Quando leggiamo il nome di Mario Alberti, uno tra i più noti fumettisti italiani a livello internazionale, lo associamo di solito ai disegni di un’opera. Con Il Muro, primo volume di una trilogia fantascientifica pubblicata originariamente in Francia e portata in Italia da Edizioni Star Comics, l’artista triestino si cala nelle vesti di autore completo. Lo Spazio Bianco lo ha raggiunto per parlare di questo nuovo progetto, di fantascienze e di fumetto.
Ciao Mario e ben ritrovato su Lo Spazio Bianco.
Il Muro, il tuo lavoro più recente, ti vede dopo tanti anni nelle vesti di autore unico, per testi e disegni. Come nasce questo progetto, qual è stata e quanto è durata la sua gestazione e com’è nato il rapporto con il regista Antoine Charreyron, alla cui idea ti sei ispirato?
È stato Olivier Jalabert, editor di Glénat, a sottopormi il progetto e io mi sono proposto anche per la sceneggiatura. Ho scritto un trattamento per la trilogia partendo dal soggetto di Antoine, nato in origine per un film, modificandolo secondo la mia sensibilità ma mantenendo centrale l’aspetto che a entrambi premeva di più raccontare: cosa succede se costruisci un muro per tenere “altri” fuori?
Una volta approvato il trattamento, ho fatto gli studi per i personaggi e gli ambienti e ho iniziato a raccogliere documentazione fotografica di muri, posti che non ti immagini nemmeno e materiale vario assolutamente deprimente ma fondamentale per capire e far capire da cosa scappa chi finisce per sbattere contro un muro. O annegare nel Mediterraneo, che poi è la location del racconto.
Antoine ed io ci siamo trovati subito d’accordo su questo: volevamo sì fare un racconto d’avventura, ma anche parlare di argomenti che riguardano il nostro presente. Pensiamo entrambi sia importante non perdere di vista la responsabilità che abbiamo in quanto “conta-storie” e anche senza la pretesa di poter cambiare il mondo con le nostre, di non far finta che “tutto va bene” e invitare i nostri lettori a fare altrettanto.
Ci sveli come hai lavorato a questo progetto: hai scritto prima la sceneggiatura e poi sei passato ai disegni o hai lavorato in modo “ibrido”?
Ho scritto innanzitutto una sinossi completa e, prima di iniziare a lavorare sulle pagine, ho diviso il libro in “scene” per essere sicuro di rispettare il limite delle 48 pagine e per gestire bene il ritmo del racconto. In questa fase, ho scritto anche una bozza dei dialoghi.
Poi ho disegnato uno storyboard che ho sottoposto a Olivier e Antoine e su questo ho continuato a lavorare finché non ho ottenuto l’approvazione di entrambi.
È stato un lavoro più lungo di quanto avessi previsto all’inizio: scrivere dei dialoghi di cui sia contento è difficilissimo! Ma anche molto appagante, quando vedi (o almeno hai l’impressione) che le cose scorrono come vorresti e in modo naturale.
Una volta approvato lo storyboard ho iniziato a lavorare sulle pagine in digitale usando Clip Studio e ho realizzato una prima versione del libro in due colori. Una volta finito, ho trattato questa versione come fosse una “matita” e ho riportato le pagine su carta, lavorando a mezzatinta con gli acrilici liquidi. Dopo di che ho scansionato e colorato con Photoshop.
Ovviamente durante tutto il processo ho cambiato idea e modificato qua e là, gettando nello scompiglio i miei due sodali che non sanno mai davvero qual è la versione “definitiva-definitiva-definitiva” delle pagine. Fortunatamente sono entrambi molto pazienti e non hanno mai smesso di aiutarmi con suggerimenti e consigli. Insomma: un delirio, ma ha funzionato.
In generale, soprattutto per quanto concerne la parte grafica, ti sei mosso in modo diverso rispetto ai tuoi lavori come solo disegnatore?
È un approccio molto diverso perché non c’è stata una vera distinzione tra scrittura e disegno: anche se ho cercato di dare un ordine temporale distinto alle due cose, soprattutto per sottoporre i diversi passaggi a Antoine e Olivier, la realtà è che ho lavorato a tutto contemporaneamente. Modificando, riscrivendo o ridisegnando finché qualcosa non è scattato e ha fatto clic. Per esempio, ora sto lavorando al secondo libro della serie: avevo finito tutta la parte digitale ma qualcosa non mi tornava e così ho buttato e rifatto 12 pagine. Magari con più esperienza riuscirò a essere più sistematico ma per ora va così.
