“Se questo Universo ti sembra orribile, dovresti visitarne qualcun’altro.” [Philip Dick]
Nel 2013 fa il suo esordio in edicola la nuova serie fantascientifica di casa Bonelli: Orfani, ideata da Roberto Recchioni ed Emiliano Mammucari. A poco più di venti anni di distanza dalla nascita di Nathan Never, le condizioni del mondo in generale e del mondo del fumetto in particolare, sono completamente cambiate.
Orfani di un futuro mai nato
Orfani è una serie fantascientifica, pensata dai suoi creatori in archi narrativi da svilupparsi ognuno in una stagione editoriale, similmente a quanto accade nei serial televisivi contemporanei. La vicenda s’innesca a partire da un evento apocalittico che sconvolge il nostro pianeta, e Recchioni e Mammucari puntano fortemente sulle implicazioni pessimistiche dell’evento iniziale. Di fronte alla tragedia collettiva, la nostra civiltà offre il peggio di sé: Orfani mette in scena l’assoluta mancanza di innocenza da parte di qualsiasi componente dell’umanità – anche in coloro che dovrebbero essere gli eroi – e le menzogne con cui chi è deputato a governare e a guidare la società copre sistematicamente le verità più scomode.
Siamo ben lontani dallo spettro emozionale “neoilluminista” che investiva le avventure di Nathan Never, dove anche nelle storie più fosche, alla fine la speranza riusciva ad avere la meglio e in ogni caso le azioni dell’eroe – seppure tormentato – rispondevano a un codice morale improntato al bene e all’altruismo.
Orfani, al contrario, porta negli scenari devastati del suo mondo finzionale tutte le paure del mondo reale degli ultimi quindici anni. E, quasi per paradosso, c’è un anno molto caro agli amanti della fantascienza che la Storia impone come spartiacque tra due visioni di futuro così diverse come quelle tra Nathan Never e Orfani : il 2001.
I primi anni 2000 hanno portato, inattesi e imprevedibili, gli attacchi terroristici alle società occidentali a cominciare dall’11 settembre 2001, per poi proseguire con gli attentati in Spagna e a Londra. Sullo sfondo conflitti religiosi, etnici, sociali ed economici di una intensità crescente, in primo piano una crisi economica epocale per l’Occidente e un ritorno alla militarizzazione della situazione politica mondiale. Il generale clima di sfiducia si caratterizza per una diffusa incertezza all’interno di società che vedono diminuire le proprie libertà individuali in nome di una difesa di stili di vita sempre più fragili.
È in questo clima che Recchioni e Mammucari sviluppano forse uno degli ultimi progetti della casa editrice approvati direttamente da Sergio Bonelli prima della sua scomparsa ma che si distacca, prima ancora che dagli stilemi, potremmo dire dal “sentire” tradizionale di Via Buonarroti.
Orfani: la fantascienza senza fantascienza
Come lo stesso Recchioni chiariva in una delle interviste rilasciate all’esordio della serie:
“La mia fantascienza è una scusa per dare un contesto alle storie dei miei personaggi e per celare la vera natura del mio racconto (che, lo ripeto, è politica)… Creare un mondo complesso e coerente non mi interessava affatto e non interessava nemmeno a Emiliano. È per questa ragione che, anche visivamente, abbiamo stilizzato ogni elemento quanto più possibile, entrando nello specifico delle fantabubbole tecnologiche solo quando strettamente necessario.” (intervista online a Doc Manhattan)
Orfani racconta dunque una fantascienza che non ha fantascienza? O recupera, seppur solo in parte, un approccio tipico dei filoni sociologici degli anni ’60 e ’70 e anche del cyberpunk dei primi ’80?
Proseguendo nel parallelo tra la serie di Recchioni e Mammucari e Nathan Never, potremmo parlare di un futuro senza futuro, testimonianza un diverso modo di concepire il genere, di praticare il bonelliano e, soprattutto di credere nella forza comunicativa di questo medium.
Ce ne rendiamo conto mettendo a confronto l’esordio editoriale delle due serie.
