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  • Le radici di un successo: intervista a David F. Walker

    Le radici di un successo: intervista a David F. Walker

    In occasione della vittoria agli Eisner Awards 2020 della serie “Bitter Root” della Image Comics, abbiamo intervistato uno dei suoi creatori, David F. Walker.


    Bitter Root, dopo la nomination dell’anno scorso a miglior serie esordiente, ha vinto nel 2020 come miglior serie a fumetti agli Eisner Awards. In occasione di questa vittoria abbiamo raggiunto uno dei creatori della serie, lo sceneggiatore David F. Walker. Con lui abbiamo parlato della nascita di questo fumetto, ma anche di altre sue opere, tra le quali il controverso Nightwing, Naomi – altra acclamata serie scritta per DC Comics in coppia con Brian Michael Bendis – e Superb.

    BitterRootCiao David, benvenuto su Lo Spazio Bianco. La tua serie Bitter Root è stata candidate per il secondo anno consecutive agli Eisner Awards, e quest’anno ha vinto il premio per miglior serie regolare. Quale credi che sia l’elemento che più ha fatto presa su pubblico e critica?
    Penso che il successo sia dovuto a una combinazione di storia, disegni, tematiche e anche dei saggi presenti in coda di ogni numero. Questa combinazione di elementi fa di Bitter Root il fumetto che è. Alcune persone preferiscono il disegno, altre magari sono più attratte dai temi, ma togli uno solo di questi elementi alla serie e non sarà più il fumetto che è.

    Etnogotico, un tocco di steampunk ed esoterismo, una riflessione sulla questione razziale negli Stati Uniti: Bitter Root è un insieme complesso di ispirazioni diverse: da dove è nata l’idea per questa serie e quali sono le fonti di maggiore influenza per te?
    Chuck (Brown) e Sanford (Greene, gli altri due creatori della serie, n.d.r.) hanno avuto l’idea iniziale, cioè quella di una famiglia di cacciatori di mostri che opera durante il rinascimento di Harlem. Mi hanno coinvolto fin da subito nel processo di creazione e sviluppo e così ho iniziato immediatamente a pensare a cosa avrebbe potuto rendere questo fumetto diverso da ogni altro visto in precedenza. Ho iniziato a fare molte domande su cosa avremmo voluto raccontare, al di là della storia in sé per sé. Quali erano i temi che volevamo esplorare? Come volevamo che la storia avesse un impatto sui lettori a livello emotivo? Per me una delle più grandi influenze per questo fumetto è stata La notte dei morti viventi di George A. Romero. Sono anche un grande fan de L’invasione degli ultra corpi di Don Siegel. Entrambi questi film dicono molto più di quello che possa apparire superficialmente, in particolare il primo. Romero è uno dei miei registi preferiti, i suoi film hanno sempre un significato più profondo, cosa che li fa entrare in sintonia con me e con gran parte del pubblico. Quando racconto storie aspiro sempre a raccontarle nel modo in cui lo faceva Romero.

    Alla scrittura collabori con Chuck Brown, autore che viene dal mondo indie ma con esperienza anche nel mainstream: come cambia il lavoro di sceneggiatore quando si lavora in coppia? E quali stimoli può portare un autore con il suo background?
    Ho già collaborato con altri scrittori e ogni persona è diversa. L’unica cosa che è costante in queste collaborazioni sono io e penso di essere una persona difficile con cui collaborare. Spingo sempre al massimo per realizzare la miglior storia possibile e questo per me significa che dobbiamo sforzarsi di fare meglio di quello che crediamo saremmo capaci di fare. Ho collaborato con Brian Michael Bendis e questa per me è stata un’esperienza grandiosa, non solo dal punto di vista creativo ma anche da quello dell’apprendimento. Ogni idea che Bendis porta in una storia serve per farla diventare migliore. Penso che in fin dei conti questo debba essere l’obiettivo di qualsiasi team creativo, a prescindere che sia composto da uno o più scrittori. Anche se c’è solo uno scrittore, comunque devi collaborare con altri. La storia parte da chi scrive, ma ognuno, dal disegnatore al colorista fino al letterista, è parte integrante della storia. Un fumetto è buono solo nella misura in cui è buono il suo team.

