Da Nathan a Ringo: venti anni di fantascienza bonelliana – 1° Parte

Da Nathan a Ringo: venti anni di fantascienza bonelliana – 1° Parte

Una riflessione su che cosa voleva dire “fantascienza” nel fumetto bonelliano nei primi anni '90, quando Nathan Never approdò nelle edicole, e cosa vuol dire oggi.

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“Mentre alcuni aspettavano ansiosamente  i progressi  della Scienza e della Tecnologia… altri temevano  le conseguenze del cambiamento e prevedevano l’incubo. Fin dall’inizio la fantascienza ha oscillato tra i due poli dell’ottimismo e del pessimismo.” [Isaac Asimov, Science Fiction: Real-Life Mirror of Social Chang in  Prism, January 1974]

Qualsiasi prodotto finzionale (fumetto, film, romanzo…) rispecchia le aspettative e i timori di chi lo realizza. In particolare, la fantascienza  sin dalle sue prime declinazioni letterarie – e poi, in seguito, negli altri media in cui si è affermata come genere – ha sempre costituito uno specchio fantasmatico dei nostri desideri e delle nostre pulsioni collettive. Nel suo essere narrativa di previsione, ambientata in futuri più o meno remoti dell’umanità, essa riflette e analizza aspetti del mondo coevo alle sue opere, slegandoli dalla contemporaneità per trasferirli nell’universo del possibile.

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Attraverso lo specchio, attraverso il tempo

La fantascienza, quindi come specchio dei tempi, ma anche come specchio nei tempi: nel senso che, guardando retrospettivamente all’evoluzione del genere, ci accorgiamo di quanto la nostra capacità di immaginare il futuro cambi negli anni, perché sempre legata alla percezione del presente e alla re-interpretazione del passato.
Ad esempio, molte delle opere della cosiddetta fantascienza golden age – quel periodo che va dagli anni ’30 agli anni ’50 del secolo scorso e che vide la pubblicazione, prima su riviste dedicate e poi in volumi, di molti  autori diventati “classici” e “maestri” del genere – come Isaac Asimov, Frederik Pohl e Ray Bradbury  – erano improntate alla space opera, riflettendo tanto l’ottimismo che pervadeva la società, soprattutto statunitense, all’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale, quanto il formulare ipotesi su usi più o meno realistici o fantasiosi delle più recenti scoperte scientifiche come l’energia atomica. Lo stesso  accadeva nei fumetti, a partire dagli anni Trenta,  con serie quali  l’indimenticabile Flash Gordon di Alex Raymond ma anche Brick Bradford di William Ritt e Clarence Gray,   e – per citare anche l’Italia – Saturno contro La Terra di Cesare Zavattini e Federico Pedrocchi.

Allo stesso modo, la produzione letteraria fantascientifica degli anni ’60 e ’70, diventa più introspettiva dando vita al filone della fantascienza sociologica, che riuniva in sé e sviluppava gli assunti derivanti dai grandi movimenti sociali e politici che investivano la civiltà occidentale del periodo, innescando riflessioni e riconsiderazioni su molti aspetti della società civile.  In ambito fumettistico, potremmo fare riferimento tanto a L’Eternauta di Hector Oesterheld e Francisco Solano Lopez, quanto al  maturo  Jeff Hawke di Sidney Jordan. Senza dimenticare le contaminazioni fantascientifiche che alimentano il fumetto supereroistico americano e il fumetto d’autore  europeo di Metal Hurlant e dintorni.

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Gli anni ’80 si segnalano in primis per l’esplosione della corrente letteraria e artistica del cyberpunk, che dà origine a un omonimo filone fantascientifico e che ha in William Gibson e Bruce Sterling gli autori di punta nel panorama letterario. Di fatto il cyberpunk – che tratta  tratta di scienze avanzate, come l’information technology e la cibernetica, accoppiate con un certo grado di ribellione o cambiamento radicale nell’ordine sociale – ha come afflato l’inizio della diffusione massiccia dell’uso del computer e della tecnologia nella vita quotidiana e di fatto permea l’intero panorama fantascientifico in ogni media, con opere cinematografiche come Blade Runner e Terminator e fumetti come Akira di Katsuhiro Otomo e Ghost in the shell di Masamune Shirow.

