Marco Galli: ritornare a creare dopo la malattia

Marco Galli: ritornare a creare dopo la malattia

Dopo una malattia improvvisa e fortemente debilitante Marco Galli ci parla del suo cammino per tornare al disegno, alla scrittura, al fumetto.

è nato a Montichiari (Brescia) il primo aprile 1971. Ha frequentato la scuola d'arte di Mantova e per qualche anno si è dedicato alla pittura su tela. Ha vissuto a Londra e a Los Angeles, prima di tornare in Italia.
Ha pubblicato Freak (S.I.E. Edizioni), Il Santopremier e Nero petrolio (); per ha pubblicato Oceania Boulevard (2013, tradotta in Francia e in Spagna) e Nella camera del cuore si nasconde un elefante (2015).
Attualmente si occupa della direzione artistica de La gatta cenerentola, film di animazione dello studio M.A.D Entertainment, che ha creato il cartoon L'arte della felicità. È stato ospite sul  Color Fest #16 assieme ad Akab e Ausonia.

Ciao Marco. L'ultima volta che ho avuto il piacere di intervistarti è stata nell'autunno del 2015, in occasione della tua partecipazione a , dopo l'uscita del tuo ultimo libro Nella camera del cuore si nasconde un elefante. Si è trattato a mio avviso di un lavoro maturo e importante nella tua carriera e, a risfogliarlo oggi, mi appare ancora più denso e ricco.
Da allora, tuttavia, sembra cambiato tutto. Vuoi iniziare a raccontarci cosa ti è successo?
Si chiama sindrome di Guillain-Barrè, una malattia rara, che colpisce indiscriminatamente bambini, adulti, anziani, uomini e donne, senza un apparente motivo se non un mucchio di probabilità, ma nessuna certa. Una malattia che ti crolla, letteralmente, addosso. Il 22 marzo, dopo una domenica di sole, bellissima e normalissima, con aperitivo serale, mi sono svegliato in un incubo: è partito tutto con un formicolio a mani e piedi e una stanchezza innaturale delle gambe. Dopo 2 giorni mi hanno intubato, in coma indotto. Al risveglio da quel sonno privo di tutto, ero attaccato a un respiratore. Questa malattia fa collassare i muscoli, e non muovevo niente, a parte gli occhi. Ricordo, probabilmente con lo sguardo di chi crea immagini, questi tubi, tra arterie e vene e cateteri vari, sondino nel naso per mangiare, tracheotomia, che mi uscivano da tutto il corpo e mi vedevo come il di Windsor-Smith (si riferisce a Wolverine: Arma X, n.d.r.), quando cammina nella neve, dopo essere scappato dal laboratorio degli aguzzini.

Puoi spiegarci quali conseguenze sulla tua vita ha avuto il tuo problema di salute? Che tipo di lavoro riabilitativo stai facendo e come stai cercando di recuperare la tua familiarità con il disegno e la scrittura? Che previsioni plausibili ti hanno dato?
Le conseguenze sono devastanti. Da un giorno con l'altro ti trovi a essere da “normale” a completamente disabile e tutti ti dicono che si recupera, ed è vero, ma non sempre al 100% e la strada è lunghissima, faticosa e dolorosa. Un tempo preciso di recupero non c'è, dipende molto da persona a persona, si va da un anno, fino anche a 5 o 6 e nei casi più gravi non ci si riprende mai. Ma, dopo tutta questa tragicità, voglio dire che io sto reagendo bene e che voglio riappropriarmi del mio corpo: non mollo, fortuna puttana! Devo fare un sacco di riabilitazione, è molto difficile. Il dolore fisico è diventato per me, ormai, come un compagno di bevute, se non c'è mi preoccupo.
Riesco, molto lentamente, a riprendere in mano la matita, anche se sono limitato nei movimenti e la presa è debole: come tutti i disegnatori sanno, il disegno è nella testa, e là è tutto ok; il problema viene perché la mano vuole farsi i fatti suoi. Per lo scrivere è un po' lo stesso: scrivo al computer con i due indici, tremolanti e bambini deboli, che spesso non riescono a pigiare il tasto, costringendomi a tornare indietro. Però ho scritto parecchio in questi mesi, idee per fumetti futuri e altro.