L’agente Alfa arrivò nelle edicole nel ’91 sulla scia del successo crescente di Dylan Dog, con l’obiettivo di presidiare l’unico grande macrogenere – la fantascienza – rimasto fino ad allora fuori dal perimetro bonelliano. Frutto di un solido progetto messo a punto in quasi due anni di gestazione, Nathan Never si fece da subito portatore di forti innovazioni espressive. Soluzioni di scrittura e di grafica che già da anni facevano capolino nelle serie precedenti della casa editrice (da Ken Parker a Dylan Dog) ma che, nelle pagine della nuova serie, deflagrarono in costanti destrutturazioni e ristrutturazioni del linguaggio narrativo bonelliano, impensabili fino a pochi anni prima (per una trattazione dell’argomento cfr. La gabbia bonelliana, questa sconosciuta – Parti 1 e 2).
A questo enorme sforzo creativo e produttivo, il pubblico rispose sin da subito con passione, sfiorando anche le 200.000 copie vendute, e poi comunque attestandosi su una velocità di crociera editoriale attorno alle 100.000 copie mensili per diverse stagioni. Numeri, questi sì, che riletti oggi sembrano davvero fantascienza rispetto all’asfittico mercato del fumetto attuale!
L’esordio di Orfani nasce anch’esso da un progetto di lunga gestazione, portato avanti da due autori estremamente consapevoli delle condizioni cross mediali in cui il fumetto viene oggi prodotto, fruito o anche ignorato. Ancora Recchioni:
“Con Orfani noi abbiamo pensato a tutta quella generazione di ragazzi e ragazzini che giocano ai videogiochi, guardano film action e di fantascienza ma che, non si sa bene per quale ragione, non sono più raggiunti dal fumetto.” (intervista on line a Doc Manhattan)
La Bonelli sposa l’idea ambiziosa degli autori di aggredire un pubblico potenziale di (non) lettori, accettando per esempio la sfida di produrre per la prima volta una serie mensile a colori. Ma le innovazioni riguardano anche la campagna di comunicazione e il lancio della serie basate, in termini di risorse, su sinergie con altri media e altri canali distributivi, etc.
A un così significativo investimento industriale non corrispondono – per ora – riscontri di pubblico così ampi come, forse, ci si poteva attendere. I dati di vendita, se ci limitiamo a valutare il prodotto da edicola, restano in linea con altri personaggi della casa editrice e comunque lontani dai numeri di Dylan Dog o Tex Willer. Aggiungiamo, però, che Orfani è stata progettata in maniera attenta, su base multimediale per drenare risorse anche attraverso altri canali e quindi il risultato in edicola non può essere considerato il solo parametro di valutazione di un “successo”. Ma oltre ai numeri – o anche attraverso i numeri – la differenza tra le due serie e le due epoche del fumetto bonelliano, si pone a livello espressivo.
Il franchise Alfa
Medda, Serra e Vigna nella loro serie propongono un modello di narrazione, per quanto avanzato, comunque ancorato agli stilemi del fumetto bonelliano tout-court. Gli episodi si svolgono nell’arco delle fatidiche 94 tavole, la densità e la leggibilità delle scene è, fatte le debite proporzioni, la stessa riscontrabile in un albo di Tex o Martin Mystere. Lo stesso protagonista molto moderno rappresenta comunque un personaggio in linea con la narrativa Bonelli, così come lo è il cast dei comprimari. Il mondo finzionale estremamente denso è perfettamente allestito per alimentare le logiche produttive di Via Buonarroti. Non è un caso che Nathan Never sia la sola serie Bonelli in grado di generare convincenti spin-off (Legs, Agenzia Alfa, Asteoride Argo, etc.) la maggior parte dei quali tutt’ora attivi.
La serie, ma potremmo anche dire a questo punto il franchise dell’Agente Alfa, da un lato riesce a interpretare il gusto di un parco lettori rinnovato, con forti elementi innovativi, mentre dall’altro rispetta il legame con il pubblico più tradizionale, attraverso l’adesione ai codici editoriali ed espressivi definiti in Via Buonarroti sin dagli anni Cinquanta. Che quei codici stessero all’epoca anche “stretti” ad autori giovani con una gran voglia di sperimentare, appare evidente. A puro titolo d’esempio citiamo un passaggio dell’intervista rilasciataci da Michele Medda che alla domanda: “Ti sei mai sentito limitato dalle regole del formato bonelliano?” così rispondeva:
“All’inizio no, e i primi Nathan Never ne sono una prova: basta solo sfogliarli per rendersene conto. La diversità d’impaginazione rispetto alle serie dell’epoca balza all’occhio. Poi Sergio Bonelli ha cominciato a irrigidirsi su molte cose, sui contenuti sia sull’aspetto grafico…”
Ma persino l’aspirazione creativa a innovare rappresenta, in fin dei conti, una rivendicazione di dignità per il formato espressivo dell’albo Bonelli che resta centrale nella poetica di Medda, Serra e Vigna. Gli stessi autori hanno continuato a praticarlo ed innovarlo, anche quando hanno scelto di allontanarsi dalla loro primigenia creatura.
