L’arte di Manuele Fior: intervista a Lucca 2017

L’arte di Manuele Fior: intervista a Lucca 2017

Durante il festival di Lucca 2017 abbiamo rivolto alcune domande Manuele Fior in occasione dell’uscita de "L’ora dei miraggi" per Oblomov.

Manuele Fior nasce a Cesena nel 1975, si laurea in Architettura a Venezia nel 2000 e poi si trasferisce a Berlino dove, fino al 2005, alla professione di architetto accompagna quella di illustratore e fumettista. Nel 1994 vince il primo premio alla “Bienal do Juvenes Criadores do Mediteraneo” di Lisbona – settore fumetto. Da allora inaugura una fitta produzione di storie corte a fumetti scritte dal fratello Daniele, apparse su Black, Bile Noire, Stripburger, Forresten, Osmosa. Ha pubblicato le graphic novel L’Intervista – Coconino Press 2013, Cinquemila Chilometri Al Secondo – Coconino 2010 (Fauve d’Or – Miglior Album – Festival Internazionale di Angoulême 2011, Premio Gran Guinigi – Autore Unico, Lucca 2010), La Signorina Else – tratta dal romanzo di A. Schnitzler – Coconino 2009 (Prix de la ville de Genève 2009), Rosso Oltremare – Coconino 2006 (Premio Attilio Micheluzzi, Miglior Disegno per un Romanzo Grafico, Comicon 2006), Les Gens le Dimanche – Atrabile 2004, Le variazioni d’Orsay – Coconino 2015 e la raccolta di storie brevi I giorni della merla – Coconino 2016 . Collabora con le sue illustrazioni per The New Yorker, Le Monde, Vanity Fair, Feltrinelli, Einaudi, La Repubblica, Sole 24 Ore, Edizioni EL, Fabbri, Internazionale, Il Manifesto, Rolling Stone Magazine, Les Inrocks, Nathan, Bayard, Far East Festival. Manuele vive e lavora a Parigi.

In occasione di Lucca Comics & Games 2017, in cui l’autore ha presentato il suo artbook L’ora dei miraggi per la neonata Oblomov, abbiamo rivolto alcune domande all’autore, relative soprattutto al suo stile di disegno.

Seguendo la tua pagina ho notato la tua attenzione ai materiali che utilizzi nel disegno, che sembrano essere ulteriori protagonisti delle tue storie nel plasmarle, influenzandoti non poco nelle scelte. In un passaggio de L’ora dei miraggi, inoltre, fai una riflessione molto interessante sulla possibilità di creare da zero dei veri e propri universi attraverso la tempera.
Quanto è determinante per te la scelta dei materiali e quanto influenza il tuo disegno?
Per me è un’idea che arriva subito, è proprio un’immagine, arriva ancor prima della storia e dei personaggi. Quando ho fatto L’intervista, per esempio, c’era questo incidente di macchina in bianco e nero che ho realizzato senza un perché in particolare. Forse lo avevo visto in alcuni film.
Successivamente, cerco dei materiali che mi possano portare il più velocemente possibile a realizzare quell’idea che ho in mente. Se per esempio è un cielo nuvoloso scuro, prendo il carboncino, sennò utilizzo un’altra tecnica.
Dunque da questo punto di vista la scelta del materiale determina tantissimo le mie scelte, perché definisce non solo i disegni ma tutto l’ambiente del fumetto.
Parto quindi da un’immagine che ho in mente e poi cerco un materiale che mi permetta di arrivare il più vicino possibile all’immagine che ho pensato. Riprodurla alla perfezione non è possibile, ma cerco di avvicinarmi.

Tempo fa lessi una tua testimonianza sul bellissimo Meka Chan di Claudio Acciari edito da Bao, e poco dopo mi sono ritrovato per le mani il tuo I giorni della merla, edito per Coconino, e nella storia finale, Gare de l’est, c’erano dei meravigliosi combattimenti fra robot nel bel mezzo di Parigi e la colorazione rendeva il tuo disegno totalmente differente dal solito. Per quella storia ti sei servito di uno studio di colore di Acciari, mi spiegheresti la genesi di questa storia?
La storia è andata così: sono un grandissimo ammiratore di Claudio Acciari e dei lavori che realizza, soprattutto di come utilizza il colore, perché lui possiede una solida formazione di base da pittore, per cui utilizza il colore al computer in maniera molto sicura.
Siccome condividiamo la passione comune dei cartoni animati anni ’70 e dei robot, gli avevo chiesto se avesse avuto voglia di realizzare questo studio di colore, e lui in una notte ha fatto un lavoro incredibile: invece di colorare le tavole ha praticamente ridisegnato le tavole a colori, e io quando ho visto quel lavoro ho pensato che avrei voluto pubblicare il suo studio piuttosto che la mia storia, perché non sarebbe mai venuta bella come l’aveva fatta lui; e forse dovrò farlo un giorno… Pubblicare questi studi che lui ha realizzato per me e di cui poi mi sono servito per colorare la storia.
Non ho tanto da dire, se non che ho grande ammirazione per la sua sensibilità, per cui se mai dovessi appoggiarmi a qualcun altro, per esempio se un giorno farò un cartone animato, sicuramente chiederò il suo aiuto.

