
Il “Topo” di maggio 2024
Bentornati su Lo Spazio Disney!
Il mese di maggio è stato caratterizzato – oltre che da un meteo instabile e piuttosto piovoso, su cui però non mi dilungo altrimenti sembra che in queste intro parli solo del tempo 😛 – dal Salone del Libro di Torino, il principale evento letterario dell’anno in Italia, nel quale ormai il fumetto gioca un ruolo sempre più importante. Non ci sono mai stato e ahimè anche quest’anno ho dovuto saltarlo, ma ho tutta l’intenzione di non perdermi l’edizione 2025!
Anyway, anche Panini-Disney cala molti dei suoi assi per l’occasione, presentando numerose novità al SalTo e pubblicando sui Topolino del periodo diverse storie di rilievo e ambiziose. Un fattore di cui possono quindi beneficiare i lettori e che vado ad analizzare senza por altro tempo in mezzo.
Maggio 2024: le storie da Topolino
Topolino e la Spectralia Antartica, di Casty (nn. 3570-3571-3572), è una storia rilevante sotto diversi aspetti, sicura candidata al podio delle migliori del 2024.
Innanzitutto segna il grande ritorno di Casty alla scrittura: beninteso, già l’anno scorso in realtà avevamo avuto il Castellan nelle vesti di autore completo con la nuova storia di Doppioscherzo, ma per quanto valida e conturbante non aveva l’afflato né le ambizioni di essere un kolossal castyano, tipologia di avventure che tra la fine degli anni Zero e la prima metà degli anni Dieci hanno spesso trovato casa sul settimanale, facendo vivere a Topolino e ai suoi amici (che fossero Pippo, Atomino, Gancetto o Eta Beta) imprese di alto livello, ricche di pathos, azione e ritmo, nelle quali la posta in gioco era sempre altissima.
Da svariati anni questo tipo di storie erano scomparse dai radar, paradossalmente in coincidenza con l’iniezione di storie a puntate avviata con la gestione di Alex Bertani, che nascevano però evidentemente da presupposti diversi.
Casty è rimasto nello staff di Topolino, ma quasi esclusivamente come disegnatore, al servizio in particolare del ciclo di rilancio di Macchia Nera orchestrato da Marco Nucci, nel quale – soprattutto grazie al sodalizio con l’inchiostratrice Michele Frare – ha potuto fare diversi passi in avanti nella sua tecnica.
Il ritorno dell’autore alla scrittura di una storia kolossal è stato quindi salutato come un vero e proprio evento dagli appassionati, a maggior ragione perché per l’occasione ha potuto riprendere le fila della saga di Atlantide, cominciata una ventina d’anni fa con Topolino e il Colosso di Rodi, proseguita con Topolino e le miniere di fantametallo e poi con Topolino e il raggio di Atlantide in un percorso editoriale a dir poco accidentato, che ha fatto passare svariati anni tra un episodio e l’altro dell’appassionante ricerca intrapresa da Topolino, Pippo e Eurasia Tost, avventurosa e sbarazzina archeologa creata dallo stesso Casty nei roboanti inizi del Nuovo Millennio.
Faccio subito una premessa: il ciclo atlantideo non è mai stato tra i miei preferiti del Castellan… chissà, forse proprio a causa di una pubblicazione così frastagliata.
Ma questa Spectralia Antartica mi ha convinto al 110%, diventando immediatamente la storia migliore di tutta l’operazione per caratura, gusto del racconto, pulizia nell’esposizione e capacità di permeare ogni tavola di atmosfere efficaci e capaci di entrare nelle ossa.
Si nota immediatamente la differenza con la maggior parte delle storie a puntate che hanno popolato il settimanale negli ultimi anni: mentre in quei casi la dilatazione delle pagine era funzionale a un approfondimento intimistico dei personaggi oppure alla possibilità di prendersi più tempo per rallentare il ritmo narrativo allo scopo di concentrarsi su silenzi e momenti di decompressione che solitamente nel fumetto Disney hanno sempre avuto poche occasioni di essere espressi con una certa intensità, Casty opta per un tipo di racconto sincopato, che sazia il lettore.