Come stai affrontando i momenti di maggiore durezza e fatica?
Da stoico. Non lo dico da smargiasso, da eroe improvvisato; ma è l'unica strada che puoi percorrere: non ci sono che due alternative, o ti lasci andare o combatti. Quasi tutti quelli che ho conosciuto con problemi come il mio o similari, combattono. Ha a che fare con l'istinto di sopravvivenza, quello che diceva Schopenhauer sulla volontà, quella forza irrazionale e ancestrale che ci fa andare avanti, nonostante tutto.
Poi questa malattia è auto-immune: è il tuo organismo che si auto attacca, una specie di cannibalismo di se stessi. Sono i miei anticorpi che, impazziti, hanno attaccato il sistema nervoso. Le colpe non sono esterne, devo sconfiggere me stesso; questo è interessante e anche un po' terrorizzante, temi sempre che te stesso possa riattaccarti.

Ti seguo sui social media, e vedo che stai facendo un interessante doppio lavoro: ripescare dai tuoi archivi idee e lavori precedenti alla malattia; mostrare la tua nuova ricerca che hai ironicamente denominato “apehands. La curiosità per questa intervista è nata un po' anche per questo. Come stai osservando i tuoi lavori precedenti da questa nuova prospettiva?
Con grande invidia: sapevo disegnare proprio bene… A parte gli scherzi, quando mi è successa questa cosa, stavo disegnando molto bene, rispetto alla mia ricerca sul segno e a quello che voglio dal disegno. Ero molto felice di questo: quando un disegnatore arriva a disegnare in scioltezza, senza paure di confrontarsi con l'estetica, ha raggiunto un ottimo punto (di partenza?) per me. Ora, come dicevo prima, tutta questa parte è scritta nel mio cervello, sta lì, non è andata persa, manca solo l'agilità della mano. A dirla tutta, gli APEHANDS, hanno spinto un po' più in là questo concetto: il dover usare scorciatoie dovute all'handicap, ti fa battere strade nuove e capire quante possibilità ci sono nel disegnare una mano, per esempio, o un volto. Sono sempre stato convinto che il “bel disegno” non è l'anatomia perfetta o lo stare tre giorni su una singola vignetta a disegnare particolari realistici: quelli sono accessori, come in una automobile, cose superflue, per vendere una “macchina” anacronistica e iper-sfruttata, ormai. In punta di metafora, per me il disegno è una bicicletta. Il disegno deve essere espressivo, non descrittivo; deve portarti dritto dove vuoi andare, senza troppi fronzoli e serve pedalare, non è mai comodo.

Uno dei punti di forza dei tuoi lavori precedenti è senza dubbio quella artistica. Si vede una grande solidità nei fondamentali, una precisa visione artistico-grafica che si è evoluta nel corso degli anni. Come stai cercando di recuperare questi aspetti in questo tuo nuovo presente espressivo?
Credo di avere risposto sopra, ma per chiarezza ti dico che sono un auto-didatta, certo ho fatto la scuola d'arte e certo ho fatto un anno di scuola di fumetto: l'anno dove ho disegnato peggio nella mia vita, costretto da gabbie e gabbiette inutili. Il disegno, come tutto, si impara facendolo, nessuno te lo può insegnare; o meglio, che poi c'è chi si offende, il disegno che interessa a me non può essere insegnato, è un percorso di vita, che inizia da molto piccoli e finisce con la morte. Se poi parliamo di tecnica, intesa come codificazione del mezzo fumetto, credo che un paio di settimane bastino e avanzino. Non voglio dire che sia semplice, il contrario: è tutto lavoro tuo, personale, che non smette mai, nemmeno al bar, quando osservi come si muovono le labbra di chi ti sta davanti mentre dice quella data parola, o la sua mano, le dita, quando alzano il bicchiere. Saper disegnare è saper osservare e lavorare duro per rendere al meglio, secondo la propria grafica, ciò che si è osservato; condito dalla fantasia, che è elemento fondamentale (e questa proprio non la si può insegnare: o c'è o non c'è).

C'è qualcosa nei lavori precedenti che, rivisti oggi, ti appare sotto una luce diversa? Qualcosa che riguarda le scelte visive e di approccio al disegno e alla tavola che hai fatto che ti sta portando nuove idee?
Sì, qualcosa sì: mi facevo troppe “menate”! Più che altro quel deprecabile istinto che ti spinge a voler farti vedere “bravo a disegnare”. Non in tutto, certo, ma a volte scorgo nei miei disegni (e in quelli di molti altri) quel senso di: “Hey, guardate quanto sono bravo a fare un cavallo!…“.
A volte questo atteggiamento “tecnico” ti allontana da quella “espressività” che per me è importantissima.

Stai lavorando a qualche nuova storia in questo periodo? O ti consideri ancora in una fase di convalescenza?
Purtroppo sono in una fase ancora acuta di convalescenza. Ma, a livello di idee e scrittura, ho prodotto molto e ci sto ancora lavorando.

