Il Nathan Never segreto di Bepi Vigna

Il Nathan Never segreto di Bepi Vigna

Bepi Vigna, uno dei tre creatori sardi di Nathan Never, ci porta in un viaggio dietro le quinte della nascita dell’Agente Alfa.

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Negli anni Ottanta c’era una piccola pizzeria, a Cagliari, nel tratto finale della via Dante dove le vetrine dei negozi eleganti iniziavano a diradarsi. Era lì che andavamo Antonio (Serra, n.d.r.), Michele (Medda n.d.r.) ed io quando volevamo ragionare sulle storie a fumetti, che allora scrivevamo ancora insieme.
Le pizze non erano particolarmente buone e per questo, forse, non c’era mai troppa gente, ma quel posto ci piaceva proprio perché si poteva parlare tranquillamente, senza essere disturbati. Ci mettevamo in fondo, seduti a un tavolo riparato da un separé di canne intrecciate.

Quel giovedì sera della primavera del 1989 ci eravamo dati appuntamento lì per discutere l’idea di un nuova serie che volevamo proporre alla Sergio Bonelli Editore. La Bonelli, allora, si chiamava ancora Daim Press e noi vi collaboravamo da circa due anni, scrivendo soggetti e sceneggiature per Martin Mystére e per Dylan Dog.
C’era sicuramente un po’ di sfrontatezza e anche di incoscienza giovanile nel voler proporre al maggior editore italiano un nostro personaggio, dato che eravamo tre giovani sceneggiatori ancora abbastanza inesperti.
Avevamo già deciso che la nostra serie sarebbe stata di fantascienza, perché era l’unico genere che il nostro editore in quel momento non pubblicava. Non ci piaceva, però, l’idea di realizzare una space opera, con astronavi interplanetarie e mostri alieni, volevamo stare più vicini alle atmosfere di un film che era piaciuto molto a tutti e tre: Blade Runner di Ridley Scott, uscito nel 1982.

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Nathan Never visto da Romeo Toffanetti

Antonio era quello che insisteva di più per l’ambientazione spaziale, con scenari che richiamassero i romanzi di Jules Verne; alcune idee proposte all’epoca, le avrebbe poi elaborate in maniera più compiuta e matura in due sue creazioni successive: Gregory Hunter e Greystorm.
A Michele piaceva la figura del detective privato, l’antieroe solitario che finiva per configurarsi come una sorta di rivisitazione moderna del cavaliere errante. I suoi riferimenti erano la serie televisiva Kung Fu, con David Carradine e i romanzi di Ed McBain, sull’Ottantasettesimo Distretto.

Io ero quello meno incline ad assecondare le proprie passioni (che erano soprattutto la letteratura hard–boiled e il cinema western), perché ero convinto che dovessimo delineare una figura nuova, capace di adeguarsi a un mondo in rapida trasformazione, un personaggio che vivesse delle storie in cui la tecnologia (il computer) avrebbe giocato un ruolo sempre più preponderante. Tra i romanzi di fantascienza, amavo particolarmente Dune, di Frank Herbert, del quale mi aveva affascinato la miscela di misticismo e azione. Avevo proposto, così, una figura di un monaco shaolin, esperto in arti marziali, abituato alla meditazione e dotato di particolari capacità deduttive.
Fu quella sera, tra una pizza e una birra che le nostre differenti idee si accordarono.

Il tono crepuscolare delle storie veniva direttamente da una miniserie americana a fumetti che qualche anno prima ci aveva colpito: Nathaniel Dusk,  di Don Mc Gregor e Gene Colan, avventure di un detective privato nella New York degli anni Trenta. Non so e non ricordo quanto il nome di quel personaggio abbia poi influito nella scelta di chiamare il nostro eroe Nathan. Il cognome, originariamente doveva essere Nemo, un omaggio al personaggio di Verne, una scelta caldeggiata da Serra.

Dai primi anni Ottanta la letteratura di fantascienza era fortemente influenzata dal cosiddetto cyberpunk, un’espressione coniata da Bruce Bethke come titolo di un suo racconto e reso popolare dal curatore editoriale Gardner Dozois che l’aveva utilizzata per definire quel genere di storie dove l’information technology si univa all’idea di un cambiamento dell’ordine sociale.