Ne L’intervista hai utilizzato invece un bianco e nero potentissimo. Cosa ti aveva spinto in quel periodo a disegnare un fumetto a quel modo?
Penso che quando lavori tanto col colore dopo un po’ ti intossichi… non fisicamente (ride), ma nel senso che i colori prendono tanto spazio all’interno delle storie, sono molto emotivi, sono più emotivi del disegno stesso. Ad esempio, se pitturi la tua camera di giallo, dà subito un’emozione, se la pitturi di viola otterrai un’altro tipo di emozione. È una cosa che entra endovena.
Per cui ogni tanto i colori prendono troppo spazio e c’è bisogno di ritornare al bianco e nero, al disegno puro, fatto di una semplice linea.
Penso che sia normale per chi utilizza tanto i colori servirsi di quest’alternanza col bianco e nero. Per L’intervista devo dire che ero molto (e lo son tuttora) dentro un’estetica di fotografia e film in bianco e nero, certe fotografie di Francesca Woodman, Cindy Sherman, i film in bianco e nero di Michelangelo Antonioni, ma anche tutta quella specie di scienza del bianco e nero che il cinema ha usato fino a quando non è stata inventata la pellicola a colori.
La pellicola in bianco e nero che ha una gamma molto vasta di vibrazioni e luci, e mi piaceva riprodurre un fumetto basato non sul bianco e nero classico che si è sempre visto nei fumetti, ma su un bianco e nero più plastico, più cinematografico.

In una tua opera ormai datata, Rosso Oltremare, il colore rosso imbeveva ogni pagina e il tuo stile di disegno era ben lontano da quello visto in opere successive. Sembravi utilizzare dei pennelli molto più spessi, i volti erano essenziali e le espressioni grottescamente caricate e fortemente teatrali. Perché hai operato queste scelte stilistiche e hai deciso di dare una funzione non meramente estetica, ma anche narrativa al colore scelto?
Quando ho realizzato Rosso oltremare quello era il primo colore che avessi mai utilizzato nel fumetto, perché in precedenza avevo sempre lavorato in bianco e nero. Non avendo ancora l’esperienza per fare un’opera a colori, ho fatto quella scelta.
Come hai ben detto prima, a me piace fare del colore uno strumento narrativo, non una decorazione, mi piace che il colore abbia una storia.
Io vengo dalla scuola di Lorenzo Mattotti, per cui ho iniziato da un colore per vedere cosa succedeva e ho cercato di lavorare con tutte le combinazioni possibili fra bianco (perché c’è anche il bianco!) nero e rosso.
Ero in un periodo in cui mi sentivo un po’ stufo di certe idiosincrasie e leziosità del mio disegno, per cui, come faccio spesso, ho cercato di spaccare tutto, di prendere pennelli grossi che non potessero realizzare dettagli e con cui non avrei potuto lavorare minuziosamente, perché volevo andare direttamente all’essenziale, tipo due buchi per gli occhi e una linea per il naso.
È una cosa che ogni tanto mi ritrovo a fare: quando diventi esperto di una certa tecnica è bello prendere in mano degli strumenti che non sai usare e dir le cose solo attraverso quelli. Molto lo devi lasciare da parte e tieni solo l’essenziale.
È stato un cambiamento insomma, ho lavorato soltanto con due pennelli: uno molto grosso e uno un po’ più fine, però spelazzato, per non poter fare una riga dritta.