Nel corso della sceneggiatura succedono un milione di cose, i protagonisti non sono mai fermi ma sempre in movimento (in fuga da qualcuno o tesi verso un obiettivo) e il ritmo della vicenda è altissimo, quasi sfidante, portando il lettore sulle montagne russe.
Non è bulimia, comunque: il fumettista è ancora abilissimo nel saper dosare tutti gli ingredienti a sua disposizione, in particolare puntellando il racconto con sani inserti umoristici che non stonano mai, alternando così momenti di pathos ad altri più leggeri ma perfettamente integrati nel contesto, come da miglior lezione disneyana.
Il leit-motiv della missione del trio di protagonisti ostacolato dall’associazione delle Lepri Viola conosce qui alcune piccole variazioni, quanto basta per essere meno ripetitivo, e gli affascinanti scenari antartici incorniciano in maniera sublime un’avventura con la A maiuscola, che purtroppo ultimamente latita dal pocket, almeno per quanto riguarda il buon Mickey.
Mistero, fascinazione, trovate stuzzicanti, spunti scientifici mutuati dalla realtà, comprimari e avversari ben caratterizzati, scrittura ispiratissima e personaggi fortissimi e scritti egregiamente.
Tutto questo è La Spectralia Antartica, quasi una mosca bianca nel “passo” del Topolino odierno, all’interno del quale però non risulta affatto un pesce fuor d’acqua, proprio per la sua genuina disneyanità.
Sotto il profilo estetico, Casty sembra aver fatto tesoro delle sperimentazioni effettuate “sfruttando” i testi di Nucci e contaminandole con il suo tratto più semplice e tradizionale ma senza appiattirsi tragicamente come accaduto lo scorso gennaio con Topolino fuori dai radar di Tito Faraci: il risultato in questo caso è sontuoso, equilibrato e magnetico, classico nel design delle nuove figure e più ardito per quanto riguarda sfondi e ambientazioni, che si fanno ricche di dettagli e di inserti, offrendo vedute mozzafiato e certosine.
Tra strani macchinari, città in rovina nascoste dentro caverne di ghiaccio e mezzi avveniristici, c’è di che sbizzarrirsi… e anche la gabbia si adatta alle ricche scene imbastite, aprendosi in diversi casi a quadruple o a grandiose splash page.
Un’ottima prova autoriale, insomma, che si spera non resti un unicum per chissà quanto altro tempo ancora: Atlantide o non Atlantide, vorrei rivedere un Casty così su Topolino almeno un’altra volta entro l’anno 😉
Pippo Holmes in: una salsa in rosso, di Bruno Enna e Paolo Mottura (nn. 3572-3753), è senza dubbio l’altro pezzo forte del mese: seguendo la “vocazione letteraria” naturalmente connaturata al Salone del Libro di Torino, unitamente alla celebrazioni per i 165 anni dalla nascita di Arthur Conan Doyle, si è deciso di pubblicare su Topolino una vera e propria trasposizione di Uno studio in rosso, il romanzo d’esordio di Sherlock Holmes.
Citazioni al più grande detective del mondo non sono mai mancate nel fumetto Disney, ma non c’è mai stato un vero e proprio adattamento dei libri e Bruno Enna ha preso la palla al balzo, riprendendo un po’ le fila di quanto fatto anni fa con la Trilogia Gotica.
L’approccio è in effetti simile, e così il risultato, con i suoi pregi e difetti: tra i primi si annoverano senza dubbio l’atmosfera vincente, molto vicina al materiale originale, l’ottimo uso dei personaggi – perfettamente in bilico tra fedeltà alle note caratteristiche e ricalco delle figure del romanzo – e il delizioso uso di un umorismo raffinato e riuscito.
