Questo articolo vuole essere il primo di una serie nella quale proporremo un’esplorazione con sguardo distante dell’universo della narrativa supereroica.
Lo faremo ragionando in termini di quali siano le domande con cui le storie si confrontano, considerando quindi le trame stesse esplorazioni di quell’universo: proporremo quindi un modello per individuare alcune dinamiche del suo sviluppo.
In questo primo articolo, resteremo a un livello pre-analitico, per dimostrare che a nutrire le riflessioni che proporremo, anche le più astratte, è il tentativo di seguire un percorso segnato da interrogativi che scaturiscono dalla passione e dalla nostra sensibilità di lettori.
Il caso del Miracleman di Alan Moore
Lo spunto per la stesura di queste riflessioni nasce dalla sensazione di assoluta contemporaneità del Miracleman di Alan Moore, a oltre 30 anni dalla pubblicazione (1982).
Questa sensazione di contemporaneità causa, assieme a una possibile sorpresa, una sorta di disagio, poiché costringe a chiedersi perché Miracleman sembri così contemporaneo, mentre le vicende di Superman o Batman a cavallo della II Guerra Mondiale o le prime storie dei Fantastici Quattro, dell’Uomo Ragno, degli X-Men risultino ben distanti sia fra loro, sia dalle storie supereroistiche correnti.
Per capire se questa sensazione afferri qualcosa di reale, o se sia una sorta di illusione, dobbiamo dotarci di opportuni strumenti, che cercheremo di costruire in forma di modelli.
Seguendo l’approccio promesso, cerchiamo innanzitutto le domande con le quali si confronta Miracleman: sono sostanzialmente due, che possiamo esprimere, grosso modo, come segue:
- “Perché i supereroi non risolvono i Grandi Problemi del mondo?“
- “Come è evoluta la visione della figura del supereroe?“.
Questi quesiti si possono anche considerare come manifestazione/formulazione della riflessione sul senso di raccontare simili storie da due punti di vista diversi: l’uno focalizzato sulla costruzione delle storie; l’altro sulla riflessione sulle storie stesse. Tuttavia, la forma della domanda concreta è importante, poiché indica la direzione in cui viene cercata la risposta. Nel caso specifico, la prima domanda affronta una questione fino allora sostanzialmente inevasa; la seconda porta a indagare il fatto che la narrativa supereroica segue un ciclo di vita e quindi la sua stessa natura cambia nel tempo.
Iniziamo allora il nostro viaggio, andando a esaminare le domande affrontate da Miracleman.
“Perché i supereroi non risolvono i Grandi Problemi del mondo?”
La formulazione di questa domanda segna un cambio di punto di vista fondamentale nell’approccio alla costruzione delle storie. In precedenza, era di fatto una questione sollevata in sede di analisi critica (si pensi all’Umberto Eco del Saggio su Superman, con tutti i suoi limiti – vedi l’articolo di Daniele Barbieri), ma del tutto elusa dai racconti.
I supereroi combattevano superavversari, e questi scontri funzionavano da passerelle spettacolari su cui esibire quei superpoteri che definivano l’eroe. In questo senso, supereroi e supervillains erano necessari gli uni agli altri, secondo una dinamica che, per esempio, Peter Milligan metterà in evidenza nel suo Enigma (Peter Milligan, Duncan Fegredo: Enigma, Vertigo, 2003), dove un essere dotato del potere di modificare la realtà si immedesima nel protagonista di una storia di supereroi del 1968 e crea dei superantagonisti perché crede che siano necessari per definire la sua stessa identità.
Come per probabilmente qualsiasi affermazione sul fumetto supereroico, anche per l’elusione dei Grandi Problemi abbiamo eccezioni che confermano la regola: pensiamo alla storia “alternativa” di Superman The amazing story of Superman Red and Superman Blue (Leo Dorfman, Curt Swan, Superman #162, DC Comics, 1963). I due Superman insieme ricostruiscono Kripton e alla fine uno torna a viverci, mentre l’altro affida la Terra a un esercito di robot che la proteggono, almeno dai disastri naturali, e si ritira a vita privata.
L’idea è che se Superman si applicasse, risolverebbe ogni problema ed eliminerebbe il bisogno stesso di supereroi.
Ad autori ed editor sono quindi ben presenti i problemi tecnici di gestire storie con supereroi troppo potenti, al punto che Julius Schwartz, quando prese la gestione di Superman nel 1972, si impegnò proprio a ridurne i poteri, che nel frattempo avevano assunto dimensioni cosmiche. Non a caso, nel 1972 Must there be a Superman? (Elliot Muggin, Superman #247, DC Comics, 1972) poneva il dilemma se la presenza di Superman, con i suoi sconfinati poteri, non costituisse di fatto un ostacolo al progresso dell’umanità.
