Magic Press propone in un sontuoso e massiccio volume di seicento pagine la versione integrale dell’epopea di Martha Washington della coppia stellata Frank Miller e Dave Gibbons.
Al di là di vari errori di traduzione e adattamento, oltre ad alcuni saltuari refusi, l’edizione si presenta per il resto curatissima e permette di leggere in ordine cronologico (in base allo svolgimento effettivo dei fatti narrati e non in quello di pubblicazione) l’intera opera, composta dalle tre miniserie principali, Give me liberty, Martha Washington va alla guerra e Martha Washington salva il mondo, assieme ai due spin-off Buon compleanno Martha Washington (contenenti alcuni crossover celebrativi di altri personaggi di Miller realizzati con Geof Darrow, fra cui Big guy e Nixon) e Martha Washington dispersa nello spazio, oltre al breve capitolo conclusivo Martha Washington muore; il tutto corredato da una ricca galleria di schizzi e illustrazioni e introduzioni ad ogni storia scritte dagli autori.
L’opera è nata e si è sviluppata radicalmente collegata a un preciso contesto editoriale e storico: serializzata a fasi alterne dal 1990 fino al 1997, per poi essere conclusa con il capitolo finale nel 2007 (esattamente dieci anni dopo), la saga è fortemente influenzata dal neonato “filone” della Dark Age, con evidenti contaminazioni da opere come Watchmen e Il ritorno del Cavaliere Oscuro, oltre alla ripresa di ambientazioni futuristiche e postapocalittiche di Robocop e strascichi dal Ronin dello stesso Miller.
Martha Washington, nata nel 1995 (un periodo di poco futuro rispetto a quello in cui gli autori operavano) è una giovane ragazza di colore che vive con la sua famiglia nel degradato Cabrini-Green, un quartiere popolare di Chicago che somiglia a un vero e proprio ghetto in cui la protagonista è cresciuta fra violenze e guerre tra gang; dopo aver perso il proprio padre durante una rivolta per la chiusura del Cabrini-Green e anche il proprio maestro di scuola, unica figura paterna e virtuosa, Martha viene rinchiusa in un centro psichiatrico e successivamente liberata, per arrivare poi ad arruolarsi in Pax, le forze di “pace” del governo americano.
La storia di Martha è dunque sin dall’inizio una tragica scalata, un calvario verso una predestinazione eroica a cui non può sfuggire.
Il personaggio è ispirato alla prima first lady della storia, Martha Washington, ma forse in particolare alla sua sorellastra illegittima Ann Dandridge Costin, una schiava dal sangue misto africano, bianco e Cherokee.
Com’è tipico nella sua produzione, Miller crea una protagonista femminile dal carattere forte che non può non ricordare Casey, l’eroina di Ronin.
Martha è una donna che si è fatta da sola, brutalizzata e incattivita dalla vita, una figura epica che Miller sin da subito mostra di voler mitizzare ed elevare ad icona di una libertà operosa, forte, rozza e mascolina ma allo stesso tempo purissima, dolce ed innocente.
Give me liberty: un genuino caposaldo della Dark Age
Nel primo e certamente più interessante ciclo, Give me liberty, sono presenti tutte le ossessive tematiche del Frank Miller di fine anni ’80: la sferzante critica sociale, la ridicolizzazione di una scena politica sempre più farsesca e tronfia, le denunce di razzismo ed estremizzazione ideologica oltre che i problemi ambientali del global warming e del buco nell’ozono, l’odio verso la crescente militarizzazione e la condanna della nuclearizzazione.
Quella che Miller delinea è un’ucronia che non si discosta poi tanto dalla realtà: una storia alternativa sì, ma così reale da mettere i brividi.
È impossibile non vedere nell’ammiccante presidente Rexall il proseguimento di un discorso già avviato ne Il Ritorno del Cavaliere Oscuro con una durissima critica alla politica reaganiana, alla sua propaganda, al suo interventismo, all’oppressione di qualsiasi manifestazione politica “ostile” sebbene non violenta e soprattutto alle devastanti politiche sociali.