In particolare nei romanzi di scrittori come Bruce Sterling e William Gibson gli scenari hig-tech si univano a tematiche e suggestioni derivate dalla musica rock più d’avanguardia; si affrontavano argomenti come la tecnocrazia, la realtà virtuale, la clonazione, la bio-etica, il rapporto uomo-macchina.
Più che gli impianti narrativi puri e semplici (spesso mutuati dalla letteratura pulp degli anni Trenta e Quaranta) quello che ci affascinava era un certo stile narrativo ridondante, quasi barocco: un neo-romanticismo venato di poesia che era perfetto per una riflessione sull’uomo contemporaneo, preso dal vortice di un mondo in continua trasformazione, e costretto, quindi, a maturare una nuova sensibilità.

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Il primo schizzo di studio di Nathan Never fatto da Antonio Serra (1989)

I primi schizzi del personaggio vennero fatti da Serra, altri da nostri amici disegnatori, come Pier Luigi Murgia, Vanna Vinci e Dante Bastianoni, che in quel periodo lavorava con noi a Martin Mystére.
L’idea di partenza era stata il Michey Rourke dell’Anno del Dragone, e in effetti la capigliatura di Nathan ricorda un po’ quella del protagonista del film di Cimino; ma poi il volto cambiò, perché volevamo una faccia nuova, che non fosse riconducibile a un attore in particolare.

L’idea dei capelli in parte bianchi, venne a me, ricordando un aneddoto che riguardava un fatto accaduto a Baunei, il mio paese natale. Nell’altopiano che sovrasta l’abitato c’è una profonda forra, che pare sia la voragine a campata unica più profonda che esista in Europa, rimasta inesplorata fino agli anni Cinquanta. Dicono che il primo speleologo che vi discese, una volta riemerso in superficie, si ritrovò i capelli bianchi a causa della forte emozione che aveva provato.
Scoprimmo che vi sono frequenti casi di incanutimento repentino da shock e decidemmo di adottare questo espediente per creare un segno che marchiasse Nathan come una cicatrice, ricordando costantemente il trauma che aveva prodotto la svolta della sua vita.

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Nathan Never – studi Antonio Serra per il personaggio

Ci sono molte piccole cose che riguardano il personaggio che si legano, più o meno casualmente, alla vita degli autori. Per esempio, i familiari più stretti di Nathan hanno tutti dei nomi che riprendono quelli dei miei familiari: il padre si chiama Alex (ovvero Alessio, come mio fratello e mio nonno) il nonno di Nathan, invece, era Frank ( e io ho un altro fratello che si chiama Franco), la moglie Laura (come mia madre), la figlia Ann (Anna, come mia sorella), l’amica avvocato Olivia (come mia moglie, che è appunto un avvocato), lo zio con cui Nathan vive dopo la morte dei genitori è Livius (e un  fratello di mia madre si chiamava Livio). L’unico rimasto escluso da questo gioco è mio padre, ma solo perché il corrispettivo americano del suo nome (Flavius) mi sembrava riconducesse più all’antica Roma che al mondo futuro.
Anche molti luoghi della Sardegna e di Cagliari, appaiono in alcuni toponimi. Solo per fare due esempi: Gadalas (una campagna vicino a Baunei) è anche il nome del luogo in cui è nato Nathan Never; un carcere di massima sicurezza si chiama Good Walk (ovvero Buoncammino, come le vecchie prigioni di Cagliari).

Il progetto della nuova serie fu discusso per la prima volta con Sergio Bonelli nell’estate del 1989 a Porto Rotondo, dove l’editore si trovava in vacanza.
Qualche mese dopo andammo a Milano per proporre ufficialmente la nostra serie alla casa editrice. Avevamo preparato un dettagliato dossier, con tutte le caratteristiche del personaggio e i motivi per cui, secondo noi, le storie avrebbero dovuto funzionare.