Questa premessa, seppur semplificata e semplificante, ci aiuta a capire quanto l’immaginario fantascientifico di Nathan Never  rifletta il modo di intendere  il futuro negli anni Novanta del secolo scorso.  Oggi, a distanza di venticinque anni,  vale la pena domandarsi che tipo di futuro era? E cosa ne resta oggi?

Lunga vita e prosperità, Nathan

Nathan Never è stata la prima serie a fumetti di fantascienza di casa Bonelli e, per molti aspetti, la prima del fumetto popolare italiano. Con questa affermazione non facciamo torto a un personaggio come il Ranxerox di Stefano Tamburini, Andrea Pazienza e Tanino Liberatore, del 1978, che si muove in un ambito fantascientifico (cyberpunk): in quel caso il genere non è certo un elemento fondante. Così come, all’interno dello stesso fumetto bonelliano, la fantascienza era intervenuta in precedenza ad arricchire le  storie di Martin Mystere, Dylan Dog  e, persino Zagor o Tex Willer, ma sempre come elemento accessorio all’interno della logica “contenitore” delle serie di Via Buonarroti. Al contrario, in Nathan Never il futuro (im)possibile  messo in scena diventa il contenuto, l’elemento cardine della narrazione. 

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Michele Medda, Antonio Serra e Bepi Vigna creano l’Agente Alfa alla fine degli anni ’80 (nel 1989 per la precisione, come racconta Vigna in questo suo articolo), in un clima sociale che risente dei grandi stravolgimenti politici mondiali (la caduta del muro di Berlino, il crollo dell’URSS e la scomparsa dei regimi socialisti) e che anche in Italia porterà al terremoto politico ed economico derivato dall’inchiesta “Mani pulite”.
Questi cambiamenti  epocali sembrano prospettare un ingresso nel nuovo millennio all’insegna di un ritrovato equilibrio mondiale che offre squarci di speranza e positività per il futuro del genere umano, con la tecnologia che con sempre maggiore velocità invade spazi più ampi e cambia (spesso in meglio) il modo di vivere quotidiano di ciascuno.  Molte di quelle attese poi sono andate deluse nel tempo, ma non c’è dubbio che il clima ottimistico e la fiducia  nel domani e nella tecnologia si respirano chiaramente nelle prime storie di Nathan Never: tratto che la fantascienza degli anni ’90 recupera in un certo qual modo dalle opere del periodo golden age.

Fanta(co)scienza

Potendo pescare senza vincoli o preclusioni di sorta nella sterminata tradizione del genere – letteraria, cinematografica,  ma anche televisiva e fumettistica –  Medda, Serra e Vigna, anche in ragione dei loro diversi gusti, alternano venature nerissime tipiche di una certa fantascienza post apocalittica con rimandi alla  grande space opera più avventurosa. A volte dipingono colossali scenari ucronici, altre volte  ritagliano dal contesto piccole storie hardboiled  e  noir.  Nella serie confluiscono anche alcuni retaggi fantascientifici del decennio appena trascorso, come gli echi del movimento cyberpunk che però avrebbero trovato uno sviluppo più compiuto  in un’altra serie successiva a Nathan Never  – forse non a caso più di nicchia – cioè Hammer pubblicata della Star Comics e riproposta un paio di anni fa da Mondadori Comics.

E se nei primi albi balza subito all’occhio il debito enorme tanto con le atmosfere e le scenografie cupe del Blade Runner cinematografico di Ridley Scott, quanto con l’originaria  matrice letteraria di Philip K. Dick, lo sviluppo  della serie  mitiga le influenze pessimiste all’interno di un sviluppo seriale molto più ottimista. Le avventure di Nathan Never, pur prefigurandone i cupi rischi, mantengono viva la speranza che sia sempre possibile riscattare il futuro dell’uomo.