Assieme ad un ironico utilizzo di nomi parlanti davvero eloquenti – basti pensare al presidente Rexall (nome composto dalle parole “rex” e “all” una sorta di fantoccio/tiranno che si ammanta di una veste democratica che somiglia più a una dittatura) o al ministro della Giustizia Sphinchter (letteralmente “sfintere”, nomen omen) – Miller porta avanti una prepotente critica al Reaganomics, questa volta però con una libertà delirante ben più ampia che il contesto indipendente della Dark Horse Comics gli permetteva rispetto alla realtà della DC Comics.
Vediamo allora comparire sulla scena una potente fazione di ridicoli gay nazisti reazionari, dei chirurghi robot come ministri della Salute, una guerra coi pellerossa e una nella foresta amazzonica (in cui è impossibile non rivedere quella del Vietnam) per preservarla dal disboscamento operato da una potentissima multinazionale della carne, la Fat Boy (una crasi dei nomi “Fat Man” e “Little Boy”, le due bombe atomiche sganciate su Nagasaki e Hiroshima) che combatte con degli enormi robot dalle fattezze di una mascotte da catena di fast food, ortaggi geneticamente modificati e radioattivi grossi come esseri umani e strani bambini oggetto di esperimenti, sfruttati per i loro poteri ESP.
Miller orchestra una pantomima grottesca e insensata tramite una caricatura (non così irrealistica) della realtà violenta che tutti i giorni viveva.
In questo contesto l’autore inserisce riferimenti storici accurati, ad esempio alle Pantere Nere, a un’America sempre più spaccata e con tensioni indipendentiste interne e al Cabrini-Green, un progetto statale di collocamento di famiglie bisognose all’interno di case fornite dal governo.
Un’operazione che si era mostrata in realtà e sin dall’inizio come una vero e proprio ghetto: un quartiere circondato da recinti e filo spinato da cui nessuno poteva uscire. Un ambiente degradato finalizzato non al ricollocamento ma all’isolamento dei “rifiuti” che la classe media americana non amava vedere per strada
Dopo essere stata trasferita in un centro di “cura” psichiatrica, Martha viene di punto in bianco abbandonata per strada assieme a tanti altri assistiti infermi, abbandonati a morire nei vicoli a seguito dei tagli governativi sulle spese per il welfare del presidente Rexall, operazione che fu anche uno dei punti salienti della politica Reaganiana attraverso l’abbandono del modello dello stato sociale (welfare state), una tematica affrontata di recente anche da Rick Remender nel suo Deadly Class.
Give me liberty è dunque un’opera profondamente politicizzata, in cui Miller riversa tutte le sue perplessità sullo stato della società americana a briglia sciolta, senza mai porsi freni, attingendo a un immaginario totalmente fuori di testa che restituisce al lettore una narrazione adrenalinica e pirotecnica, piena di azione e fortemente stratificata.
Un caposaldo certamente come luminosa testimonianza della Dark Age, una tappa importante nello sviluppo artistico della produzione milleriana e un’opera che può essere letta, con occhio accorto, nell’ottica di vero e proprio documentario sociale, una critica violenta ma anche ironica.
In questo primo capitolo esplodono in tutta la loro graniticità i solidi valori conservatori e fortemente improntati alla democrazia di Miller.
Martha è un’eroina che incarna a pieno l’american dream: la libertà non ha qui le fattezze di un fiero patriota dai muscoli d’acciaio ma degli ultimi, di una dolce ed inesperta donna di colore, cresciuta nell’indigenza, che riscatta un intero popolo.
La parabola discendente della serie: quando il coraggio viene meno
Dopo il ’90 però le cose iniziarono a cambiare: Dave Gibbons, il compagno d’avventura di Frank, decise di abbandonare la barca: non era più attratto da quell’opera e non la sentiva nelle sue corde o forse, più probabilmente e come ammesso dall’autore stesso nell’introduzione, aveva semplicemente timore di non essere all’altezza delle grandi opere che erano state prodotte in quel periodo.
Quale che sia la verità, ad ogni modo Dave non sopportava più le atmosfere cupe della serie, la sua impronta politica, i suoi toni catastrofici e le continue torture subite dalla protagonista.
Con l’aiuto di Lynn Varley Frank decise di cambiare rotta con risultati visibili, molto efficaci ed interessanti, sin dalla metà della saga di Give me liberty, riconquistando la fiducia e l’interesse del disegnatore.