Orfani prosegue nella sperimentazione espressiva di Nathan Never e, anzi, la porta alle estreme conseguenze ma con una sostanziale differenza.
Ringo devolution
In Orfani, splash page, griglie grafiche scardinate, lunghe sequenze mute, non intervengono più semplicemente a modernizzare e arricchire un linguaggio, ma tentano di rifondarlo all’insegna della rapidità. Lo stesso processo di stilizzazione del genere fantascientifico e dei suoi scenari (“fantabubbole”) descritto da Recchioni viene operato, ad esempio, sui caratteri dei personaggi – quasi appiattiti su stereotipi prefissati – e sui dialoghi improntati a una costante (e a volte disarmante) “anoressia” drammaturgica. La storia raccontata nel singolo albo si sviluppa, così, in un numero di scene spesso ridottissimo, configurando un consumo di fumetto, vicino alle forme brevi dell’intrattenimento contemporaneo (una sessione di videogame online, una clip su youtube…). I dinamici layout delle pagine abitano la carta del fumetto ma sono già pronti ad abitare dentro un telefonino o un tablet, dove il fruitore li legge scrollando dall’alto verso il basso le vignette.
Non importa quale valutazione estetica si dia di queste scelte, la sostanza è che Orfani si propone quale superamento dell’albo bonelliano tradizionale e, grosso modo, del fumetto di carta tout court. L’albo a fumetti, in quest’ottica, funziona come pre-testo per trama e personaggi, pre-confezionato per abitare già altri media. Se l’obiettivo è conquistare i lettori che i fumetti non li leggono, non importa avere una sceneggiatura di ferro, perfettamente oliata per i meccanismi della gabbia a sei vignette. Conta invece avere uno scheletro seriale, un concept forte – con o senza fantabubbole – in grado di assottigliarsi o espandersi a seconda del contenitore narrativo in cui lo si adatta.
Allo stesso modo, per il cartoonist diventa più importante definire un character-design e uno stile grafico ricco di suggestioni visive ipermediali (cinema, videogiochi, altri fumetti, etc.) che non concentrarsi sulla riuscita grafica della singola tavola del singolo albo. Anche l’adozione del colore, prima ancora che una scelta di stile dentro le storie – comunque tratto distintivo del lavoro di Recchioni e Mammucari come “art director” della serie – marca la discontinuità industriale di Orfani rispetto alla routine produttiva della Bonelli. Da un modello narrativo che trova il suo compimento nella pagina di carta, in bianco e nero solo “matite e china”, passiamo a un modello produttivo crossmediale, in cui la pagina a fumetti è ancora racconto ma è anche già (soprattutto?) storyboard per altri mezzi d’espressione.
Orfani testimonia, insomma, un cambio di prospettiva radicale per il fumetto popolare. Ed è curiosa la corrispondenza tra questa messa in scena di una fantascienza foschissima, un cupo futuro senza futuro, come quello in cui sopravvivono prima Ringo e poi Rosa, e l’idea di raccontarla con un formato fumettistico “senza futuro”, condannato a trasformarsi in qualcos’altro per sopravvivere.
Nathan Never, dal canto proprio, nei suoi venticinque anni di esistenza editoriale, ha visto il mondo reale evolversi da un punto di vista tecnologico e digitale con una velocità cresciuta esponenzialmente decennio dopo decennio, cui non è stato facile tenere testa in termini di immaginario. A volte la sua fantascienza è stata al passo coi tempi, a volte li ha rincorsi senza raggiungerli. La sfida per l’agente Alfa e i suoi autori negli anni a venire sarà proprio quella di continuare a raccontare il futuro, tenendo conto del presente, forse in compagnia di altre serie di fantascienza bonelliane.
Riparliamone tra venticinque anni, magari dandoci appuntamento di nuovo su Lo Spazio Bianco.
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