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Questa prospettiva è ben esemplificata dall’episodio iniziale  Agente speciale Alfa, vero e proprio format espressivo e  manifesto valoriale dell’intera serie. Nella vicenda di emancipazione dell’androide C-09, testimone di un omicidio su cui Nathan Never indaga,  gli autori coniugano un topos asimoviano (il confine labile tra umano e artificiale in una società ipertecnologica) con un positivo afflato di fiducia nel progresso.  Al fondo, prevale l’idea che la tecnologia, con tutti i suoi limiti, possa comunque permetterci di riversare le migliori virtù umane perfino in corpi che di umano hanno ormai ben poco.  E il saluto finale che Nathan rivolge all’androide, in procinto di (ri)farsi una vita, non può che essere un “Ciao Uomo”, denso di fanta(co)scienza positiva.

Il futuro del futuro

Oltre ai diversi episodi della serie regolare, c’è una storia in particolare che ben riassume e dimostra lo spirito positivo delle storie dell’Agente Alfa ed è una storia importante nell’economia espressiva ed editoriale del personaggio anche perché inaugura la collana degli albi giganti dedicati all’eroe, i cosiddetti “Nathanneveroni”.
Doppio futuro, scritta da Antonio Serra e disegnata da Roberto De Angelis, vede la luce all’inizio del 1995 e segna il tassello iniziale di una immensa saga che occupa anche i successivi due albi giganti e che, per molti aspetti, si riverbera nella collana mensile negli anni successivi1.

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Citando fin dall’introduzione le fonti d’ispirazione della storia, su tutte l’universo di Star Trek e la saga di Terminator di James Cameron (ma anche tanti altri spunti letterari e cinematografici), lo sceneggiatore sardo decide di dar vita a una storia che illustri ciò che accadrà all’umanità in un lontano futuro, attraverso una narrazione che si dipana tra viaggi nel tempo, universi paralleli e paradossi temporali.
Serra crea così la razza dei Tecnodroidi, esseri biomeccanici che in un remoto futuro dominano la Terra e a cui si oppongono un manipolo di ribelli sopravvissuti alle guerre guidato da Dakkar, nome dietro il quale si cela il personaggio di Anna, la figlia di Nathan Never. E proprio Nathan, nel presente narrativo, diventa motore degli eventi che porteranno l’umanità a trovare la forza negli decenni successivi per opporsi ai suoi dominatori tecnorganici.

L’anima del plot è quella “grande voglia di futuro” di cui parla lo stesso Sergio Bonelli nell’introduzione del volume. Quella voglia era certamente la stessa dei lettori appassionati che, da sempre a digiuno di fantascienza a fumetti italiana, avevano premiato in fatto di vendite la scommessa Nathan Never.
Ma era anche la voglia degli autori di narrare storie che parlassero del domani non solo in termini di problemi  ma anche di opportunità per il genere umano.  Non è un caso se Antonio Serra dedichi il volume alla memoria di Gene Roddenberry, il creatore di Star Trek  artefice di una visione ottimistica del futuro e di fiducia negli aspetti migliori della nostra civiltà.

Gregory, Brad e Ringo

Non sempre una serie così longeva   – e che ha visto alternarsi nel tempo tanti scrittori diversi – ha saputo mantenere l’afflato positivo  della saga appena raccontata. Nondimeno, Nathan Never ha marcato in maniera precisa l’identità del fumetto di fantascienza all’interno della factory bonelliana sia in termini di temi sia di scelte espressive. Tentativi di battere strade diverse, con personaggi quali Gregory Hunter – altra serie di Serra questa volta votata allo Space Fantasy –  o  Brad Barron (miniserie umanissima di Tito Faraci, concepita come un chiaro omaggio ai B-Movies anni Cinquanta e a L’Eternauta) non hanno avuto seguito.  La nuova grande scommessa nel genere è rappresentata da Orfani, la serie lanciata nel 2013 da Roberto Recchioni ed Emiliano Mammucari, molto diversa per temi e, diciamo pure, per “filosofia” da Nathan Never, come vedremo meglio nella seconda parte della nostra disamina.

Fine prima parte            

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  1. Di fatto, si tratta di una eptalogia, che comprende anche il quinto albo gigante scritto da Stefano Piani e i tre successivi scritti da Stefano Vietti – senza contare il #99 della serie mensile sceneggiato da Serra e che è uno degli snodi centrali di tutta la saga neveriana. Comunque, lo stesso Serra in più di una occasione ha confermato che il nucleo originario della saga dei Tecnodroidi è racchiusi nei primi tre albi giganti 

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