Le difficoltà manuali che si ripercuotono sul disegno immagino ti costringano a scelte stilistiche precise, ammesso che tu stia già lavorando a qualcosa di specifico. Da fuori, guardando le tue sperimentazioni APEHANDS,  appare la necessità di una “linea brutta”, di “una storia disegnata male” che possa tuttavia trovare la propria identità e forza espressiva. A parte Gipi, che ho implicitamente citato, soprattutto nella scena indipendente degli Stati Uniti negli ultimi venti anni si sono affermati autori che hanno fatto di questo stile un vero e proprio manifesto. Penso a , , e altri. Pensi che il tuo lavoro possa in qualche modo muoversi in queste direzioni?
Confesso di non conoscere neanche un nome di quelli che hai citato sopra, a parte Gipi, naturalmente. Sono un pessimo lettore di fumetti. Come dici all'inizio, sono costretto a disegnare per come disegno ora, nelle APEHANDS. Con questo “nuovo Modo” di disegnare (che è anche fisico, nel senso che le dita, non stanno dove e come dovrebbero stare normalmente), sto scoprendo nuove possibilità. Però, per me, il controllo è fondamentale: il disegnare “male” deve essere una scelta di stile (come per Gipi), non una costrizione. Finché non riuscirò a ricontrollare la mia mano, o meglio a fargli eseguire esattamene quello che vorrebbe il cervello, brutto o bello che sia, credo non affronterò un nuovo fumetto. Disegni singoli sì, illustrazioni o esercizi che dir si voglia. Anche perché la mano si stanca subito per ora, sarebbe oggettivamente impossibile solo disegnare per più di una vignetta. Aspetterò, ho aspettato fino a 36 anni per pubblicare il mio primo libro. Non sembra, ma sono un perfezionista.

Oppure stai valutando la possibilità di chiedere ad altre persone di illustrare le tue storie?
Sì, è un opzione che ho valutato, anche se difficile da attuare; trovare un disegnatore che sia in sintonia umana e grafica con le proprie idee di storia è molto difficile, soprattutto per un autore, come sono io, che è abituato a non dover fare “traduzione” tra la parte scritta e la parte grafica. Ho pensato a qualche amico che rispetto e conosco, anche a livello umano oltre che artistico, ma vedremo, è ancora presto.

Come è cambiato il tuo rapporto con la scrittura, che è poi sempre subordinato al nostro rapporto con la vita più in generale?
Questo è interessante, perché è cambiato molto. Un po' per maturità e un po' per contingenza. Prima il mio approccio al libro era molto diretto: partivo con disegni e testi, spesso senza nemmeno storyboard, fino a libro finito. Poi riscrivevo, sui testi abbozzati, anche fino a cinque volte, prima di arrivare al lavoro finale. Spesso il senso della storia cambiava parecchio dalla prima stesura all'ultima, sembra impossibile, uno dice: i disegni sono quelli, la successione delle vignette tracciata, i balloons hanno quella misura e quel numero… E invece, la forza delle parole è magica anche nel fumetto, cambiate poche parole e cambia tutto il senso. Se potessi suggerire un esercizio ai giovani fumettisti, sarebbe quello di prendere un fumetto già esistente, leggerlo e riscriverlo cercando di dare un senso diverso alla storia. Si impara molto. La scrittura, quando c'è in un fumetto, è importante e da curare come tutto il resto; spesso si vedono grandi magie cromatiche e dei poveri balloons che navigano anemici dentro le pagine.
Non mi ritengo uno scrittore “di razza”, scrivere per il fumetto è diverso dallo scrivere per un libro di varia, questo lo sanno anche i muri. Anche se prima o poi, un tentativo solo scritto lo farò. Certo è che per scrivere bene nel fumetto, non ci si può limitare a leggere i fumetti. Lo scrivere, come si diceva per il disegno, lo si impara immergendosi nel suo sangue pulsante. Quando si sa scrivere, è più facile adattare la scrittura al fumetto: cosa difficilissima, scrivere, come disegnare, difficile da insegnare e da imparare, anche questa, per me, un'arte che avvolge ogni momento e che ci rende allievi di noi stessi, fino in ultimo (per questo bisognerebbe cercare di scrivere sempre bene, con attenzione, rileggendo e correggendo, anche quando si è sui social, perché si impara scrivendo e se scrivo male, anche solo per fretta, per “stare sul pezzo”… Si disimpara ferocemente).

