Classe 1982, nato a Milano, Paolo Castaldi è uno dei più interessanti autori del panorama italiano. Inizia la sua carriera sulla rivista Strike! (Star Comics) e tra il 2009 e 2010 pubblica la sua prima graphic novel, Nuvole Rapide (Edizione Volier). Il 2011 è l´anno della consacrazione: inizia il sodalizio con Beccogiallo, per cui pubblica Etenesh, l’odissea di una migrante, che gli vale il Premio Boscarato come autore rivelazione dell´anno e la candidatura al Premio Guinigi. Nel frattempo, continua a dedicarsi a storie brevi e partecipa a incontri e concerti in cui si esibisce come live painter. Nel 2012 pubblica Diego Armando Maradona, che viene candidato al Premio Micheluzzi e tradotto in varie lingue. Negli anni successivi pubblica Gian Maria Volontè, Chilometri Zero. Viaggio nell’Italia dell’economia solidale e Pugni,storie di boxe, sempre per Beccogiallo.
Con lui abbiamo parlato della sua ultima opera, Allen Meyer (che inaugura la collana di fiction Rami di Beccogiallo), ma anche di musica, attualità, fumetto e storia.
Ciao Paolo e grazie per il tuo tempo. Nel volume dichiari apertamente che Allen Meyer nasce dall´ascolto dell´album Le Piromani di Teo Manzo, un disco a metà tra cantautorato e poesia pura. Come sei entrato in contatto con questo artista e cosa hai trovato nel disco che ti ha stimolato a scrivere una storia di questo tipo?
Io e Teo ci siamo conosciuti umanamente e artisticamente nel 2010, o inizio 2011… adesso non ricordo precisamente.
La nostra è un’amicizia nata attorno ai tavoli dei bar e dei locali milanesi che si è consolidata fin da subito. Era appena uscito in libreria Etenesh, l’Odissea di una migrante e stavo scrivendo Diego Armando Maradona. Teo sfornava canzoni e poesie a ripetizione che mi parevano tutte bellissime.
Passavamo il tempo attorno a un pianoforte, suonando e cantando, ragionando sui rispettivi percorsi artistici, condividendo una condizione comune a molti emergenti, quella del lavoro per l’affitto e l’attività creativa in parallelo. Per nessuno dei due era un hobby, non più. Eravamo entrambi in quella “bolla sospesa” che ti chiede di prendere una decisione, o quanto meno di sbilanciarti un po’. “Che facciamo? Ci buttiamo? Eh, ma l’affitto? Massì vedi Lui, se ce la fa lui perché noi no?”. Ne parlavamo in continuazione. Io gli giravo su Facebook le interviste di Gipi, sempre ricche di spunti interessanti a riguardo, lui mi faceva conoscere musicisti bravissimi, come Calonego.
Nei lavori di Teo trovavo una stratificazione inusuale per un giovane cantautore, oltre che una scrittura poetica e molto curata, a volte persino troppo. Puoi ascoltare un suo disco quaranta volte e cogliere sempre qualcosa di nuovo. Questo può rendere il primo approccio un po’ ostico, però capisci subito che c’è qualcosa di più, che è diverso rispetto allo pseudo-cantautorato indie che si sbatte (poco) per parlare del nulla. Ho sempre preferito chi, tramite la sua musica, ha voglia di raccontarti una storia, senza troppe pose. Carmen Consoli, l’ultimo Niccolò Fabi, La Bottega Baltazar. Tutta gente che ha almeno quarant’anni. A parte rari casi, quelli che stanno uscendo ora hanno avuto solo il merito di farmi avvicinare al rap. Lì c’è gente che, tamarra quanto vuoi, ti parla di qualcosa, e lo fa con passione. Credo che la musica italiana, in questo momento, abbia più bisogno di un Kaos o di un Salmo. Di un Ghali o di un Caparezza. Che se ne fa de Il management del dolore post-operatorio o L’officina della Camomilla?
Ecco, Teo è uno dei rari casi di cui sopra.
Digressione musicale a parte (chiedo perdono), la nostra collaborazione è iniziata a fine 2012, quando l’ho coinvolto su Maradona, chiedendogli di scrivere un brano per promuovere l’uscita del fumetto. Lui ha composto, suonato e registrato Bisogno di una notte di mezza estate. Abbiamo quindi iniziato a fare concerti con live painting un po’ ovunque, da Torino alla Sicilia, passando per le Marche, Taranto e Napoli. Ho anche usato i suoi testi nella mia unica autoproduzione, EP // Volume 01. Dal canto mio, ho realizzato gli artwork (e un documentario) dei suoi due dischi editi fin ora, Utopia di un’autopsia e Le Piromani.