    PowerManIronFistSu Bitter Root sei alla seconda collaborazione con Sanford Greene, con cui hai già lavorato su Power Man e Iron Fist della Marvel. Siete quindi una coppia affiatata e che ama lavorare assieme. Quale è la caratteristica che più apprezzi del lavoro di Sanford?
    Ero un fan del lavoro di Sanford ben prima di lavorarci insieme. Una delle cose che più mi piacciono è la sua capacità di dare l’illusione del movimento. Il fumetto è statico, le immagini non si muovono. Eppure i disegni di Sanford sembrano sempre in movimento, come se scorressero. Inoltre sono appassionato degli artisti con uno stile fortemente cartoonesco, per così dire. Mi piacciono molto quei fumetti che mi strappano dal mondo reale e mi portano in un posto che scatena la mia fantasia. E Sanford è uno che fa proprio questo.

    Parlando di Power Man e Iron Fist, questo fumetto ti ha dato la possibilità di affrontare temi a te cari con maggiori sfumature, reinterpretando il cuore dei due personaggi in un contesto più moderno, lontano dalle origini della blaxploitation. Considerando genesi e contesto in cui si muovono, cosa pensi che questa coppia così peculiare possa raccontare del nostro mondo e della nostra società?
    La forza di questi due personaggi sta tutta nella loro amicizia e nel fatto che non sembra che possano essere amici o men che meno una squadra. Questo è soprattutto vero per le loro storie degli anni ‘70 e ‘80. Per quanto mi riguarda, amavo il fatto che fossero così diversi tra loro e che non ci fosse nulla di lusinghiero nella loro rappresentazione. Batman e Robin, ad esempio, sono fatti l’uno per l’altro. Anche Green Hornet e Kato, pur essendo fisicamente diversi, si vestono allo stesso modo. Se pensi a Lone Ranger e Tonto, hanno un look molto distintivo, ma era anche chiaro che Tonto fosse il personaggio secondario, e questo mi dava molto fastidio, perché Tonto era molto più figo di Lone Ranger. Invece il contrasto tra Power Man e Iron Fist crea un senso di equilibrio. Non si assomigliano, non si fanno lusinghe. E, cosa ancora più importante, non si ha mai l’impressione che uno sia più importate dell’altro. Se metti tutti questi elementi insieme e poi infili nel calderone anche la loro amicizia – che è una componente universale – allora ottieni un team grandioso.

    In Marvel hai anche realizzato un fumetto molto controverso, ovvero Nighthawk. In questa serie hai portato all’estremo alcune delle tue riflessioni sull’odio razziale, ma anche sulla brutalità della polizia e sull’ingordigia dei potenti che speculano sui più deboli. Un fumetto mai come oggi così attuale: come pensi possa essere riletto alla luce degli eventi degli ultimi mesi? Al tempo ebbe critiche contrastanti e vita breve. Pensi che alcuni messaggi di quell fumetto sia stati poco capiti o fraintesi?
    Non so se il mio messaggio sia stato male interpretato, penso forse che ci fossero molti che non fossero interessati a quello che stavo dicendo. Parlavo del mio punto di vista sulla brutalità della polizia, sul razzismo e su altre malattie che piagano il nostro paese e sono usate per opprimere gli afro americani. Mi piace pensare che il mio messaggio fosse forte e chiaro. E se questo è un messaggio che non condividi o che non vuoi sentire, allora leggi altro. Non voglio farti perdere tempo e puoi continuare a tenerti per te la tua opinione. Il livello di razzismo sistemico e la supremazia bianca che strangolano il mio Paese non sono nati dalla sera alla mattina, anche se alcune persone scelgono di non vederlo. E quindi dico loro: se non vedete il sistema oppressivo che ci circonda, o non vi interessa, allora non ho nulla da dirvi.