In che modo invece i tuoi studi d’architettura hanno influenzato il tuo disegno? Cosa è cambiato rispetto a prima?
È cambiato molto perché dopo gli studi di architettura ho avuto il vantaggio di aprirmi a tante discipline diverse, come anche la fotografia, la storia dell’arte e dell’architettura, che mi hanno fatto perdere certi automatismi che in genere i disegnatori di fumetti hanno, tipo fare le cose “alla maniera di” questo o di quell’altro.
Disegno fumetti da quando son bambino, ma quando ho ricominciato dopo la pausa degli studi di architettura il mio disegno era pieno d’aria, in un certo senso, e questa era una sensazione bella, vagava, non si fermava. Ricordo che negli anni ’90 c’erano sempre dei disegnatori che facevano dei ricciolini à la Tim Burton o cose simili, e io non volevo più vedere quelle cose lì, non volevo più vedere gli occhioni, e quelle inquadrature. In questo l’architettura mi ha aiutato enormemente per fare un po’ di piazza pulita.

Per una serie di illustrazioni, racconti ne L’ora dei miraggi, partivi da un colore per far poi uscire fuori “come dai fondi del caffè” il tuo disegno. Che ruolo ha per te l’improvvisazione nel tuo lavoro?
Sai, il disegno è una materia molto vasta, gli approcci che puoi adottare sono molteplici e dipendono da cosa stai facendo e dal periodo della tua vita. Ci sono dei periodi in cui diventi molto minuzioso, in cui vuoi costruire per bene le cose, e altri momenti in cui privilegi il gesto o l’errore. Improvvisare fa parte di una certa cura del disegno, perché la pigrizia ti porterebbe a cercare documentazione su internet, scaricare foto, ricopiare quello che ha già fatto un altro autore. Questa può essere considerata pigrizia nel disegno, non è necessariamente un pregio quello di sapersi documentare: potrebbe essere che stai girando attorno a un problema che non sai risolvere.
Ogni tanto l’improvvisazione totale, il sapere che puoi buttare e sbagliare tutto, è una grandissima fonte di scoperte.

Ne L’ora dei miraggi rivendichi la bellezza della libertà di esserti buttato in ogni tipo di progetto, senza mai implicare uno svendere la tua arte. Questa riflessione è forse un passo che manca ad alcuni disegnatori, spesso ci si perde nell’orgoglio e si rifiutano delle esperienze potenzialmente costruttive.
Quando ho incominciato a fare questo mestiere, anche con l’illustrazione, era molto difficile vivere con questo lavoro; non dico impossibile, ma davvero ce la facevano in pochi. Ora è cambiato molto, non so quanti riescano a viverne, però è cambiata di molto la situazione.
Siccome in casa mia non c’erano artisti e la mia passione veniva vista come una stravaganza, ogni cosa che realizzavo la portavo come testimonianza del fatto che potessi farcela, che non era un hobby della domenica ma che era invece una passione vitale.
Questo mi ha portato a fare tanti lavori, anche quelli in cui il disegno diventa molto tecnico, come il disegno della sezione di una porta o una finestra, come architetto. E anche lì devo dire che è stata un’esperienza che mi ha dato molto, perché quando poi disegni una porta per un fumetto sai davvero cos’è, sai come è fatta. Magari il centro della vignetta non è quella porta, ma non stai copiando la porta di qualcun altro, la stai realizzando tu stesso. Lo stesso discorso può valere per un albero, una sedia o una persona nuda.
Per esempio la nudità nel fumetto, non perché voglia rivendicarmi dei meriti, ma fino a un certo punto la donna nuda era sempre la strafiga con le tettone e l’uomo era quello che usciva dalla palestra; nessuno pensava mai a disegnare una signora di cinquanta anni. Perché non si potrebbe fare nel fumetto? Secondo me bisognava farlo.
Nella pittura, ma anche nel cinema, quante scene esistono di sesso non convenzionale o comunque non legato a questa estetica da “bodybuilder” del corpo?
Questo lo rivendico soltanto per me, è una piccola scoperta, sono contento di aver aperto un po’ a questa visione laterale della nudità nel fumetto.