Parlando in particolare del protagonista, non si fa fatica a vedere il buon Pippo sotto agli abiti da Sherlock, e al contempo si individuano nitidamente anche le caratteristiche dell’investigatore britannico; questo perché lo sceneggiatore sardo conosce bene il mestiere e questo universo narrativo, ha evidentemente approfondito la figura di Sherlock Holmes e ha saputo trovare il perfetto punto di congiunzione. Ne esce un personaggio nuovo, dotato di qualche stravaganza in più rispetto a quello di Conan Doyle e di un po’ di intuito e capacità in più del buon Goofy, ed è un personaggio dannatamente buono.
Ottima anche la gestione di Topson, un Watson con vocazioni da detective piuttosto marcate in ossequio alla natura di Topolino.
Per quanto concerne le atmosfere, il merito va in buona parte a Paolo Mottura, che presta il suo tratto affilato e plastico alle brumose ambientazioni londinesi con risultati veramente sontuosi. Sia le scene più posate che quelle maggiormente concitate riescono a trasmettere le giuste nuance di un giallo particolare come questo.
L’artista si supera nel secondo tempo, quando deve visualizzare il lungo flashback che spiega il passato e le motivazioni del colpevole, analogamente a quanto accade nel libro: Mottura sfoggia uno stile acquarellato fenomenale, aiutato da una colorazione pastellosa sempre curata da lui che catapulta efficacemente il lettore in un setting differente da quello visto fino a quel momento.
I difetti a cui facevo cenno sono in un paio di perplessità di adattamento: se l’idea per sopperire agli omicidi può sembrare di primo acchito buona, a una seconda lettura mostra un po’ la corda, con echi da barbabietola di Dracula di Bram Topker non del tutto piacevoli. Regge meglio di quella soluzione, comunque.
La nota maggiormente dolente si individua però nella risoluzione del caso, che vede un Holmes fin troppo passivo. Mi piace che la sua natura pippesca lo porti a concentrarsi sul voler innanzitutto trovare un antidoto alla salsa bloccante che ha “ingessato” due persone, ma che incocci per puro caso nella soluzione del caso, che diviene così sostanzialmente una coincidenza dettata da un’incomprensione mista a elementi paralleli che si incrociano, forse è una licenza poetica un po’ eccessiva.
Nulla che personalmente intacchi comunque la piacevolezza della lettura, grazie a tutti gli altri fattori positivi evidenziati.
Paperinik in: trappola al castello, di Marco Gervasio e Emmanuele Baccinelli (n. 3571), è contemporaneamente il nuovo episodio del Paperinik vendicatore di Gervasio e il “traino” del gadget allegato in queste settimane a Topolino, vale a dire il Castello delle Tre Torri.
Rispetto alla precedente incursione gervasiesca in questo specifico luogo legato agli esordi del personaggio, stavolta ho trovato che il risultato fosse sotto le aspettative. La torre d’oro aveva una base iniziale più solida, innanzitutto, e più legata al castello stesso, che qui – paradossalmente, visto il collegamento con il giocattolo – è decisamente defilato, risultando di fatto solamente la base usata dal misterioso criminale che deruba i miliardari facendo ricadere la colpa sul papero mascherato.
La soluzione stessa dell’intrigo mi ha lasciato un po’ disorientato, trovandola da una parte un colpo a effetto ma dall’altro un exploit uscito un po’ dal nulla e abbastanza stiracchiato. Sentimenti che ho provato anche nel modo in cui il villain viene neutralizzato, un’idea che appare improvvisata perché la preparazione nel primo tempo mi è sembrata insufficiente a porne le basi. Mancano insomma alcuni passaggi che avrebbero reso il finale più scorrevole.
I disegni di Bacci invece non deludono, proseguendo la sua parabola crescente: ci sono diverse vignette davvero intense per le pose assunte da Paperinik, per la gestione delle scene, per le atmosfere notturne che riesce a trasmettere sempre più efficacemente e per un tratto netto e morbido che ben si presta a questo tipo di storie, unito al gusto per una regia armonica e per gli intarsi che incorniciano le prime tavole, che ricordano molto quanto faceva Giovan Battista Carpi.