Decidemmo frettolosamente di cambiare il nome del protagonista quando Alfredo Castelli ci disse che, tempo prima, alla Bonelli era stato utilizzato il marchio Nemo per un’iniziativa editoriale che non aveva avuto troppa fortuna. Da allora era nata la leggenda che quel nome… non portasse bene! Così, Nathan Nemo divenne Nathan Never: «Un nome provvisorio, poi, magari lo cambiamo», ci dicemmo, ma poi il nome restò quello.
Un altro elemento scaramantico fu la scelta della stessa iniziale nel nome e cognome del protagonista: come in Dylan Dog o Martin Mystére, le due serie nate prima della nostra che avevano riscosso un buon successo, mentre altre, come Nick Raider, avevano funzionato meno.

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Studi di Dante Bastianoni per la presentazione del personaggio a Sergio Bonelli

Il contratto con la casa editrice venne firmato l’11 novembre del 1989.
La sera, uscendo dagli uffici di via Buonarroti, stabilimmo che Nathan era nato in quello stesso giorno, ma dell’anno 2157 (ovvero due secoli dopo l’anno in cui sono nato io, il più “vecchio” del tre autori), quindi sarebbe stato del segno zodiacale dello scorpione, che per caratteristiche si adattava benissimo al personaggio. Lo scorpione, infatti, viene descritto come un soggetto combattivo, che non si lascia mai spaventare dalle difficoltà, molto intuitivo, ma anche introverso e profondo nel considerare i sentimenti e i valori in cui crede.
Naturalmente nessuno di noi autori ha mai creduto minimamente agli oroscopi, ma legare il nostro eroe alle caratteristiche di un segno zodiacale era utile per dargli coerenza nei comportamenti e definire quelle componenti caratteriali che avrebbero determinato il suo modo di rapportarsi con gli altri personaggi.

Per scegliere i collaboratori facemmo fare delle prove a molti giovani disegnatori italiani che pubblicavano in quegli anni, tra cui vi erano Roberto De Angelis, Nicola Mari, Romeo Toffanetti e Germano Bonazzi. Volevamo creare uno staff che avesse una precisa estrazione culturale e generazionale. A tutti fornimmo un dettagliato dossier con schizzi nostri e fotocopie tratte da altri fumetti (soprattutto giapponesi, ancora inediti in Italia, come Akira di Katsuhiro Otomo, 2001 Nights di Yukinobu Hoshino, Appleseed di Masamune Shirow), perché era fondamentale creare un’immagine precisa e coerente del mondo di domani e in particolare della città in cui si sarebbero svolte molte delle storie.

Per le copertine scegliemmo inizialmente Claudio Castellini, con cui avevamo già realizzato una storia di Dylan Dog. Anche a lui fornimmo dettagliate indicazioni, oltre che i vari disegni già realizzati da altri, perché ne ricavasse dei model-sheet riproducibili.

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Nathan “Nemo” – studio di Dante Bastianoni

Mentre la preparazione della serie andava avanti e i primi albi entravano in produzione, quasi tutta la stampa italiana prese a dare anticipazioni sul nostro personaggio. C’era stato da poco il boom di Dylan Dog, una serie partita in sordina e diventata poi un grandissimo successo editoriale e quindi c’era molta curiosità anche per la nuova testata della Bonelli.
Tra i lettori di fumetti si creò pian piano un’attesa spasmodica, senza che noi avessimo fatto nulla di particolare per suscitarla.
Nell’aprile del 1991, alcuni mesi prima dell’uscita del numero uno, iniziammo ad avere sentore che, probabilmente, la nostra vita di sceneggiatori sarebbe cambiata.

Alessandro Pastore, titolare della Alessandro Distribuzioni, ci aveva chiesto di realizzare un numero zero di Nathan Never da dare in omaggio ai clienti in occasione dell’inaugurazione della sua rinnovata libreria, a Bologna. D’intesa con la Bonelli avevamo accettato la proposta, ritenendo che potesse procurarci un po’ di pubblicità, ma non potevamo certo immaginare che il giorno della presentazione dell’albo, avremmo trovato ad attenderci… tremila persone! Per consentirci di entrare nella libreria dovettero scortarci, facendoci passare delle cantine di un palazzo attiguo, perché la piazza antistante era completamente invasa dalla folla!
Io avevo appena superato qualche tempo prima l’esame da avvocato e decisi di lasciare la professione legale per dedicarmi interamente allo scrivere.