Di nuovo ne L’ora dei miraggi fai un’affermazione non banale: disegnare la felicità è molto più difficile che mostrare la sofferenza. In questo periodo di nichilismo galoppante e pessimismo che caratterizza anche le produzioni più diffuse, in cui i personaggi vengono martoriati dai loro autori, mi piacerebbe capire meglio questa tua affermazione.
A mio avviso questa non è una questione di ottimismo o pessimismo. In realtà questa riflessione mi è venuta in mente perché me lo ha detto Mattotti. Parlando con lui mi ha riferito questa cosa: “Sai, dopo quarant’anni di disegno ho incominciato a disegnare con la felicità, non necessariamente la felicità, ma con la felicità.”
Per un disegnatore molte volte sono invece la rabbia, la tristezza e la frustrazione che danno la molla per rifugiarsi nel disegno.
Non saprei spiegarti per bene per quale motivo è più difficile disegnare la felicità, ma io sento davvero dentro che è così, forse perché sei più vulnerabile quando la disegni. Disegnare la felicità vuol dire non aver paura di sbagliare e non aver paura del giudizio degli altri, mentre se ti rifugi in una certa estetica del dolore sai di certo che puoi trovare terreno più fertile nei lettori.
Credo che disegnare la sofferenza e il dolore sia comunque importante, è il pane quotidiano del disegnatore e dell’arte. L’arte è un’espressione vitale, e in quanto tale deve registrare tutto, però deve registrare anche la gioia.
Penso ad artisti come Henri Matisse che sono riusciti, alla fine della loro vita, a darci grandissime espressioni di gioia pittorica: La Danza di Matisse, se ti trovi di fronte l’originale affresco sul muro, è una piccola deflagrazione di gioia nel petto, perché se pensi a questo vecchietto che col rullo disegna queste donne giganti che danzano, è di una bellezza e gioia vitale abbastanza sconcertante.

Parliamo della tua recente esperienza da illustratore come copertinista di Mercurio Loi. Innanzitutto da cosa è nato il tuo coinvolgimento?
Le copertine vengono studiate assieme ad Alessandro Bilotta? Su quali aspetti ti concentri nella fase creativa, da dove parti? Hai la possibilità di leggere le storie?
La collaborazione è nata quando Alessandro mi ha proposto di fare questa cosa ed io ho accettato perché mi pareva divertente come idea: io sono un lettore di supereroi e abbiamo molte cose in comune.
Sulle copertine, soprattutto le prime son state molto complicate, perché Bonelli è un universo a sé stante.
Certamente ne parliamo insieme, ma molte volte il fumetto non è ancora pronto. Ci sono già magari alcune pagine, però non posso leggere la storia, per cui me la racconta lui stesso. In certi casi troviamo un’idea che lui mi propone ed io trovo che sia disegnabile, in altri casi invece non la trovo realizzabile.
Ad esempio, per la storia attualmente in edicola disegnata da Sergio Ponchione mi era stato proposto di disegnare una specie di labirinto visto dall’alto, una sorta di vista assonometrica, che io non riuscivo però a vedere nella mia mente, per cui ho proposto un’idea semplicissima, e devo dire che alla fine mi han dato fiducia. Hanno accettato queste copertine, che forse per Bonelli sono un po’ anomale, però penso che quando mi avevano chiamato si aspettassero anche immagini differenti dal solito.

Oriente ed occidente: seguendoti spesso ho il ricordo di un incontro a cui non hai potuto partecipare con Marino Neri su certo fumetto supereroistico, di cui apparivi sincero estimatore di vecchia data. Allo stesso modo negli ultimi tempi ti ho visto acquistare con orgoglio alcuni volumi di storie di Satoshi Kon. Cosa ti affascina di questi due mondi così lontani?
A me piacciono molto i fumetti, li leggo da sempre. I manga li ho letti da fine anni ’80 fino ad adesso. Alcune cose le amo ed altre non mi interessano, ad esempio di serie come Dragon Ball o One Punch Man non ho mai letto nemmeno un numero, perché appartengo alla generazione di lettori di Katsuhiro Otomo, Hayao Miyazaki, Satoshi Kon (appunto), Osamu Tezuka, e tutto l’underground giapponese. Mi piace un po’ di tutto sì, sono anche molto legato al fumetto americano e ho la fortuna di lavorare con molti colleghi le cui opere mi piacciono moltissimo, per cui le leggo prima di chiunque altro (ride). Insomma, sono un appassionato di fumetti.

Su cosa stai lavorando in questo periodo?
Sto lavorando, fra le tante piccole cose, al mio nuovo fumetto, che è una storia ambientata nello stesso universo de Lintervista ma non è la continuazione de L’intervista e potrà essere letta singolarmente.
Si svolgerà a Venezia, nel futuro, ed è una storia molto d’azione rispetto alle precedenti che ho fatto. Ci sono molti meno dialoghi e più pericolo, mi cimento un po’ con una storia più avventurosa, ed è bellissimo per me, però ci vuole ancora un po’ di tempo prima che esca!

Ringraziamo sentitamente Manuele Fior per la sua enorme gentilezza nel rispondere alle nostre domande.

L’intervista è stata svolta a Lucca nel giorno di venerdì 3 novembre 2017.

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