Area 15 – La corona di Tirnan, di Giovanni De Feo e Alessandro Pastrovicchio (nn. 3574-3575): voto alto alle intenzioni, basso alla resa finale.
Sarò breve, in questo caso: dopo i tanti aspetti del tempo libero e della quotidianità giovanile affrontati da Area 15, ci stava tantissimo parlare dei giochi di ruolo, passatempo con molti lustri sulle spalle ma certamente ancora diffuso. Peccato che il modo in cui De Feo affronti il tema risulti fin troppo sperimentale, con esiti poco felici: una prima parte lenta e farraginosa, perché preoccupata di spiegare i vari termini e consuetudini dei GDR, una seconda che diventa una storia a bivi con scelte non particolarmente coinvolgenti o differenti tra loro e una terza dove subentra la crisi nel “party”. Quest’ultima è forse quella meglio riuscita e reale, grazie alla voce fuori campo e a una buona narrazione della rottura tra gli amici, ma non basta da sola a salvare una storia nel complesso indecisa e claudicante.
Anche Pastrovicchio non sembra completamente a suo agio: rispetto alle sue ultime prove noto un leggero passo indietro per quanto riguarda l’estetica dei personaggi, specialmente quelli nuovi (per lui come disegnatore) quali sono i ragazzini amici di Qui, Qui, Qua o l’insegnante.
I corpi appaiono raffigurati troppo tozzi e grezzi, e questo – complice un chinaggio pesante – rende il tratto un po’ troppo ruvido.
Meglio per quanto concerne le ambientazioni e gli abiti.
Blue Peaks Valley – Un giornalista, di Corrado Mastantuono (n. 3571), arriva a una certa distanza dalle altre storie del ciclo, apparse in sequenza qualche mese fa, ma ne è l’ideale continuazione e conclusione. Come si ricorderà, la miniserie raccontava i primi passi di Zio Paperone come editore del neonato Papersera, ai tempi del Klondike. Rilevo ora come allora la stonatura di ambientare gli albori della carriera editoriale di Paperone in quel periodo della sua vita, ma questo episodio spicca sugli altri perché racconta molto dell’animo incorruttibile del protagonista, della sua indipendenza e del suo orgoglio. All’interno di una trama bella agitata vengono affrontati temi di un certo spessore mantenendo un buon focus sulla personalità dello Zione, che ne esce ben delineato. Al contempo si offre una buona chiusa all’arco narrativo impostato che, pur con vari inciampi, non mi è dispiaciuto nello spirito, pur dovendo chiudere svariati occhi su determinate scelte.
Esteticamente ho ritrovato il solito tratto del Masta, equilibrato e piacevolmente umoristico, fresco e dinamico, che dà il meglio di sé nelle espressioni dei personaggi.
Zio Paperone e il coach inconsueto, di Roberto Gagnor e Alessandro Perina (n. 3572), è una sorpresa inaspettata. In primis perché erano anni che non c’era più stata un’intera storia dedicata a un vip paperizzato, consuetudine che nell’era Bertani era stata relegata a innocue one-page a corredo dell’intervista di prammatica.
In secondo luogo perché, rispetto alla media di questo tipo di produzioni… è una bella storia!
L’idea di tornare alla vecchia modalità è stata chiaramente dettata dalla straordinarietà del personaggio famoso in oggetto: Yannik Sinner è lo sportivo del momento, avendo raggiunto risultati nel tennis che l’Italia non ha mai conosciuto, e mantenendo al contempo un atteggiamento sano ed encomiabile di fronte al successo ottenuti.
