Le mani di Z: bentornata Notte

Le mani di Z: bentornata Notte

Le mani di Z è l’ultima opera di Akab prima della sua prematura scomparsa. Un libro duro, struggente e spiazzante le cui radici partono dalle prime opere dell’autore.

Parlare di Akab adesso non è facile: non lo era neanche prima, ma ora ancora di più. Perché ti prende quella sensazione da esaltazione postuma che ti fa dubitare, dare un giudizio errato, esagerato. Come consegnare premi in memoria: mi danno la sensazione di voler mettere una pezza a un danno. Quindi, forse non è un caso che il suo vero premio “importante” nell’ambito del fumetto gli sia stato assegnato dopo tempo massimo, quando non serviva più.

Eppure, scrivendo, sento che quella paura passa, parola dopo parola si attenua. Perché ho sempre seguito e ammirato le opere di Gabriele Di Benedetto sin dall’inizio, ritrovandomi stupito dalla genialità e dall’acutezza di quello che trasmetteva attraverso la sua scrittura, dalla confusione che generava in me e quanto mi sforzavo di capire quello che voleva raccontare.
Pensavo anche all’autore, all’uomo. Scontroso, insondabile, profondo, gentile, colto, pessimista, simpatico, sincero, pensieroso. Un mosaico di carne delle sue creazioni, una fusione di stati d’animo e sentimenti. Forse non lo abbiamo mai capito veramente, o forse sono solo io.

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La lettura de Le mani di Z inizialmente mi ha provocato lo stesso effetto. Ero spaesato dal contesto, impreparato dalla durezza della lettura, in alcuni momenti sopraffatto. L’ho letto il più velocemente possibile per chiudere e passare ad altro. Ho lasciato trascorrere un paio di giorni e l’ho riletto, con calma, affrontandolo veramente per la prima volta e il senso di oppressione ha iniziato a dissolversi.

In quel momento mi è apparso Akab, chiarissimo come mai in anni di letture, nel suo messaggio scritto, semplice e tenero, crudele e disperato. Mi accorgo solo ora di averlo sempre affrontato con troppa soggezione, con troppe elucubrazioni mentali. Come quando parli con una persona che credi superiore a te in tutto e ti senti intimorito. Invece era tutto facile, o almeno non così difficile.

La storia di Z, bambino che prima non voleva nascere, strappato a forza dal rassicurante utero materno, e poi uomo obeso, strabico, mentalmente instabile, che si aggira vestito come Zorro, diventa il culmine del teorema di Akab, due temi ricorrenti che proseguono e si scontrano dando forma alla storia. Il primo porta sul sentiero della dissezione del fumetto popolare, dalla serializzazione fino alla sua santificazione, della sua rigidità di pensiero, delle sue tante costrizioni, dalle sue regole a volte intoccabili, dai suoi limiti intrinsechi mai superati in tanti anni di produzioni. Un percorso analitico iniziato con Pop! Vite ascensionali, proseguito con le vignette raccolte in Pop Guerriglia, dove mostrava personaggi del fumetto, del cinema e della società immortalati nelle loro ossessioni, nei loro tic, nelle loro debolezze, in maniera unica e centrata.

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O ancora nella sua indimenticabile versione di un meditabondo Dylan Dog rinchiuso in fondo a un pozzo, prigioniero dei suoi pensieri e che esaminava il suo ruolo di personaggio fittizio, odiato da un pubblico impreparato a una visione così drastica, spietata e aliena del famoso indagatore dell’incubo (Dylan Dog color realizzato con Marco K Galli Ausonia), percorso che proseguiva tuttora nei progetti di Stigma, prima supervisionando Perso nel Bosco, realizzato da Dario Panzeri, distruggendo il mito di Batman, poi con Iron Kobra dove con Officina Infernale esaminava e smembrava la spy story attraverso la reinvenzione del linguaggio. Sicuramente sto perdendo molti altri spunti. Comunque una linea retta che mostra come in realtà fosse uno dei più attenti osservatori di quel fumetto popolare, di quelle figure iconiche da cui si voleva pensarlo lontano, uno dei pochi autori italiani contemporanei in grado di smitizzarli e umanizzarli.

Le mani di Z prosegue questo tipo di approccio, ne diventa una summa. Narrato quasi esclusivamente tra le mura di un appartamento, piccolo e claustrofobico, dove il grasso, sgraziato, Zeta si muove tra le rigide griglie di una gabbia bonelliana utilizzata da Akab per quasi tutto il volume, oppure attraverso tavole a due vignette che ricordano Kriminal e Alan Ford. Una struttura stagna in cui riecheggiano i processi mentali del protagonista, prigioniero della sua interminabile routine quotidiana, fatta di televisione, letture delle avventure di Zorro, canzoni neo melodiche italiane e di pochi (due) ricordi che ne hanno marchiato e diviso l’esistenza in due distinti momenti, tra piacere e dolore. Come quello di un suicidio a cui ha assistito e trasformato a forza in un gesto eroico, un atto di disperazione reso immortale e solenne attraverso un significato errato del ricordo, attraverso una insensata percezione materiale data a alcuni oggetti.
Una elaborazione del lutto portata su di sé come un trofeo attraverso il costume di Zorro che indossa sempre, come un eterno carnevale (carnem levare=eliminare la carne), una nuova fittizia identità di diniego. Un’altra icona storica demitizzata, costretta a condividere il corpo inadeguato di Zeta, pronto a trasmettere a colpi sciabola il suo dolore sulle altre presone, incidere, far penetrare schegge di se stesso nel corpo altrui. Una narrazione contraddistinta da gabbie concentriche, sempre più piccole, sempre più strette.

