelle che distruggono la nostra idea di natura (ad esempio lo sgancio di una bomba atomica). È la percezione umana che ci fa personificare la natura come qualcosa che soffre.
Ad esempio se dico “si stanno estinguendo i panda”, al panda non frega nulla di starsi estinguendo, a lui interessa solo mangiare il bambù, non gli importa nulla di essere l’ultimo panda. Importa solo a noi umani perché vogliamo continuare a vedere i panda. Questo però non significa che dobbiamo sterminare i panda.
In un passaggio nomini chiaramente Alejandro Jodorowsky.
Sì, uomo che amo e odio.
Anche per me è così. Da una parte mi affascina, ma dall’altra è l’emblema di chi dà valore a concetti apparentemente importanti ma in realtà vuoti di significati concreti, che possono apparire un po’ truffaldini.
Sì l’ho citato proprio per quel motivo. Oltre ovviamente alla somiglianza con alcune scene dei suoi film, la citazione è inserita mentre la ragazza sta raccontando un suo sogno, e il ragazzo prova a immaginarlo nella sua testa, ma forse ha visto qualcosa di totalmente diverso dal sogno che gli viene descritto.
I film di Jodorowsky mi piacciono, mi è anche simpatico come soggetto, anche se è una persona di cui mai mi fiderei. Ho voluto citarlo per creare un contesto più quotidiano, perché dire che qualcosa somiglia a un determinato film, senza però finire la frase, è una piccola cosa che si direbbe proprio in una vera conversazione. Non mi piace quando i personaggi parlano con monologhi impossibili e spiegano davvero tutto.
Nel tuo fumetto per quanto gli ambienti risultino “marziani” c’è sempre un piccolo dettaglio che riporta il tutto alla realtà.
Tutti questi riferimenti li ho inseriti pensando proprio a luoghi veri, per creare maggiore contrasto e lasciare indizi su questa idea di sogno mascherato che è il mio fumetto, in realtà riconducibile alla realtà.
Questi dettagli mostrano sempre che gli ambienti sono una sorta di velo dietro cui è nascosta la realtà.
È proprio quello che immaginavo di fare. I dialoghi dei personaggi ad esempio sono reali, loro stanno parlando sul serio. Ciò che viene visto attorno a loro dal lettore è solo una metafora visiva. Ad esempio, quando la protagonista dice al ragazzo di uscire dal ventre del drago; quel drago potrebbe benissimo essere la porta di una stanza in cui il ragazzo si è chiuso dentro per rifugiarsi. La ragazza non grida cose come “brutto drago ti uccido”, ma da fuori dialoga in maniera normalissima col suo ragazzo che si trova dentro il drago.
Il senso era proprio creare una serie di contrasti che alienassero il lettore.
Una trasfigurazione della realtà in senso simbolico quindi. Una porta ad esempio è qualcosa che chiude, e questa funziona può benissimo ricoprirla anche un masso davanti a una caverna o persino il ventre di un drago o un utero.
Esatto. La mia però non è una narrazione simbolica che voglia direttamente imboccare attraverso i segni.
Tuttavia nel capitolo in cui ci sono la morte e l’uovo ho dovuto scendere a compromessi: il finale doveva avere degli elementi di chiarezza per essere compreso dal lettore. Tanto più che è totalmente muto, per cui non volevo una storia che potessi comprendere solo io.
In quel caso poi gioco anche con la componente fumettistica: fino a quel momento la sequenza delle vignette era stata serratissima, mentre nell’ultimo capitolo tutto esplode. Penso che sia come una sorta di orgasmo in cui il lettore si chiede “dove sono finite le vignette?”, per poi tornare un attimo dopo alla costruzione normale delle tavole.
Questo è ciò che mi ha stupito di più in La Gameti. Non mi aspettavo di trovare in un racconto del genere una simile costruzione chirurgica delle vignette e attenzione alla regia e impostazione formale delle tavole.
Sono fissato con la struttura dei fumetti, per me il fumetto per essere un buon fumetto deve essere narrato solo a fumetti. Quando la narrazione è troppo didascalica e il testo e le immagini si sovrappongono e ripetono, è inutile.
Forse questa tendenza ce la portiamo dietro per una specie di intento didattico che veniva dato al fumetto. Il fumetto veniva visto come qualcosa di bello perché portava la lettura (in senso letterario) ai ragazzini.
Oppure spesso gli sceneggiatori, che non hanno anche disegnato il fumetto, hanno timore di venire oscurati e quindi riempiono di testi le loro opere.
Alcuni autori e artisti hanno visto nell’essere umano una creatura che vive morendo lentamente e in cui la morte è già presente in potenza sin dalla nascita.
L’uovo che appare in tutti i capitoli, sembra la rappresentazione di tutto questo, una vita che non è ancora vita.
Nel tuo finale è però la morte stessa, che incarna in realtà il protagonista, a bucare l’uovo e sacrificarsi per causarne l’esplosione.
Questa allegoria dell’accettazione è un sacrificio totale di se stessi per giungere a un rinnovamento.
Come colleghi questo concetto con l’idea di conflitto che hai descritto durante tutto il fumetto e come mai hai scelto un uovo per rappresentarlo?
Ho pensato all’uovo come simbolo di vita, una cosa fragile che potrebbe rompersi appena la tocchi. I motivi per cui ho scelto l’uovo sono molto banali in realtà: principalmente perché alla mia ragazza piacciono molto le uova (ride), so che è un motivo molto cretino.
Poi il concetto di uovo è un’altra visione del grembo, come dicevi, è un escamotage narrativo dovuto alla sua fragilità e al suo contenuto, ma non è stato frutto di una vera e propria ricerca, quanto più di un caso.