Ma il merito della riuscita dell’operazione è di Gagnor, che è stato in grado di calare con la giusta leggerezza la controparte papera di Sinner all’interno del contesto disneyano: se avere Zio Paperone come sponsor, con le relative gag di stampo economico, e i soliti Rockerduck e Lusky in veste di “guastatori”, potevano essere preludi a qualcosa di piatto e banale, la trama si riscatta nei divertenti siparietti nei quali il tennista deve ritrovare lo smalto, per concludere con il bel finale nel quale ha modo di intraprendere un match di allenamento con un insospettabile papero dalle eccellenti doti in questo sport, un risvolto gestito in maniera genuina e piacevole.
Aggettivi che posso usare anche per lo stile di Perina, da sempre esperto paperizzatore: classico, lineare, morbido e performante, è un ottimo biglietto da visita dello standard disneyano da mettere in mano anche e soprattutto ai tanti appassionati di Sinner che potrebbero aver comprato il numero per leggere la storia dedicata al loro beniamino.
Zio Paperone, Rockerduck e il bombetta business, di Sergio Badino e Stefano Intini (n. 3573) e Topolino e Pippo in: buonanotte Poppi, di Andrea Malgeri e Stefano Intini (n. 3574), sono due avventure che mi sento di accomunare per vari motivi: entrambe poste in apertura dei rispettivi albi, entrambe genuine e scanzonate, entrambe autonome e quindi senza essere parte di una saga o di una lunga trama a puntate.
Ed entrambe disegnate da un Intini strepitoso, anche se su questo ci torno dopo.
Il punto è che possiamo fare tutte le analisi “tecniche” che vogliamo, ma in alcuni casi ci sono dei fattori che esulano dal ragionamento, delle sensazioni che non sappiamo bene individuare ma che fuoriescono dall’insieme, spesso imprevedibili tanto per il pubblico quanto per gli stessi autori. Nella fattispecie, mi è successa una cosa curiosa: pur non sapendo dirvi il perché, queste due storie mi sono sembrate uscire da un Topolino della mia infanzia, nel miglior senso possibile. La loro semplicità (apparente!), la loro indipendenza da progetti magniloquenti o anche solo da recondite volontà di “fare la rivoluzione” su un personaggio, la voglia basilare di raccontare una buona storia che dice tutto quello che ha dire nell’arco della sua trentina di tavole.
Questo non vuol dire che non apprezzi le operazioni innovative degli ultimi anni, anzi, e se mi leggete da un po’ lo saprete, ma trovare ogni tanto qualcosa di semplice e fatto bene è per me un vero piacere.
Rockerduck ha la bella pensata di varare una catena di ristoranti specializzati in cibi a forma di bombetta, pubblicizzandoli come il mangiare “della rivalsa”, la consolazione di chi si sente l’eterno secondo, una sensazione fin troppo comune.
Pippo ha una doppia personalità che si anima mentre dorme, e che eccelle in ogni attività artistica e umana, prosciugando però le energie della sua solita controparte.
Come potete notare, sono due trame riassumibili in poche parole, ma la differenza la fa il ritmo, l’uso dei personaggi, i dialoghi, la freschezza delle relazioni interpersonali e un pizzico di riflessione sui personaggi che male non fa, appena suggerita.
Badino e Malgeri hanno saputo catturare una cosa impalpabile e sfuggente che per me – sottolineo, per me, qui siamo veramente dalle parti di qualcosa di molto personale – è profondamente disneyana, soprattutto perché è legata a una formula che mi è rimasta attaccata dall’infanzia. Una specie di Madeleine!
Stefano Intini si è scatenato e ha avuto un buon ruolo nel mio entusiasmo: un segno “pazzo”, rutilante, grazie al quale Paperi e Topi guadagnano espressioni facciali cartoonesche, esagerate, capaci di sciogliersi o accendersi a seconda del momento. Personaggi animati ma impressi su carta, che si muovono in un contesto fortemente caricaturale e per me molto centrato, quasi lisergico.
Magnifico e galvanizzante.