    NaomiInsieme a B.M. Bendis e Jamal Campbell hai creato Naomi, una nuova giovane supereroina DC Comics. Non è facile creare oggi un personaggio nuovo, che funzioni e abbia successo, all’interno di un universo supereroistico consolidato come quello DC: voi ci siete riusciti e, dunque, qual è stato il segreto del vostro successo?
    Abbiamo creato questo personaggio dal nostro cuore e abbiamo cercato di renderlo diverso da ogni altro eroe che abbiamo visto finora. Personalmente sono stanco di supereroi adolescenti maschi e non avrei voluto scrivere un altro fumetto del genere. Nemmeno Bendis, e penso che questo sentimento fosse condiviso da molti altri lettori che cercavano qualcosa di diverso, anche se ancora non sapevano bene cosa. E comunque, alla fin fine, possiamo dire di essere stati molto fortunati: era il team di autori giusto per il progetto giusto.

    A cominciare dal cognome McDuffie (che richiama Dwayne McDuffie, sceneggiatore afroamericano della DC scomparso prematuramente nel 2011), fino ad arrivare al colore della sua pelle, passando attraverso la sua origine e i suoi genitori, Naomi pare racchiudere in sè quasi un manifesto che inneggia all’inclusività e all’accettazione. Quanto c’è di tuo in questa che appare una volontà evidente di connotare il personaggio in un modo ben specifico?
    Io e Brian siamo amici da molto tempo, abbiamo insegnato insieme, e questo ci ha dato la possibilità di esplorare personaggi e storie in modi che molte altre persone non riescono a fare. Questa amicizia e questo rapporto di lavoro ci ha preparato per una eventuale collaborazione. Una cosa del genere sarebbe potuta succedere in Marvel, ma così non è stato e sono contento di questo. Sapendo in che momento della mia vita e della mia carriera mi trovavo, avevo bisogno di qualcosa di nuovo e diverso; lo stesso valeva per Brian. Entrambi avevamo le nostre ragioni e i nostri bisogni per creare un personaggio come Naomi, e la DC ci ha dato l’opportunità di fare questo.

    Arriviamo a parlare dell’attualità, un tema attorno al quale non si può girare intorno: le proteste di questi giorni negli Stati Uniti hanno portato alla ribalta varie tematiche, in particolare quelle del razzismo, delle diseguaglianze della società e dei soprusi operati dalla polizia. Il Black Lives Matter è diventato un grido che ha travalicato gli States, coinvolgendo tutto il mondo e mettendo in evidenza problemi trasversali alla società. In questo contesto, che ruolo ha il fumetto nel raccontare la società e riflettere su questi temi?
    Forse non sono la persona giusta a cui chiedere, perché benché pensi che il primo compito di fumetti e film sia quello di intrattenere, penso anche che il ruolo di un artista o autore sia quello di dire la verità e dire quello che vede. Non voglio un intrattenimento che mi lusinghi, che mi coccoli, o che mi colpisca in testa con retorica o dogmi: voglio qualcosa che mi coinvolga emotivamente e intellettualmente. E questo ci riporta a Romero: molte persone dicono che sia stato un regista di film horror con un messaggio, ma io trovo che abbia fatto film di protesta, con un messaggio, travestiti da horror, e la bellezza di quello che ha fatto e di come l’ha fatto sta proprio nel fatto che se tu non vuoi vedere un significato più nascosto, non lo vedrai! Penso che i migliori fumetti siano quelli che hanno un significato più profondo che è camuffato con intelligenza. Io non sono abbastanza intelligente o furbo da camuffare il mio messaggio…non ancora, almeno. Ma ci sto lavorando.

    CREATOR: gd-jpeg v1.0 (using IJG JPEG v62), quality = 85Il fumetto statunitense si è più volte trovato a discutere del problema della rappresentanza delle minoranze. Negli ultimi anni sono nati molti personaggi che cercano di dar voce a una pluralità di etnie, culture, orientamenti sessuali, basti pensare a Miles Morales, Kamala Khan, America Chavez, Kong Kenan e tanti altri. Pensi che vada fatto di più in questo senso, che ci sia spazio per una espansione del trattamento di queste tematiche?
    Sì, penso che sia così. Ma penso anche che lettori, rivenditori e critici debbano fare la loro parte. Alcune persone che fanno parte di questa industria hanno una mentalità molto chiusa. E in questa frase includo anche i lettori. Ci sono persone che non vogliono cogliere un’occasione per provare qualcosa di nuovo, o pensano che, dato che un personaggio non assomiglia loro, allora non possono relazionarsi con esso. Queste sono solo stupidaggini. Se non ti puoi riconoscere in un personaggio per via della sua etnia o del suoi genere o qualsiasi altro motivo, allora le cose sono due: può essere che il personaggio non sia adeguatamente sviluppato, e questa è sempre una possibilità; oppure, molto più spesso, la realtà è che stai scegliendo di non entrare in contatto con il personaggio per via dei tuoi pregiudizi.