Quando Teo mi ha passato il pre-mix de Le Piromani, per poter iniziare a ragionare sulla cover del disco, io stavo lavorando in maniera scomposta a un nuovo fumetto. Le tematiche erano già le stesse che un lettore può ritrovare in Allen Meyer, ma erano veicolate da idee troppo complesse, senza né capo né coda. Ho iniziato ad ascoltare il disco a ripetizione nelle cuffie, in auto o mentre disegnavo e subito ci ho visto una storia bellissima, universale e potente. Quel che cercavo era lì, bastava solo lavorarci sopra, dargli una forma concreta. C’era la deriva attuale, il “grillismo”, i rivoluzionari della domenica, quelli che nel libro chiamo “un gregge di pecore travestito da lupi che si nasconde dietro ad una stupida superstizione popolare”. C’era questa idea bellissima della Luna che poteva cadere sulla Terra. Era poetico!
Una sera gli dico: “mi sa che faccio un fumetto su Le piromani, che ne pensi?”.
In generale, quanto é importante la musica nel tuo processo creativo? Molti scrittori e disegnatori dichiarano di ascoltare molta musica durante il lavoro e che spesso questa influenza il loro lavoro, penso ad esempio al recente Royal City di Jeff Lemire, in cui ogni capitolo é accompagnato da una colonna sonora.
Moltissimo. Direi immancabile durante la mia giornata lavorativa, tranne quando scrivo perché mi distrae troppo.
Ogni mia pubblicazione è contraddistinta da una precisa colonna sonora che solitamente è attinente all’argomento trattato. Aiuta a calarmi nel mondo che sto tentando di materializzare su carta e intanto mi arricchisce. Disegnando Pugni ho scoperto una canzone come Boxe a Milano di Pacifico o i tangueros della pampa argentina. Fueron tres años è un brano struggente e meraviglioso. L’avrò ascoltato cento volte mentre disegnavo le due tavole sul pugile Luis Firpo.
Ogni tanto a margine, sulle tavole originali, annoto i brani che ho ascoltato durante la realizzazione, per ricordarli anche a distanza di anni.
Hai esordito e lavorato assiduamente con BeccoGiallo e adesso inauguri la collana “Rami”, che segna una svolta importante per l´editore, proiettandolo nel mondo dei fumetti di fiction. È stata una evoluzione naturale del tuo lavoro? Come sei entrato a far parte del progetto e quale é stato il tuo primo contatto con Alice Milani?
Dopo cinque fumetti in cinque anni, tutti legati a tematiche di realtà, avevo voglia di fare altro. Una storia di fiction. Questo voleva dire cambiare editore e BeccoGiallo per me è una famiglia, ci sto benissimo… Insomma, non era una scelta che avrei preso a cuor leggero.
Ne ho parlato a Guido e Federico, i due editori, quanto meno per correttezza, visto il rapporto che negli anni si era creato tra noi e visto che loro probabilmente si aspettavano qualche idea per un nuovo libro.
Qualche mese dopo, durante la mostra a Cremona organizzata dal Centro Andrea Pazienza e dedicata ai 10 anni BeccoGiallo, Guido mi ha accennato questa idea della collana di Fiction e che per loro sarebbe stato importante aprire con un autore rappresentativo. Era un salto nel vuoto per me e per loro, i pro erano pochi (ma belli) e i contro erano moltissimi. Ho fatto finta di pensarci su qualche giorno, prima di accettare.
Alice Milani è stata la ciliegina sulla torta. Un’autrice che stimo e che seguivo con attenzione da tempo. Era una scelta perfetta. In linea con un’idea di fumetto che BeccoGiallo porta avanti da anni. Salita “in corsa”, è riuscita subito a dare la sua impronta a Rami e ad Allen Meyer. Una chicca, tra l’altro: il titolo in copertina, scritto mano, è opera sua. Dopo molti tentativi bocciati e prove con i font più svariati ha preso il mano la situazione e ha inviato un titolo fatto da lei, con pennello e colore. Andato al primo colpo.
Parlando dell´opera, ci sono molti tematiche di attualità che mescolano passato e presente, fiction e realtà: penso ad esempio alla disinformazione e alla mistificazione a fini politici, nonché al dramma della depressione. Un racconto che nasce da un disco senza struttura narrativa e che collega tra sé elementi molto diversi: come sono nate queste idee e quanto è complesso per un autore unire elementi di tale tipo tra loro e saldarli sulla “traccia” ispirata dal disco?