Cavezza – La squadra, di Giuseppe Zironi (n. 3575), rappresenta probabilmente un passaggio importante nella gestione “sistematica” del personaggio da parte di Zironi.
Col secondo episodio di Cavezza avevo espresso la mia confusione sulla collocazione del ciclo, partito da un primo episodio nella prima adolescenza del personaggio che faceva supporre una specie di “Life and times” a puntate su Orazio, per poi invece fare un brusco salto in avanti. Ritengo che ci sia stata qualche responsabilità da parte della comunicazione effettuata dalla redazione inizialmente, a questo punto.
Fatto pace con questo, Cavezza può candidarsi ad essere un progetto interessante, dando risalto a una figura poco utilizzata in maniera autonoma: il problema era che le trame delle prime due storie non mi avevano convinto a prescindere dal contorno, mentre fortunatamente con questa La squadra cambia la musica.
Una regola sempreverde per rivitalizzare un personaggio è quella di dargli una cerchia di nuovi comprimari con i quali creare legami diversi da quelli cristallizzati nel corso dei decenni. In tal senso l’intenzione – per ora solo promessa – di dare a Orazio un gruppetto di tosti collaboratori fissi con cui affrontare lavori di restauro “impossibili” è stuzzicante, e già questo primo passo ha buonissime vibes: al di là della prima parte nella quale il protagonista deve reclutare i membri uno a uno, infatti, sono le ultime pagine a essere intense ed esplosive (blink blink), con una sceneggiatura tiratissima e coinvolgente nella sua gestione della tensione.
Complimenti, quindi, anche per il tratto piacevolmente grezzo e ruvido che rende lo Zironi riconoscibile al primo colpo. Nota di merito per la coda equina di Orazio ben in vista!
Zio Paperone e l’oro trasmigrante, di Bruno Enna e Giampaolo Soldati (n. 3575), agitava in me qualche timore prudenziale. Di Enna dovrei fidarmi a occhi chiusi, lo so, ma il fatto che fosse anticipata come “storia sulla biodiversità” e l’assegnazione a un disegnatore che non amo molto mi avevano fatto temere un progetto su commissione nel quale l’autore non avrebbe dato il meglio.
Ebbene, mi sbagliavo: il tema della biodiversità è trattato in maniera per nulla invasiva, riuscendo a trasparire nella sua importanza senza la fastidiosa sensazione di essere attaccato a forza sui personaggi o tramite pipponi indigesti. Grazie a qualche dialogo ben gestito l’argomento viene esplicitato con naturalezza e soprattutto è inserito all’interno di una trama classica che vive anche a prescindere da esso. Insomma, un po’ il modus operandi che tanto ho apprezzato nella lunga avventura sulla Via Appia di Artibani/Perina.
In più Enna rispolvera un genere caduto drammaticamente in disuso, cioè la caccia al tesoro di Zio Paperone, e anche questo è un plus per quanto mi riguarda.
In tutto ciò, infine, perfino Soldati se la cava benino e, pur continuando a non amare il suo stile, devo dire che il risultato è più che accettabile.
Tripletta paperinesca, in attesa degli imminenti festeggiamenti di giugno!
Con Pianeta Paperino – La prima amaca, di Vito Stabile e Marco e Stefano Rota (n. 3573), prosegue la miniserie che si focalizza sui vari elementi che caratterizzano il protagonista. È di scena un oggetto iconico come l’amaca, ma personalmente l’idea non mi ha preso particolarmente. Simpatici i siparietti con Gastone e con Paperoga, azzeccatissima e spassosa la vignetta con l’autocensura, ma non c’è molto altro.
Nel complesso il progetto è decisamente meno riuscito del “fratello maggiore” incentrato su Paperone, e secondo me la colpa è anche dei disegni dei Rota, le cui atmosfere vintage funzionano meno bene in queste brevi sul buon Donald.