    Una delle minoranze di cui si parla poco nel fumetto mainstream sono i disabili. Anche sotto questo aspetto ti sei distinto, creando insieme a Sheena C. Howard il primo supereroe con sindrome di Down, ovvero Superb, per Lion Forge. Come è nata l’idea di questa serie e quali pensi sia il messaggio più forte dietro a questa storia?
    Questo personaggio, Jonah, era stato in realtà creato da qualcuno alla Lion Forge prima che io e Sheen arrivassimo a scrivere Superb. In effetti, una delle ragioni principali per cui ho scelto di lavorare su questo fumetto è stato proprio il fatto che il personaggio avesse la sindrome di Down, e volevo far parte di un progetto che aiutasse a portare una maggior inclusione nei fumetti. Lion Forge si è assicurata di metterci in contatto con la National Down Syndrome Society e io ho parlato con famiglie con un componente o persone affette dalla sindrome. Il mio obiettivo era quello di rappresentare Jonah come un personaggio sfaccettato e complesso, un essere umano con emozioni, che al tempo stesso deve affrontare il fatto di avere superpoteri. Un errore sarebbe stato mettere la sindrome davanti all’umanità del personaggio, che è quello che alcuni autori fanno quando sono lontani da esperienze che conoscono. Francamente trovo questo approccio una forma di scrittura pigra e un disservizio sia nei confronti del personaggio che dei lettori. Non c’è niente di male a scrivere cose al di fuori della propria esperienza personale, purché si apprenda e si impari dalle esperienze altrui. Al momento sto lavorando su una storia in cui un personaggio è transessuale e puoi star sicuro che sto parlando con persone transgender per far sì che il personaggio venga fuori come una persona reale, non una macchietta o una figurina. Non mi interessa se sto scrivendo di un personaggio trans, di uno che ha una sindrome di Down, di una macchina parlante: quello che uno scrittore deve fare è dare al personaggio un livello di umanità con cui ognuno possa identificarsi o almeno relazionarsi. Altrimenti non stai facendo bene il tuo lavoro.
    Grazie mille David per il tempo che ci hai concesso!

    Intervista realizzata via mail nei mesi di agosto e settembre 2020
    Traduzione dell’inglese di Emilio Cirri

    David F. Walker

    David F WalkerDavid F. Walker è sceneggiatore di fumetti e graphic novel, nonché autore, produttore cinematografico e insegnante. Attivo da circa 20 anni nel mondo del fumetto, ha lavorato per le più importanti case editrici dell’industria statunitense, da DC Comics (Cyborg, Naomi) a Dynamite Entertainment (Shaft, premiato ai Glyph Award 2015 come storia dell’anno), da Marvel Comics (Luke Cage, Occupy Avengers, Power Man e Iron Fist, Nighthawk) a Dark Horse (Number 13). Nel 2018 ha creato, insieme a Chuck Brown e Sanford Greene Bitter Root per Image Comics, premiato agli Eisner Awards 2020 come miglior serie a fumetti.
    Grande esperto di cinema afroamericano, ha prodotto il documentario
    Macked, Hammered, Slaughtered, and Shafted, uno dei più importanti sulla Blaxploitation, e ha co-scritto il libro Reflections on Blaxploitation: Actors and Directors Speak. Il suo libro più recente è Becoming Black: Personal Ramblings on Racial Identification, Racism and Popular Culture. Questi temi sono affrontati sulla rivista da lui creata, BadAzz MoFo, che continua anche in forma di blog sul suo sito, davidfwalker.com.
    Oltre a questo, è professore associato alla Portland State University e ha insegnato documentaristica, scrittura per il fumetto e critica cinematografica al Pacific Northwest College of Art, Northwest Film Center, Documentary Northwest, and Project Youth Doc.

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