Sembra che l’estetica di buona parte di questo primo episodio de Il Muro si avvicini molto a quella di Mad Max – Fury Road tanto per l’ambientazione quanto per il design dei vari tipi di veicoli e l’abbigliamento dei personaggi. È stata un’ispirazione forte e insieme a quali altre? Ci vedo, per esempio, anche rimandi a Evangelion…
In realtà non mi sono ispirato a Mad Max o a altri film o fumetti. Ho cercato di documentarmi raccogliendo un’infinità di immagini dei posti da cui la gente scappa, fatti di povertà inimmaginabile e riciclo di tutto quello che si può usare. Moltissima parte dell’ambientazione del primo libro è ispirata a posti come Chittagong, in Bangladesh, dove recuperano tutto smontando navi dismesse e spiaggiate e vivendo in condizioni tremende.
Certo, molto del mio immaginario viene da film visti e fumetti letti ed è naturale che qualcosa riaffiori ma credo piuttosto che, in questo caso, siano state soprattutto le “fonti” e a volte il metodo a essere comuni con gli artisti che lavorano ai concept per il cinema e che seguo con grandissimo interesse.
Catapulti il lettore fin dalla prima pagina in un mondo post apocalittico senza dargli troppe spiegazioni, che offri progressivamente con lo scorrere delle pagine attraverso i dialoghi tra i personaggi, veicolo di informazioni tanto quanto le immagini. Una scelta che chiede impegno e attenzione a chi legge.
Richiede un sacco di impegno anche a chi scrive! Ho una rinnovata e crescente stima per gli amici sceneggiatori. Forse è vero, chiede uno sforzo in più di comprensione ma la “spiega” pronta è proprio bruttina, dai.
La fantascienza è un territorio da te ben conosciuto come autore e, anche ne Il Muro, si dimostra un genere capace di veicolare benissimo riflessioni e analisi su aspetti e problematiche della nostra contemporaneità, speculandone anche sui possibili sviluppi. Sei un lettore di narrativa di anticipazione? Quali sono gli autori a cui più hai guardato per questo tuo lavoro?
È questo il bello della fantascienza: poter affrontare qualsiasi tema in modo trasversale e, almeno apparentemente, più innocuo e amichevole. Ne ho letta a tonnellate, i miei autori di riferimento sono Dick, Leiber, Heinlein, tutta roba vecchiotta, temo (ma comunque pilastri imprescindibili del genere, n.d.r.). Recentemente ho letto e molto apprezzato il ciclo The Expanse di Corey e in esso ho trovato bellissima una cosa che ho cercato di replicare ne Il Muro: alla fine di ogni libro, le cose non sono quello che sembrano.
Ho apprezzato molto anche la serie tv Westworld e il modo in cui hanno usato i flashback: ne Il Muro non ho fatto proprio la stessa cosa, ma mi ha dato delle idee.
In realtà anche qui i riferimenti dichiarati sono pochi, penso che la mia testa lavori più come una spugna che strizzo e mi ributta fuori roba senza che io ne sia poi sempre consapevole. Di roba gliene dò in pasto parecchia, molte serie televisive ultimamente.
Sappiamo già che Il Muro si strutturerà in tre episodi: hai già pianificato l’intera storia e in che arco temporale sarà pubblicata la serie?
L’intera sinossi è scritta: c’è stata qualche modifica in corso d’opera ma gli elementi chiave ci sono già tutti. Il primo libro è uscito in Francia in gennaio, il secondo uscirà in settembre e il terzo nel 2021.
Italia, USA, Francia: quali sono le differenze e anche le somiglianze tra queste tre culture fumettistiche? Come cambia il tuo approccio rispetto all’editore con cui ti trovi a collaborare di volta in volta?
Il fumetto è uno ma ogni cultura ha le sue caratteristiche che lo identificano molto chiaramente per contenuti, narrazione, formato e impostazione della pagina. Penso che il mio modo di inquadrare le vignette non cambi molto e sia uno degli aspetti in cui mi identifico di più ma il formato o un layout predefinito impongono dei vincoli che vanno rispettati. Il peso maggiore però lo definisce la storia che devi raccontare: ognuna ha la sua voce, che va trovata e rispettata.