Potremmo sostenere che a distrarre i supereroi dai Grandi Problemi fosse la routine. La loro vita quotidiana ne era capillarmente occupata: passavano di caso in caso, di avventura in avventura, di emergenza in emergenza, così che, pochi buoni contro eserciti di supermalvagi o superminacce, non rimaneva loro tempo per costruire una visione strategica del proprio ruolo. Figurarsi affrontare i Grandi Problemi!
Questa idea è spettacolarmente messa sulla pagina da Kurt Busiek nella storia di esordio della serie Astrocity, In volo (Image Comics, 1995), che segue uno dei super esseri che popolano la storia (Samaritan, modellato su Superman) in una sua tipica giornata di super lavoro: passando da un’impresa all’altra, Samaritan conta il tempo di “volo spensierato” che riesce a concedersi: alla fine risultano 57 secondi di libertà su 16 ore di veglia.
In generale, i supereroi si muovevano in un universo popolato da supercreature, ricco di meraviglie e mostruosità, ed erano sostanzialmente reattivi, sorta di pittoreschi sistemi di difesa della comunità affetti da quella che Daniele Barbieri chiama ironicamente “sindrome della casalinga”.
In Miracleman, i superesseri non sono umani; il protagonista prima e la sua “famiglia” poi, hanno poteri pressoché illimitati e sono fuori da ogni possibilità di controllo da parte degli esseri umani. I loro corpi umani sono effettivamente dei canali per richiamare entità da un’altra dimensione: il risultato è che la “famiglia Miracle” assume il controllo totale e capillare dell’umanità e guida il suo futuro.
Il cambiamento fondamentale rispetto al caso tipico (non siamo certo al primo esempio di superessere invocato da un’altra dimensione: si pensi banalmente a Thor) sta nel fatto che in precedenza caratteri e profili morali dei personaggi venivano modellati a cavallo di una linea etica “a misura di essere umano”, riconosciuta e accettata come legittima dagli stessi supereroi.
Questo riconoscimento, che poteva restare implicito, appunto perché non era tema da mettere in discussione, faceva sì che i superesseri si muovessero in un contesto riconducibile ai valori “umani”. Spiragli di possibili dissonanze venivano piuttosto da personaggi quali L’Osservatore, Galactus e altre figure, che apparivano non tanto seguire una morale altra quanto muoversi entro uno scenario più grande di quello accessibile all’umanità, che in esso ricopriva un posto tutt’altro che centrale. In un certo senso, erano emissari del grande universo, nel quale c’era un posto anche per l’essere umano. Se una tensione fra la scala di azione locale e quella universale e dei problemi deontologici correlati c’era, era semmai quella messa in scena nell’inizio della avventure del duo Green Lantern/Green Arrow, raccontate da Dennis O’Neal e Neal Adams, quando un anziano di colore chiede a Lanterna Verde perché non abbia mai fatto alcunché per aiutare “quelli dalla pelle nera” (No Evil Shall Escape My Sight, Green Lantern vol. 2, #76, 1970). ”Answer me that, Mr. Green Lantern”, chiede l’uomo; ”I can’t”, risponde la Lanterna, ammettendo l’impasse di fronte al problema.
Anni più tardi, confrontandosi con questo tema, Warren Ellis in Authority proporrà una visione se non cinica certo molto vicina all’esperienza comune: i superesseri mettono paternamente sotto tutela l’umanità, secondo una sorta di amplificazione dell’usuale scambio sicurezza per libertà alla base delle società.
In Miracleman, siamo esemplarmente in un punto mediano: nell’Epilogo (Miracleman #16), sconfitti gli avversari, la famiglia Miracle prima risolve effettivamente i Grandi Problemi, nonostante l’opposizione di una parte dell’umanità, a indicazione di quanto quei Grandi Problemi fossero manifestazione della struttura profonda dell’organizzazione sociale umana. Quindi offre agli esseri umani la possibilità di condividere (sebbene non sia chiaro in che grado) lo status di divinità: un programma eugenetico per i nuovi nati e un processo di trasformazione per gli altri. È il progetto che Miracleman chiama apoteosi della razza umana, nel senso letterale di elevazione alla divinità, che però non tutta l’umanità accetta.
