Tre mesi fa, con uno scoop proprio sulle nostre pagine, annunciavamo la pubblicazione di Le voci dell’acqua. Fu sicuramente una notizia spiazzante per tutto il mondo del fumetto, soprattutto per chiunque conoscesse almeno un minimo la personalità di Tiziano Sclavi. Il creatore di Dylan Dog era ormai inattivo da diversi anni, e solo da poco tempo aveva ricominciato a scrivere degli episodi per l’Indagatore dell’incubo, Dopo un lungo silenzio e Nel mistero.
Oltre al sentimento di sorpresa, l’avvento di questa graphic novel veniva pertanto salutato, anche da chi scrive, con una certa dose di aspettative, visto che tecnicamente si trattava dell’esordio su questa forma narrativa, per quanto la caratura dell’autore potesse fugare fin da subito dubbi circa la sua disinvoltura nell’affrontare questa nuova sfida. Senza contare che, considerando solo alcune delle caratteristiche che definiscono questo formato editoriale, potremmo ricomprendervi anche certi episodi di Dylan Dog. Un esempio? Caccia alle streghe, n. 69 della serie regolare.
Uno Sclavi poco sclaviano
D’altro canto, la curiosità principale si concentrava sicuramente sulla poetica dell’autore: al di là dello Sclavi romanziere, pure a suo agio con titoli come Nero e Dellamorte Dellamore, quanto dello Sclavi letto sulla sua creatura principe si sarebbe riversato su queste nuove pagine?
Cominciamo col dire che Le voci dell’acqua non è una storia facile, probabile che servano almeno un paio di letture per addentrarsi nei meccanismi sconnessi della trama. Da questo punto di vista, lo Sclavi dylandoghiano perfettamente intellegibile – a diversi livelli, certo – tanto dal lettore occasionale quanto da quello più appassionato, è molto distante.
Il meccanismo narrativo procede per immagini con dei flash carichi di esistenzialismo, dell’assurdità che caratterizza la vita di Stavros, il protagonista. Leggendo, ci si sente un po’ lui: stranito, spaesato. Cosa vogliono comunicare le voci dell’acqua? Perché proprio a lui? Inutile dire che la risposta non è affatto scontata, ammesso che esista.
O no?
Analizzando il volume da un’angolazione diversa, però, possiamo riconoscere alcuni dei topoi della poetica sclaviana. Questi luoghi comuni ricomprendono da un lato i grandi argomenti “classici” dello scrittore di Broni, declinati in maniera funzionale alla narrazione, come la retorica quasi fantozziana del posto di lavoro in ufficio come orrore massimo, con tanto di direttore senza alcun sentimento e condizioni di lavoro del tutto alienanti. Ancora, il ruolo giocato dai genitori, che spesso nel gusto dell’autore sono all’origine del male, utilizzati spesso come elemento di contrappeso per scatenare nel lettore un senso di pietas anche per il più terribile dei carnefici.
E poi ci sono le piccolezze, rinvenibili anche nei dialoghi, i “Senti…niente” di Marina Kimball, quegli scambi al fulmicotone che condensano in due battute discorsi altrimenti lunghissimi e fuori luogo in un lavoro del genere.
Questi rimandi allo “Sclavi già visto” possono rappresentare un limite dell’opera, perché riprendono tutta una serie di situazioni e stilemi che l’autore ha già declinato in diverse salse, e in ultima istanza minano l’originalità di un fumetto per il resto più che riuscito.
Piove, Dell’Edera, piove
Particolarmente azzeccata la scelta di affidare i disegni a Werther Dell’Edera, autore dalla spiccata personalità artistica, il cui lavoro risulta in perfetto connubio con il tono surreale del racconto sclaviano: le vignette senza bordi, l’assenza di campiture di nero, il tratteggio fittissimo col quale si compongono i volumi e le ombre, la costruzione di vignette nelle quali la scala cromatica passa dal bianco al nero, attraversando una infinita progressione di grigi, l’onnipresente pioggia, tutto contribuisce alla realizzazione di una prova maiuscola.
Si tratta probabilmente della summa della maturazione artistica di Dell’Edera, che al contempo lavora di aggiunta e sottrazione. I suoi neri meno prorompenti del solito e il segno composto da mille tratti rendono Le voci dell’acqua la diretta evoluzione di quanto visto ne Il Corvo: Memento mori, qui però notiamo anche un’attenzione particolare dedicata alla scelta del punto di vista nella composizione delle singole vignette, entro le quali l’artista sceglie un centro su cui focalizzare l’attenzione, lasciando i dettagli di contorno quasi in stato di bozza. Il risultato finale è molto suggestivo, perfettamente aderente alla poetica narrazione per immagini sclaviana.
A titolo esemplificativo, si veda la vignetta unica di pag. 60, in cui l’autore costruisce la scena utilizzando esclusivamente dei fitti tratteggi di linee perpendicolari, nel quadro di una prospettiva con punto di fuga laterale che ben restituisce l’idea alienante di ufficio-alveare tanto cara a Sclavi.
Si tratta solo di un esempio, ma c’è davvero da soffermarsi sulle tavole per apprezzare la loro curata realizzazione, in diverse si può scovare una tecnica particolare, un dettaglio, una scelta di piano o prospettica che rende unica la vignetta o la tavola.
Una voce che mancava
In conclusione, Le voci dell’acqua può tranquillamente annoverarsi tra le opere migliori di Sclavi. Se ci si prende il giusto tempo per assaporare e far “decantare” il racconto, ci si trova arricchiti. Al primo impatto, le perplessità attorno a questo lavoro erano molte, perplessità che si sono poi volatilizzate dopo una seconda (e una terza) più attenta lettura.
A parte l’immediatezza, l’unica nota un po’ stonata sono i cliché narrativi, cui però ciascuno può dare un peso diverso, considerandoli più o meno importanti nell’aderenza al proprio gusto personale.
Di sicuro, il suo modo di raccontare con amara ironia (sì, perché la sua ironia è inconfondibile e non manca mai), la sua straordinaria sensibilità nel trattare temi difficili e delicati, mancavano terribilmente.
Abbiamo parlato di:
Le voci dell’acqua
Tiziano Sclavi, Werther Dell’Edera
Feltrinelli Comics, 2019
96 pagine, brossurato, bianco e nero – 16,00 euro
ISBN: 9788807550188