Anche per quanto riguarda Gli allegri mestieri di Paperino – Una questione di qualità, di Tito Faraci e Enrico Faccini (n. 3574), i disegni non eccellono: è un Faccini effettivamente un po’ appannato quello che ho visto negli ultimi episodi della serie, chissà perché, pur rimanendo anche nei momenti meno ispirati una matita in grado di cogliere le sfumature del papero vestito alla marinara.
Lato sceneggiatura, metto questa Una questione di qualità (citazione dei CCCP, per caso?) nella fascia bassa: ha i suoi momenti briosi e comici al punto giusto, intendiamoci, e l’idea dei controllori in borghese è fantastica, ma viene tirata un po’ troppo per le lunghe e nel complesso la storia somiglia troppo a un paio di gag allungate eccessivamente.
Paperino e il riordino estremo, di Knut Nærum e Arild Midthun (n. 3574), infine, ci consente di sbirciare il Paperino made in Egmont, quello più vicino allo spirito barksiano ma anche a quello dei cortometraggi classici.
Rispetto ad altre storie nordeuropee finite su Topolino, questa è una delle migliori: la ricetta è una delle più usate – Paperino va in fissa con una novità spendendosi in essa al 100% fino all’inevitabile implosione – ma l’autore non dà quasi mai l’idea di un more of the same, complici un paio di twist narrativi niente male.
Divertente, concreta e pulita, la trama convince perché parte da qualcosa di reale e lo porta alle estreme conseguenze con sicuro effetto comico.
Il tratto elegante di Midthun fa comunque la differenza e impreziosisce una breve che necessitava di un segno attento ai dettagli.
In questo caso, peraltro, il suo stile mi ha ricordato come non mai quello del compianto Daniel Branca, e per me è un grande complimento.
La casa delle storie – Amelia e la città della seta, di Marco Bosco e Blasco Pisapia (n. 3575), è il secondo tassello del progetto promosso dall’Archivio di Stato di Napoli con il non semplice obiettivo di far percepire un archivio come qualcosa di interessante.
Nel primo caso si puntò sul fascino della ricerca tramite vecchi tomi effettuata dalle Giovani Marmotte sulle tracce delle opere di un artista, stavolta Bosco utilizza un approccio più laterale.
Devo essere sincero? Troppo laterale, per me.
La storia delle GM non mi aveva fatto impazzire, ma aveva un senso e una direzione precise, mentre in questo caso l’intenzione di Amelia di avere un particolare vestito d’oro da sfoggiare a una festa mi è apparsa immediatamente fragile, oltre che forse vagamente out of character.
Non solo, ha conosciuto uno sviluppo ancora più traballante, a base di un viaggio nel tempo e di un improbabile team-up con un’inedita antenata, senza contare che lo spazio lasciato all’archivio è così risicato da essere quasi pretestuoso.
Non basta purtroppo un buon Pisapia alle matite, che fa vivere in particolare la sua Amelia con un certo fascino e una grande attenzione agli sguardi, per salvare l’insieme.
La grande mitologia papera – Il volo di Archidedalo, di Luca Barbieri e Giampaolo Soldati (n. 3573), è per me il miglior episodio di questa serie internazionale. Barbieri prende uno dei miti che più mi hanno affascinato fin da piccolo e lo disneyanizza con una grande consapevolezza e con uno storytelling pulito, essenziale ed efficace. In questo caso riesce a smorzare gli elementi più crudi senza banalizzarli, senza far mancare scene più bieche – il suo Cuordipietra dittatore è qui veramente cattivo e non viene sminuita l’entità del suo gesto di rinchiudere Archidedalo nel labirinto – e mantenendo viva la morale del racconto.
Si legge che è un piacere, è carino il mini-collegamento con una delle storie precedenti per dare un briciolo di inaspettata continuità e Soldati realizza una delle prove migliori in assoluto che io ricordi nella sua carriera.
A ‘sto giro benissimo, direi.
Bene, credo di aver detto tutto.
Grazie come sempre a chi mi ha letto, e alla prossima!