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Nello stesso tempo, in questo suo ultimo libro, si ritrovano anche il lato più personale, la visione autoriale più estrema, i temi più ricorrenti di Akab. La famiglia disfunzionale, un gruppo chiuso ma spezzato, intollerante e contrapposta, divisa tra una madre oggetto di fantasie inappropriate, scudo estremo tra il protagonista e il mondo esterno, e un padre severo e disilluso, che ha fallito in qualsiasi prova la vita gli abbia proposto. Quel padre che insieme al fratello pazzo stava scrivendo un libro/sceneggiatura1  che non vedrà mai luce, un altro progetto respinto, l’ennesimo, ultimo, tentativo di essere celebrato, capito, accettato.

E’ forse in questa dualità combattuta tra raziocinio ottuso e fiducia/insicurezza schizofrenica, che è possibile ritrovare maggiormente la figura di Akab. Ritorna anche la solitudine mentale e fisica percepita dall’individuo, impossibile da evitare anche tra una folla, tra la moltitudine. L’incomunicabilità, la difficoltà a rapportarsi con chi ci sta vicino.
Come Z che studia, senza averne i mezzi cognitivi, i comportamenti umani attraverso le finestre di casa sua, osservando l’avvenente e giovane vicina, senza capirne le parole, ma cercando di comprenderli attraverso i gesti, le reazioni, le espressioni, rielaborandole poi in modo distorto attraverso i continui bollettini di guerra che la televisione passa, inframmezzati da quiz e cartoni animati. Un’insegnate caotica e ingannevole che forma e riempie una mente assente, pronta ad assorbire.

Il figlio che prosegue il sentiero tracciato dal padre, che non può credere più nel messaggio della parola. Un genitore (amato?) andatosene con un atto violento auto inflitto, rinnegando la parola e tutti quei racconti che non hanno mai cambiato la storia, perché le persone oggi non desiderano più leggere, ma essere condotti attraverso la storia, non vogliono sprecare tempo a immaginarla. Il passato contro il futuro. Quel futuro/presente che cerchiamo di accettare, di accodarci a esso per non rimanere fuori dal tempo, ma che per troppi risulta ancora insopportabile, ingestibile. E alla fine ti portano via come Z, verso il nulla; Z che non ha mai compreso, che non ne ha avuto mai modo, eternamente in ritardo.

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Le Mani di Z diventa così una sorta di manifesto artistico della carriera di Akab. Scritto con la classica prosa, seppur meno ermetica, utilizzata dall’autore, asettica in superficie, ma pregna di sofferenza nei dettagli, sia nei dialoghi sia negli scomposti pensieri dei personaggi. Quei dialoghi secchi e realistici e poi stratificati ed ermetici, nel cui sottofondo è possibile però trovare una dolcezza, una mancanza di giudizio che dona all’insieme un valore molto umano. Flussi di parole improvvisamente divisi da tavole silenti in cui si stagliano disegni dal tratto sintetico e tremolante, che dà vita a personaggi vulnerabili e spaventosi, pietosi, luridi e umani.

Uno stile essenziale capace come pochi di passare al lettore le pulsioni più dolorose, i sentimenti più intollerabili. Un libro meravigliosamente crudele, attuale (mentre scrivo questa recensione siamo veramente prigionieri in qualche modo, in isolamento a causa del Covid-19), nichilista e disturbante, che ti stringe il cuore con un guanto di ferro, che ci mostra ancora una volta la povertà comunicativa, la mancanza di empatia di questi anni cannibali e impietosi, dove la pazzia si insinua nel reale, nel quotidiano, stravolgendolo. L’ultima prova di un autore a suo modo unico, che ha detto molto, che probabilmente aveva ancora da molto dire. O forse no. Ormai non ha più importanza.

Akab (ahk’ab’) significa notte in lingua Maya.
Bentornata Notte.

Abbiamo parlato di:
Le mani di Z
Akab
Progetto Stigma, 2020
180 pagine, cartonato, bianco e nero – 25,00 € (disponibile in preordine con volume speciale Mondo Z fino al 23 aprile 2020)


  1. è possibile leggere questo scritto alla fine del volume. Oltre il limite, questo il titolo, è stato iniziato da Akab che dopo i primi capitoli ha affidato la stesura a Udovicio Atanagi 

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