Dopo la scelta di Dj Fabo di andare a morire in Svizzera hai scritto un post su Facebook molto sentito sull'argomento. Credi sia cambiato il tuo atteggiamento nei confronti della vita e della morte dopo aver affrontato questa malattia? Hai avuto la percezione che la malattia sia un tema ancora tabù nella società, nella vita di tutti i giorni?
Ho sempre pensato che ognuno debba decidere della propria morte. Io credo nella libertà in vita, che è materia più complessa della morte, figurati se posso credere in stupidi moralismi appiccicati con colla scadente a misteriose vie divine e imperscrutabili. Certo ci può essere qualcuno che potrebbe approfittarne, cose da giallo alla sig.ra Fletcher; ma basta fare una legge per bene e nel caso, avremmo pure anche noi investigatori validi per smascherare i malfattori. Uso un tono sarcastico, perché a me pare una barzelletta che nel 2017 ci sia ancora da discutere sulle scelte personali riguardo al destino del proprio corpo.
Il mio atteggiamento è cambiato nei confronti di tutto, dopo questa malattia, che sto ancora affrontando. Tutte quelle cose che sembravano problemi vanno a finire su un piano più effimero, tutto si allontana e diventa sfocato: hai solo in testa di venirne fuori e di poter azzerare tutto, anche se sai benissimo che non si torna mai indietro, come prima. Una persona molto credente mi ha detto che sto rinascendo, è una prospettiva affascinante, visto che quando si nasce la prima volta non se ne ha coscienza.
La malattia è un tabù, ma è normale che lo sia. È una cosa che fa paura e giustamente, più della morte, di cui non si può avere riscontro diretto, con la malattia sì. In ospedale ho visto delle cose terribili, che non possono non segnarti e farti ripensare tutto quello che hai intorno.
La cosa che mi fa veramente incazzare è accorgermi da disabile come il mondo sia pensato solo per gli abili, le barriere architettoniche sono ovunque e non parlo solo di marciapiedi: rubinetti, scalini e scalinetti ovunque, perfino strappare la carta per asciugarsi le mani, diventa difficile. Tutti quei geni di arredatori e architetti, la legge! Ma non ha più senso fare le cose per i disabili? Dico normalmente, quando si arreda, quando si costruisce, che gli abili ci arrivano comunque.

Il tuo rapporto con l'arte, in generale, con la creatività, che ruolo sta avendo nell'affrontare le difficoltà della malattia? Sono in qualche modo un aiuto? O le stai vivendo più per quello che “hai perso”, come un punto al quale aspirare velocemente a tornare? Un gap da colmare il più in fretta possibile?
Tutto un insieme di queste cose. La creatività è soprattutto curiosità, verso tutto; certamente in uno stato “sospeso” come il mio, se si è curiosi, ci si annoia meno, nel senso che se ti piace leggere, o guardare, o ascoltare, o scrivere, qualcosa da fare ce l'hai sempre. Però questa situazione mi rende monco, non potendo disegnare, che per me è respirare, o camminare o correre, dietro alle donne con i muscoli che ti sorreggono, la vita scorre storpiata. La psicologa che avevo da supporto in ospedale, quando le raccontavo del mio terrore di non tornare normale, mi chiedeva cosa volesse dire “essere normali” e io le dicevo, come prima: non un disabile! Lei replicava seria, chiedendomi se prima ero abile a fare tutto, io le rispondevo: certo che no. Non so sciare, per esempio. Lei ribadiva che tutti siamo disabili, chi più, chi meno e che bisogna solo cercare di vivere le proprie abilità. Un po' il concetto del bicchiere mezzo pieno. L'arte aiuta sempre, non per niente dicono sia terapeutica. Ormai ho capito che non sto lottando per tornare come prima, ma per riuscire a fare quello che per me coincide con la parola vita. Chi si è trovato in situazioni gravi come la mia ed è riuscito a scamparla, sa benissimo che la continuità si rompe, c'è un prima, che è una vita e c'è un dopo, che è un altra vita, una seconda occasione forse. Magari sono stato più fortunato di tutti quelli a cui è toccata in sorte una sola vita lineare… Un po' lo penso, un po'  mi ci faccio coraggio.
Concludo questa lunga e terapeutica intervista, è la prima volta che parlo ampiamente della mia malattia, dicendoti che in estate uscirà un mio nuovo libro, sempre per Coconino, dal titolo Le Chat Noir. In verità è un fumetto del 2012, un hardboiled in bianco e nero, ispirato da Alphaville di Jean-Luc Godard e dalla giungla e l'asfalto nero dei noir americani degli anni '40 del secolo scorso. È il primo di due fumetti distinti, che risalgono alla mia “vecchia vita”, e che conto di pubblicare prima di fare il prossimo libro in questa nuova vita. Devo chiudere il cerchio.

Grazie per la chiacchierata.

Fotografie dell'autore realizzate da Fabio Rossini per il progetto P.O.C. (portraitsofcartoonists.top)

Intervista condotta via email tra il 6 e il 14 marzo 2017

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