Durante questa complessa trasformazione solo Miracleman sembra avere dubbi morali, che nascono dalla sensazione di violare la libertà degli individui, dal rifiuto di alcuni di accettare questi doni. Il suo sguardo problematico deriva probabilmente dall’aver vissuto per lunghi anni senza poteri e quindi condiviso la condizione umana, a differenza di Avril/Miraclewoman, della figlia Winter e dello stesso Bates/Miraclekid (in questo senso diremmo che Miracleman è quasi una ”figura cristologica”, in opposizione alle altre, che richiamano più gli dèi classici – come perlatro segnale il titolo dell’arco narrativo a cui appartiene l’epilogo: Olimpo).
E forse in lui, per quell’apoteosi che le apre le porte dell’universo, risuona l’eco di quel “sarete come dèi“, con cui il serpente tentò l’umanità in Eden.
“Come è evoluta la visione della figura del supereroe?”
Questa domanda era sicuramente ben presente ad autori, editor e produttori anche prima del 1982, sia pure come guida per costruire storie e personaggi che soddisfacessero o stimolassero il gusto dei lettori o un qualche spirito dei tempi. Il mondo cambia, cambiano i supereroi, cambiano le aspettative dei lettori, cambiano quindi i termini del patto opera-lettore. In Miracleman, quello che è un elemento metanarrativo (il patto opera-lettore) diventa elemento narrativo, reso quindi esplicito e offerto alla riflessione. Vediamo in che senso.
Il personaggio di Miracleman ha una gloriosa storia editoriale, che descrive una prima completa parabola fra gli anni 1950 e i primi 1960. Quando l’editor di Warrior, Dez Skinn, ne prova il rilancio nel 1982 (definendolo un esperimento a basso rischio, poiché coinvolge 6 pagine di una rivista di 52) è ragionevole pensare che i lettori destinatari non fossero quelli di circa un quarto di secolo prima.
Eppure Moore, invece di intraprendere un puro e semplice reboot che ignori il passato, decide di collegare le due apparizioni del personaggio. La modalità del collegamento ha una sottile ironia: le avventure degli anni 1950 sono presentate come sogni indotti nel nuovo Miracleman, all’interno di un programma di ricerca che sfugge di mano ai suoi operatori. Il Professor Gargunza, il nemico giurato del primo Miracleman, diventa il responsabile del progetto di ricerca che crea il Miracleman moderno.
L’ironia della scelta sta nel fatto che mettere in scena la differenza di livello di realtà fra le storie dei due cicli significa rendere omaggio a quel modo di fare fumetto, sottolineando al tempo stesso la differenza di maturità narrativa e di obiettivi.
Le storie di Mike Anglo hanno infatti un’ingenuità di intreccio tale da non poter essere considerate reali nel contesto creato da Moore. Mentre le storie del primo Miracleman rifuggivano logica, leggi fisiche e problematicità morale, nel mondo del nuovo Miracleman vigono regole molto simili a quelle del mondo del lettore, e le vicende sono addirittura costruite in modo tale da evidenziare l’ambiguità morale di ciò che nel precedente ciclo era banale luogo comune ed elemento narrativo.
A partire dal concetto stesso di essere dotato di superpoteri in un mondo di esseri umani ordinari: se nella sua prima incarnazione, intrecci e superpoteri erano il pretesto di avventure e situazioni sensazionali, ora sono agganci per riflettere sulla nozione stessa di Potere (la prima domanda di cui ci siamo occupati sopra!) e, alla fine, proprio quelle riflessioni sono il lascito duraturo della storia raccontata da Moore. Se prima i superpoteri servivano a risolvere il racconto, ora sono fonte di interrogativi. In fondo, il nocciolo del cambio di visione sta proprio in questo spostamento di ruolo: da parte della soluzione a parte del problema.
Come accennato, il confronto con le due domande affrontate dal Miracleman di Moore mette in evidenza una cesura con la precedente narrativa supereroica e costituirà come minimo uno degli assi portanti di quella successiva. Nei suoi tentativi di risposta (a tal proposito, non andrebbe dimenticata la sua coeva run di Capitan Bretagna), Moore utilizza e introduce temi, atmosfere, prospettive e linguaggio che da allora nutrono le vicende supereroiche, al punto da esserne diventate, nel tempo, delle sorta di linee guida di costruzione e scrittura. Con questo non intendiamo sostenere che il Miracleman di Moore costituisca la fondazione della futura letteratura supereroica, ma che in esso ne troviamo delineate alcune caratteristiche con una chiarezza tale da renderla un’opera ideale alla loro analisi.
Quella segnata da Miracleman non è l’unica cesura rintracciabile nella storia della narrativa supereroica, perciò l’evidenza sensibile di simili discontinuità ha indotto molti studiosi dell’evoluzione di tale letteratura a utilizzare modelli di cicli di vita propri dei generi letterari.
Nei prossimi articoli di questa serie, affronteremo questa famiglia di modelli.