Nel 1993 sei entrato a far parte dello staff di Nathan Never in SBE e negli ultimi tre anni sei tornato a collaborare abbastanza assiduamente con la casa editrice fondata da Sergio Bonelli. Che cosa rappresenta per te questo ritorno alla “corte” dell’editore milanese?
La Bonelli per me è “casa”, in qualche modo. È il posto dove sono cresciuto, dove ho conosciuto persone come Antonio Serra che hanno influito di più e direttamente sul mio modo di raccontare fumetti, non c’è nessun altro editore con cui abbia lo stesso rapporto, anche affettivo.
Il ritorno in SBE parte con un desiderio di tornare a lavorare in bianco e nero per Nathan Never, su un mio vecchio soggetto, sceneggiato da Alberto Ostini: Il canto di Gaia. Stavo lavorando a quello quando la casa editrice ha pensato a me per il cartonato di Tex, Frontera, che ha immediatamente preso la precedenza: a Tex (e a Mauro Boselli) non si dice di no!
Ho avuto la fortuna di lavorare per due dei personaggi che ho più amato nella mia infanzia: l’Uomo Ragno e Tex. È stata una grandissima emozione in entrambi i casi ma per Tex mi tremavano davvero i polsi.
E così alla Bonelli hanno ricominciato a parlare di cartonati e penso di essere stato uno degli autori che hanno contribuito al rilancio di questo formato, ridefinendone le caratteristiche, grazie alle mie esperienze in Francia, fino al mio Senzanima, per me davvero un punto di svolta artistico e una specie di “ritorno” a casa “dentro il ritorno a casa”. Luca Enoch ed io ci conosciamo da anni e abbiamo già lavorato assieme sulla nostra Morgana per gli Humanoides Associée, siamo una macchina perfettamente rodata.
Negli ultimi anni, dunque, in SBE ti stai muovendo tra fantascienza, western e fantasy: generi diversi che impongono approcci diversi alla pagina da disegnare?
Vale il discorso di prima sulla storia: è quella a dettare le regole. Più sporca, meno sporca, più nero, meno nero, più veloce o più lento (più acqua, meno acqua…scusate, mi è venuto da pensare a Nanni Moretti), sono tutte cose che contribuiscono a caratterizzare i contenuti, il genere è solo un involucro.
Idealmente il disegno deve sparire e lasciare il posto solo al racconto. Il fumetto migliore è quello che mi fa dimenticare che è un fumetto, paradossalmente anche un disegno così bello da farmi interrompere la lettura per pensare “che meraviglia!”, fallisce nel suo compito principale. Da lettore confesso però che se i disegni mi piacciono leggo comunque la storia, se invece il disegno mi allontana non riesco ad andare oltre la prima pagina.
Come si è evoluta la tua tecnica di lavoro durante gli anni? Quanta preponderanza ha oggi il digitale sull’analogico e, in generale, quali sono i tuoi abituali strumenti di lavoro?
Prima erano i Fabriano F4 e i pennarelli Nestler (è stato un colpo durissimo quando sono usciti di produzione). Non sono mai riuscito a usare come avrei voluto pennello e pennino: ci vuole troppa pazienza e una mano inesorabile che non ho mai avuto. A un certo punto ho cominciato a odiare l’inchiostrazione: non aveva mai il “tiro” che speravo e il ripasso della matita ammazzava quel poco di buono e di energico che vedevo nel mio lavoro. Ho provato allora a fare le matite in verde e il ripasso con una matita grassa: già meglio, ma non ero ancora contento e le pagine si sporcavano solo a guardarle.
Avevo iniziato a fare i retini con Photoshop su Legs Weaver e Nathan Never e ho deciso di provare a fare anche l’inchiostrazione in digitale. Il digitale ha molti lati positivi ma, personalmente, soprattutto due (l’Europa e un’altra che non mi ricordo… ah no, scusa): “ctrl+Z” e continuare a lavorare sulla pagina ribaltata. L’undo ha questa caratteristica, che vedevo come strada possibile: puoi rifare la stessa riga quante volte vuoi finché non è “giusta”. In pratica lavori sempre sulla matita o meglio, la matita non la fai più ma vai direttamente di china e, se sbagli, rifai senza mai perdere l’energia del tratto che non è un ripasso. Insomma, bari ma funziona. Un po’ alla volta sono passato al “digitale integrale”: Clip Studio con un pennello mio per il disegno e Photoshop per il colore.