Sergio Bonelli, anni dopo, ha dichiarato di aver sempre considerato un atto di coraggio la fiducia concessa a quei tre ragazzi non ancora affermati, che gli proponevano una saga fantascientifica costruita su schemi narrativi per certi versi più vicini al fumetto americano e giapponese che a quello “bonelliano”. La fiducia, ma soprattutto l’intuito dell’editore, furono in seguito ripagati dal gradimento mostrato dai lettori per le avventure di Nathan Never.

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Nathan Never – Studio a colori di Dante Bastianoni

Credo che il motivo per cui la nostra serie ha funzionato sia dovuto al fatto che siamo riusciti a rinnovarla costantemente: quasi ogni due anni, infatti, abbiamo fatto partire delle saghe che modificavano l’impianto iniziale, introducevano nuovi personaggi e toglievano di mezzo quelli che secondo noi avevano esaurito la loro funzione narrativa. Inoltre, seguendo la scia di Martyn Mistére, abbiamo proposto una forte continuity e collegato l’universo del nostro personaggio a quello di altri character della casa editrice (Martin Mystére, ma anche Mister No).

Credo anche che In Nathan Never abbiano finito per riflettersi, forse in maniera più netta di altri fumetti italiani, le confusioni, i sogni e le paure degli ultimi decenni, la nostra difficoltà a rapportarci con il presente.

Quando siamo partiti con la serie, in America c’era ancora Reagan e in Inghilterra la Thatcher. Ci veniva promesso il benessere attraverso la deregulation, era in atto il rilancio senza limiti della competizione di mercato, ma anche la ripresa della corsa agli armamenti, col grande bluff dello “scudo spaziale americano”. E poi c’è stato il crollo del muro di Berlino, l’ascesa e il declino di Gorbaciov, il disfacimento dell’impero sovietico, l’11 settembre, le Guerre nel Golfo, il terzo mondo che è esploso alle porte dell’occidente. E nel frattempo, in Italia, Craxi e Tangentopoli, l’avvento di Berlusconi, la spaventosa crisi economica.
Tutti questi avvenimenti, a ben guardare, hanno trovato sempre un riscontro preciso nei nostri albi.

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Testatina di Nicola Mari per una cartella stampa (1991)

Nei riferimenti grafici, nell’inpaginazione della tavola, nel rapporto tra testo e disegno, nell’uso delle vignette in sequenza e delle didascalie “introspettive”, la nostra serie ha introdotto alcune novità che il fumetto popolare italiano, almeno fino ai primi anni Novanta, non aveva ancora adottato con frequenza.

Ricordo una volta che, nella storia intitolata L’Ultima Onda (Nathan Never #29), decisi di inserire una illustrazione a doppia pagina. Sergio Bonelli vide le tavole e non gradì la cosa, dato che secondo lui stravolgeva senza ragione una tradizione grafica che aveva sempre funzionato. Mi telefonò, particolarmente seccato:
«Voglio sapere per quale motivo hai pensato di fare una cosa del genere!», mi disse.
Io spiegai che ritenevo che quella fosse la scena determinante, il momento cruciale in cui si decideva realmente il destino dei due protagonisti e quindi avevo voluto accentuarne la drammaticità: volevo che il lettore si ricordasse di quell’evento.
Quando finii di parlare Bonelli stette zitto per un po’, poi, sbrigativamente, mi disse: «Mmm… la motivazione mi sembra valida. Va bene, allora la teniamo!».

Credo che questo episodio faccia capire quanto Sergio Bonelli fosse grande come editore. Aveva una passione e un rispetto per il lavoro, che non ho ritrovato mai in nessun altro.

[Si ringrazia Bepi Vigna per l’uso delle immagini tratte dal suo archivio personale]

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