In realtà tutte queste tematiche, la disillusione, l’amore, il vuoto creativo, fino alla disinformazione dilagante, erano già sul disco di Teo e, ancor prima, nella mia testa e nelle idee che stavo buttando giù per il nuovo fumetto.
Unire tutto non è stato complesso perché si tratta di concetti universali che riguardano l’esistenza di ogni essere umano che vive questo tempo. La storia di un astronomo austriaco nella Milano del 1848 è solo un pretesto narrativo. Allen Meyer è chiunque tenti di sopravvivere al pessimismo, chiunque tenti di non farsi sopraffare dalle grida frustrate su Facebook, dall’intolleranza e dalla violenza verbale, fisica e di pensiero.
Sulla stesura della sceneggiatura ho speso le energie maggiori. Guido mi è stato molto d’aiuto, sempre il mio primo interlocutore. Insieme siamo arrivati al risultato che ora potete leggere. Tutte le tematiche e i piani narrativi temporali dovevano incastrarsi alla perfezione, come in un puzzle. Il lettore doveva avere gli elementi necessari per decodificare tutti gli aspetti della storia e, almeno di questo sono certo, quegli elementi ci sono tutti. Allen Meyer non è un fumetto criptico. È stratificato. Magari non si potrà cogliere tutto ad una prima lettura, però non abbiamo lasciato nulla al caso o all’improvvisazione. Certo, non si tratta di una lettura semplice, come Le Piromani non è un disco facile. Ne ero consapevole fin da subito, ne ho anche parlato all’editore, per loro potrebbe trattarsi di una bella avventura editoriale dalla scarsa resa economica. Ma non ci importava. Abbiamo la relativa certezza di aver realizzato un bel libro. Sicuramente il mio migliore.
Milano non é solo uno sfondo, ma é protagonista attiva del racconto. Possiamo dire che questo fumetto sia anche un omaggio alla tua città e alla sua storia?
Lo si può dire a voce altissima. Erano anni che meditavo di fare un fumetto ambientato a Milano, città in cui vivo, in cui lavoro e che amo.
Dopo il grigiore della giunta Moratti, Milano è rinata. Ovviamente non è una città perfetta, ha le sue criticità e le sue complessità, come ogni agglomerato urbano che superi il milione di abitanti. Però ti senti addosso costantemente la sensazione che le cose accadono, semplicemente, anche solo restando fermi. Si muovono. Una sensazione aggressiva a volte, ma inebriante.
Vibrazioni simili le ho avvertite solo ad Amburgo, a Tokyo, a Berlino o a Parigi, per dire. Come se tutte queste città facessero parte di una grande nazione dislocata su territori diversi tra loro ma che parlano la stessa lingua. Quando viaggio per piacere o per lavoro, ho la sensazione di trovarmi più a mio agio all’estero, in una grande città europea magari, piuttosto che a Piacenza o a Belluno. Mi muovo con più disinvoltura, riconosco quel che mi circonda, anche se magari è la prima volta che la visito.
Parlando di Storia e della storia, hai deciso di ambientare le vicende di Allen Meyer durante le cinque giornate di Milano, un fatto storico che ha affascinato molti scrittori.
Cosa ha spinto te a scegliere questo periodo?
Un passaggio della canzone Lo strano caso dell’incendio all’anagrafe, che potete trovare sul disco. La frase dice “…La notte delle barricate, in Monte Napoleone…” (si intende Via Monte Napoleone, la via in centro ormai diventata famosa per le boutique di alta moda).
Ecco, appena l’ho sentita mi sono immaginato cosa doveva essere quella Milano del 1848, senza l’illuminazione elettrica, le notti buio catrame schiarite solo dai roghi appiccati dai rivoltosi, con queste barricate enormi a bloccare le strade del centro che da lontano dovevano sembrare capodogli spiaggiati. Mi sembrava molto suggestiva come immagine.
Inizialmente il titolo doveva essere La notte delle barricate, mi piaceva moltissimo, ma era troppo focalizzato sull’evento storico, e, pubblicando con un editore così connotato come BeccoGiallo, c’era il rischio che passasse per un graphic novel sulla rivolta del ‘48. Sarebbe stato fuorviante, perché delle Cinque Giornate ho utilizzato solo l’ambientazione, il set. Tutto il resto è completamente inventato, a partire dalle ragioni per cui la rivolta esplode nelle strade.