Negli archi narrativi successivi però (Martha Washington va alla guerra e Martha Washington salva il mondo) la serie diviene meno carica di tensioni forti e realistiche, la storia viene incentrata essenzialmente sull’azione e sul riscatto con una narrazione molto piana e poco originale, portando avanti una classica storia di guerra con tinte fantapolitiche per poi virare sullo sci-fi puro nell’ultimo story arc.
La narrazione procede già scritta, senza sorprese, folta di didascalie e dialoghi che la rendono a tratti perfino noiosa, perdendo di verve e rendendo meno affascinante anche la protagonista.
Nonostante l’amore incondizionato degli autori per la propria creatura, Martha diventa un personaggio passivo, ingenuo, un soldato che compie il suo dovere e che in maniera poco credibile, quasi casuale e repentina, acquista la consapevolezza di essere stata sfruttata come strumento dalle forze di “pace” americane, arrivando finalmente a ribellarsi. La sua insubordinazione è però stereotipata, poco curata, volgendosi verso strade che nulla hanno a che fare con gli intenti degli autori di costruire una figura vera, epica e credibile, che rappresentasse un perfetto esempio di libertà.
Anche il breve capitolo finale, Martha Washington muore, che corona idealmente questa lunga epopea con la morte di Martha Washington nel giorno del suo centesimo compleanno, non regge il confronto con le premesse.
Nonostante gli autori abbiano il merito di aver costruito un personaggio dal background solido e che colpisce forte al cuore del lettore, una protagonista davvero umana, che cresce, compie errori e invecchia, la storia si conclude in maniera tiepida con un messaggio mistico e semplicistico di speranza che coinvolge alcuni misteriosi alieni, sullo sfondo di uno scenario di guerra infinita.
Miller mostra gli eredi di Martha, una nuova generazione di guerriglieri ribelli dal carattere forte e dai saldi ideali, combattere una nuova guerra per la libertà, la stessa guerra che Martha e molti altri avevano già combattuto.
Il cammino per la libertà è dunque una strada in perenne costruzione, una continua lotta che si svolge non una volta per tutte, ma arricchita da individui “santi” (nell’ultimo capitolo Martha appare quasi come una sciamana nella sua comunità) che fungono da esempio per tutte le generazioni a venire.
Stile: evoluzione e involuzione
Dave Gibbons dà sfoggio delle sue grandi capacità di organizzazione della tavola attraverso composizioni ordinate e ben studiate, un perfezionista dall’impronta classica che risente delle influenze degli autori della rivista 2000 AD e che potremmo accostare inoltre per una certa eleganza a Brian Bolland.
Col passare degli anni e il proseguire delle pubblicazioni, in un arco temporale di più di 10 anni, la serie diventa un vero e proprio palcoscenico della palestra formativa della produzione a fumetti americana degli anni ’90: il segno di Gibbons diventa sempre più fluido e dinamico perdendo l’impostazione più rigorosa e solenne di Give me liberty e forse anche un po’ della sua anima.
L’avvento della computer grafica e della colorazione digitale si fa sentire fortemente, in molte occasioni Gibbons utilizza delle vere e proprie riproduzioni digitali fotorealistiche per gli sfondi creando incoerenza sostanziale fra questi e i personaggi in scena con una resa che spesso risulta kitsch.
Anche i colori si fanno sempre più sintetici e ingombranti con un ricorso smodato a texture digitali ormai anacronistiche e poco gradevoli.
Martha Washington ha costituito certamente una tappa importante nella produzione Dark Horse anni ’90, e nel suo avvio ha scritto la storia della Dark Age alla pari di altri grandi titoli, risultando un’opera viva, dall’immaginario vasto e potente e dalla forte carica sovversiva.
Con il passare del tempo la serie si è però evoluta in una direzione ben differente rispetto alle premesse, perdendosi sostanzialmente nel mare magnum della superficialità e poca fantasia e sprecando in buona parte il suo sterminato potenziale iniziale.
Un’opera che a buon diritto è collocata fra le minori nella produzione dei suoi autori, ma che, almeno nelle premesse, non è seconda a nessuno dei grandi titoli dell’epoca.
Abbiamo parlato di:
Martha Washington – L’integrale
Frank Miller, Dave Gibbons
Traduzione di Mauro Neri e Giuseppe Guidi
Magic Press edizioni,
600 pagine, brossurato, colori – 40,00 €
ISBN: 9788877598783