Con l’esperienza i crtl+Z diventano sempre di meno e appena ho avuto l’impressione che la pazienza ormai ce l’avevo e la mano inesorabile ancora no, ma almeno non era più traballante e perennemente incerta, sono tornato alla carta. Oggi faccio una prima versione delle pagine in digitale, stampo un seppia chiarissimo e rifaccio inchiostrazione a pennello, pennino e pennarelli e mezzetinte con gli acrilici. Andando sul tecnico: pennelli W&N 1 e 3, pennini Brause 511 e pennarelli W&N 0,1 e 0,3, bianco Kuretake, acrilici Liquitex (nero, blu di Prussia e terra d’ombra) e carta W6N Medium Surface A3.
Mi pare che tu abbia creato nel corso del tempo una sorta di marchio nell’impostazione strutturale delle tavole, che si ritrova in molte tue opere, siano esse per il mercato italiano, francese o altro.Da dove nasce la scelta strutturale che dai alle tue tavole ed esistono una serie di elementi compositivi che con l’esperienza hai trovato efficaci e che nel corso del tempo sono diventati “mattoncini da costruzione” all’interno di un tuo ideale archivio grafico?
L’idea di fondo è di fare qualcosa solo se c’è un motivo narrativo e usare in questo senso qualsiasi cosa mi venga in mente. Insomma: fai quello che vuoi, ma solo se ti aiuta a raccontare meglio. Gli aspetti che non si devono mai perdere di vista, nella costruzione della pagina sono “cosa, dove e chi” e il “percorso” di lettura che vuoi far fare al lettore. Gli strumenti a disposizione sono tantissimi ma si deve cercare di piegarli sempre a questo. Con il tempo penso di aver sviluppato i miei trucchi (o mattoncini) preferiti e tendo a usare sempre quelli, che sono poi i caratteri che identificano uno stile, penso. Facendo un breve elenco:
– le vignette al vivo sono il “taglio”, una dissolvenza, le uso quasi esclusivamente per un cambio di scena, all’inizio o alla fine. Sono spesso grandi perché introducono il “dove” (il dove è un personaggio come gli altri, va trattato allo stesso modo);
– le vignette scontornate possono avere la stessa funzione o concentrare tutta l’attenzione su un elemento solo, di solito sottolineano una battuta di dialogo importante;
– la forma e la dimensione relativa delle vignette contribuiscono enormemente alla velocità con cui il lettore attraversa la pagina e a dare il “ritmo” alla lettura: una vignetta lunga e stretta mette delle “pause” come in musica, una pausa breve, per la pausa lunga usi una vignetta muta;
– anche la composizione nel disegno racconta, soprattutto usando elementi opposti per costruire un percorso e dare profondità: sviluppo verticale contro sviluppo orizzontale, bianco e nero, quinte, etc;
– per il colore tendo a caratterizzare la scena con due tinte e a portare l’attenzione dove serve con un tono più saturo (tipo l’elmetto di Eva, ne Il Muro, per esempio). Comunque mi piacciono pochi colori, evito di fare confusione se non serve.
E via così, di seguito. È divertente cercarne di nuovi ma il mio sacchetto di mattoncini base è questo. Il tutto cercando di fare qualcosa che sia anche bello e armonioso, come un’onda. Almeno, questa è l’ambizione, abbastanza da averne per una vita intera di studio e divertimento. Che la cosa più importante è continuare a imparare e a divertirsi.
Grazie per il tuo tempo, Mario e per le tue belle e interessanti parole.
Intervista realizzata via mail nel mese di marzo 2020
Mario Alberti
Nato a Trieste il 7 maggio 1965 e laureato in Economia e commercio con una tesi sulla distribuzione nell’editoria a fumetti, esordisce con la storia Holly Connick per Fumo di China, nel 1992.
Seguono lavori per la rivista L’Intrepido e per la collana Nathan Never di Sergio Bonelli Editore.
Ha lavorato nel mercato USA per DC Comics e Marvel Comics e in Francia per Les Humaoides Associes, Soleil, Delcourt e Glénat. Oltre a lavori come illustratore e sceneggiatore di fumetti, ha realizzato copertine, illustrazioni e manifesti per libri, dischi e festival.
La sua opera più recente è Il Muro, il cui primo volume, Homo homini lupus, è stato pubblicato in Italia da Edizioni Star Comics. (Note bibliografiche tratte dal sito dell’autore, marioalberti.com)