Nelle sequenze ambientate a metà del 1800 ho visto una forte influenza delle tecniche pittoriche di quel periodo, in particolare le acqueforti e i disegni in bianco e nero, sia acquerellati che non. È solo una mia impressione o c´è stato uno studio dell´arte di quel periodo per rendere l´atmosfera del racconto ancor più immersiva?
Mi fa piacere che si noti! Innanzitutto ho un debole per la grafite, per la matita. Seguo con interesse molti autori italiani che la utilizzano sempre più spesso nei loro fumetti. Silvia Rocchi, la stessa Alice Milani, Andrea Serio, Maurizio Rosenzweig, che con la matita ha partorito tavole spettacolari, solo per citare i primi che mi vengono in mente.
La matita è uno strumento popolare dalle moltissime variabili di segno e di utilizzo. È democratica, costa poco, tutti hanno in casa una matita. Invece gli acquerelli e i pennelli buoni costano una cifra. Nikolai Maslov, fumettista autodidatta e operaio edile, ha realizzato Siberia tutto in matita perché era il suo unico strumento a disposizione. È da quando ho letto il suo fumetto che mi balenava in testa questa idea di realizzare un’opera interamente con la grafite (anche se c’è un po’ di colore e di acquerello grigio qui e là).
Ero partito con l’idea di utilizzare la grafite come elemento portante del segno. Doveva essere sempre presente, materica.
Quando mi sono documentato sulla pittura dell’epoca e in particolare sui pittori che avevano raccontato il 1848 attraverso le loro tele e i loro disegni, ho scoperto opere potentissime, come Porta Tosa in Milano di Carlo Canella, con una barricata in primo piano, il fuoco, gli incendi, la confusione, il fumo della polvere da sparo. La copertina ad esempio è ispirata molto liberamente alla tela forse più bella tra quelle che raccontano Le cinque giornate , Gli austriaci abbandonano Milano da Porta Tosa di Bossoli. La luna che si vede in alto a sinistra è la stessa che ho ripreso nella cover, ad esempio.
Anche Felice Donghi è stato di notevole ispirazione. Lui ha addirittura realizzato un “reportage disegnato” di quei giorni. Fogli e acquerelli alla mano, ha impresso per sempre alcune istantanee di quel momento storico. La sua importanza nel ricostruire visivamente le cinque giornate è stata centrale. Decine di disegni matita e acquerello leggero, dove si vedono le barricate, i soldati che si scontrano, uomini, donne e bambini coinvolti nella rivolta. Tutto in presa diretta, là, mentre succedeva. Joe Sacco praticamente.
Infine vorrei citare Girolamo Induno che ha realizzato dei character, sempre matita e acquerello, di tutte le divise dei soldati austriaci e dell’abbigliamento dei rivoluzionari. Mi hai reso la vita molto più facile, Girolamo caro…
Questa ricerca ha inevitabilmente condizionato il mio tratto, tirandolo un po’ per la maglietta. Spero risulti comunque fresco ma non troppo moderno. Spero si porti dietro un po’ di quella solennità, di quella “teatralità” che era propria delle acqueforti e dei carboncini dell’epoca.
p.s. Molte di queste opere si possono visitare al Museo del Risorgimento di Milano.
Da dicembre in poi intraprenderai un tour musicale/fumettistico con Teo Manzo per presentare fumetto e disco in una serie di incontri a metà tra presentazione, concerto e live painting: cosa ci puoi dire di questo progetto?
La promozione di Allen Meyer si muoverà su due binari paralleli: il Tour in compagnia di Teo Manzo, che vedrà alcune date in giro per l’Italia, in contesti più congeniali alla musica dal vivo, quindi locali, club e festival, dove lui suonerà Le piromani completamente riarrangiato per l’occasione e io, al suo fianco, dipingerò su grande formato riprendendo alcuni elementi del fumetto.
Per le librerie, i circoli, le biblioteche e tutti quegli ambienti più canonici, presenterò invece una breve performance solista, dove dipingerò dal vivo accompagnandomi con alcuni pezzi del disco diffusi da uno stereo. Poche chiacchiere sul libro e sulla sua genesi, magari durante il live painting, che io immagino come un momento di 30 minuti circa in cui una persona può rilassarsi con la musica e il disegno, fare due chiacchiere con me e magari bersi un bicchiere di vino. Niente pipponi, quel che c’è da sapere su Allen Meyer è dentro al libro. Non serve parlarne, basta leggerlo.
Tutte le date verranno pubblicate a breve sul mio sito internet: paolocastaldi.it/tour/
Si inizia il 15 dicembre da Padova.
Grazie mille Paolo per il tuo tempo e buon lavoro!
Intervista realizzata via mail a novembre 2017