Il finale poi, può essere visto sia in maniera positiva che negativa. Molti lettori mi hanno detto di averlo vissuto in senso positivo. La mia intenzione principale era quella di mostrare come, superato lo scoglio del diverbio, la soluzione finale è quella della mediazione: l’accettazione è l’unica soluzione.
Nel caso di vita e morte, non puoi escludere una delle due, ci sono entrambe e devi accettarle.
Nella mia visione quindi il finale, rappresentato da uno strano animale che vola via, simboleggia la fusione delle due visioni dei protagonisti che in maniera poco elegante potrei riassumere in “fregacazzi di tutto”.
Il finale è una sorta di Nichilismo volante che è la sintesi di Tutto, è l’accettazione, il venire a patti con la realtà. È come se ci trovassimo su una retta, in cui non puoi tornare indietro ma devi andare per forza avanti. Non è qualcosa su cui hai potere decisionale, devi quindi accettare questa situazione, il fatto che sei già morto come i nemici di Ken.
Però sono un po’ più di sette secondi.
Siamo già morti anche se prolungassero la vita a cinquecento anni o all’infinito, prima o poi l’universo collasserà. Anche se qualcuno avesse costruito il più grande palazzo d’oro dell’universo: anche quello si sfascerà.
Spesso per associazione di causa ed effetto per queste riflessioni vengo visto come un disfattista o qualcuno che sostiene che è inutile fare qualcosa in vita perché tanto non servirà a niente.
Non è vero che non apprezzo la vita, ma una cosa non esclude l’altra: si può prendere atto della fine di tutto, continuando però a tener conto della nostra umanità e dei nostri bisogni per portarli avanti. Tutto questo fa parte appunto dell’accettazione.
Non vedo cosa ci sia di male nel parlare della morte, che è una cosa normale e naturale.
Chi vede poi l’essere umano come speciale, mente. Non è vero che siamo speciali, ma non è neanche vero che siamo uguali agli altri animali, esattamente come non è vero che siamo più stronzi degli altri animali, perché comunque gli altri animali fanno delle cose orribili.
Sicuramente siamo una specie biologicamente più invasiva, ma questo non può comportare la nascita di cose come un nazi-ambientalismo che ci vuole tutti morti.
Torniamo al finale del tuo fumetto: dicevi che non ha una connotazione positiva o negativa. L’uovo, che rappresenta la condizione in cui ci sentiamo tranquilli, deve essere rotto alla fine, perché bisogna accettare la situazione di vita in cui ci troviamo. Tuttavia c’è nel finale un essere alato bianco che sembra fondere i due protagonisti e vola via. Il suo però è un passo avanti, si libera finalmente ed è rappresentato in un colore candido e puro. Per cui in realtà del progresso positivo c’è stato.
Credo che questo possa dipendere da chi legge il fumetto. Alcuni pensano che dover accettare la morte, l’altro, il cambiamento climatico, o qualsiasi altro ostacolo o argomento scomodo, sia comunque una soluzione negativa.
Dipende tutto dall’individualismo, anche se per me questa condizione di accettazione coincide con lo stare in pace con se stessi, e dunque ha in effetti una valenza positiva.
Ci sono varie forme di individualismo, quelle di chi lo intende come stare per fatti propri e quelle di chi lo vede come egoismo, sopraffazione dell’altro e totale soddisfazione personale. C’è chi vuol stare da solo e chi ti passerebbe addosso con un suv senza preoccuparsi, io preferisco la prima tipologia.
Il tuo stile così esplicito, caratterizzato da influenze giapponesi, potrebbe risultare disturbante per molti. Per concludere questa intervista infinita ti chiedo, cosa pensa tua madre dei tuoi fumetti?
Personalmente mi ispiro ad autori come Shintaro Kago, Suehiro Maruo, Miguel Angel Martin, Mike Diana e altri fenomeni simili della violenza, soprattutto perché a me piace la violenza.
Spesso però mi è stato detto che nonostante io disegni cose così spinte ed esagerate, comunque non danno fastidio perché nell’insieme risultano eleganti: una violenza impacchettata bene. Ho scoperto che in realtà dà fastidio a meno persone di quante credessi.
Forse proprio perché nei miei fumetti la mia intenzione primaria non è assolutamente quella di dare fastidio. Un corpo è sempre un corpo, e io non lo mostro per schifare. Credo ci sia della bellezza anche nella putrefazione, che io trovo davvero affascinante, non c’è del brutto in queste cose. Forse queste mie idee sono riuscito a trasmetterle anche nei disegni.
Parlando invece di mia madre, a volte mi dice che disegno bene ma non le piacciono i contenuti, mentre altre volte, proprio perché riesco a risultare fine, le piacciono anche quelli.
Comunque ormai non si pone più problemi per i temi che tratto, si è abituata e non si sono mai creati problemi.
Vuoi lanciare un messaggio finale a tutte le mamme preoccupate per i loro figli che potrebbero leggere i tuoi fumetti?
Sì. Se proprio vogliamo lanciare un messaggio alle madri, sarebbe di non rompere il cazzo ai figli, perché è sicuramente la maniera migliore per non renderli dei serial killer.
Un sentito ringraziamento all’autore per averci concesso questa intervista.
Biografia di David Genchi
David Genchi, abruzzese classe 1995. Nel 2018 pubblica assieme a Miguel Angel Martin outERoticspace edito dalla Hollow Press, inserito nella mostra monografica dedicata all’autore spagnolo, curata da Napoli Comicon 2018. Per Hollow Press ha pubblicato inoltre: Lo fallo perduto, Bestiarium e La Gameti.