A Edimburgo, nei quartieri più poveri stanno sparendo senza tetto e clochard. Dove sono finiti?
“Non sono un detective” puntualizza Samuel Stern all’amica/confidente Penny, nonché volontaria in una associazione di soccorso agli homeless, che cerca il suo aiuto per capirne di più sulle misteriose sparizioni. Stern non è un detective, ma finisce comunque per indagare e scoprire, ancora una volta, quanto presenze demoniache e sofferenza umana siano legate a doppio filo. Il quinto episodio, La fine della coscienza, della nuova serie della Bugs Comics si configura come un solido e fin troppo canonico “hospital drama” in salsa horror, con un finale teso a enfatizzare la componente psicologica della serie.
Al di là degli esiti finzionali all’interno del singolo racconto, la rivendicazione dell’eroe demonologo di non essere un investigatore tout court sembra, in fondo, l’ennesima, presa di distanza espressiva degli autori dalla matrice originale, cui più volte è stato accostato il detective dell’incubo Dylan Dog. Come dire: “partiamo da quella cosa lì, ma non vogliamo essere la copia carbone di quella cosa lì”. In questo senso, soprattutto negli ultimi due episodi, c’è il marcato tentativo di sovrapporre a livello di azione e genere, una connotazione più forte sul piano empatico.
Lo stesso tentativo di caratterizzarsi in maniera originale si riscontra nella grafica, in particolare nell’impaginazione, ovvero nella “customizzazione” della classica gabbia bonelliana. Se i layout restano debitori dell’impostazione tradizionale a sei vignette per tavola/pagina, è altresì vero che tutti i disegnatori alternatisi finora sui vari episodi della serie, ne hanno ricercato un’interpretazione abbastanza autonoma, ibridata con soluzioni provenienti per lo più dal fumetto americano. Alla prevalenza tipica nelle testate bonelliane più tradizionali, di traiettorie di lettura legate all’impostazione planare delle due vignette giustapposte in una striscia, la serie di Bugs Comics risponde con frequenti layout a sviluppo verticale e, in alcuni casi, addirittura splash page ma senza un’effettiva omogeneità nei cinque episodi.
In sostanza, mentre la gabbia in ambito Bonelli, funziona, di solito, come forte meccanismo di omogeneizzazione tra stili anche molto diversi dei disegnatori, in Samuel Stern questo finora non è accaduto. Al contrario degli albi Bonelli, dove la gabbia ricorrente assicura all’andamento grafico delle storie un “ritmo comune” – rafforzando quel valore di “leggibilità” così caro a Sergio Bonelli – nella serie di Bugs Comics, finora si riscontrano declinazioni abbastanza disomogenee da un episodio all’altro.
È troppo presto, in termini seriali, per capire dove porterà questo tentativo di smarcarsi (o almeno caratterizzarsi in modo originale), rispetto ai modelli di partenza fumettistici e di genere.
Purtroppo, ad oggi, non esiste uno studio organico dei “bonellidi”, ovvero di tutti quei fumetti popolari da edicola che, negli anni, hanno cercato di replicare formati e successo di via Buonarroti. Se qualche (benemerito) critico s’imbarcherà un giorno nell’operazione, avremo finalmente la conferma analitica di un dato che, a livello empirico, appare ormai evidente a chi frequenti queste pubblicazioni. La maggioranza dei “bonellidi”, limitandosi alla mera replica, in molti casi maldestra, dei moduli bonelliani, li confina allo statuto di banali, quasi parassitari, cloni di Tex & co. Ma esiste anche un certo numero di eccezioni evolute, intelligenti, che hanno saputo nel tempo valorizzare la necessità di tradurre/tradire il modello di Casa Bonelli in qualcosa di originale e autentico, basti pensare a Lazarus Ledd, o più di recente a Valter Buio.
Anche in questi casi, esattamente come in quello di Samuel Stern, la parentela ricercata con l’espressività bonelliana (caratteristiche grafiche, configurazioni narrative, etc.) è esibita – potremmo dire “fisiologica” –, soprattutto negli episodi iniziali delle serie e nell’allestimento del mondo narrativo. L’efficacia della traduzione/tradimento sta nel mantenere visibili, nel corso della serie, le somiglianze – su tutte la fatidica/famigerata “leggibilità”, vero e proprio architrave espressivo di via Buonarroti – e al tempo stesso distaccarsene progressivamente, valorizzando alcune novità (grafiche, drammaturgiche, etc.) che sostanzino agli occhi del lettore il piacere della differenza.
D’altronde, il discorso fatto non riguarda solo la coltivazione dei bonellidi nell’orto del vicino. Se la piantagione Bonelli ha saputo estendere nei decenni i confini del proprio immenso immaginario disegnato – da Tex Willer a Dragonero – l’ha fatto proprio sulla base di questo positivo processo di germinazione per somiglianza/differenza dei suoi personaggi.
Per dirla in soldoni, Samuel Stern non dovrebbe “vergognarsi” di essere etichettato come parente povero – per scelta commerciale o di genetica fumettistica – di Dylan o Harlan, quanto preoccuparsi di farsi apprezzare nel tempo come “il cugino Samuel”.
Ecco, immaginiamo ad esempio, che nel prossimo episodio della serie, Samuel e Padre Duncan, prendano un treno e percorrano i quasi 700 km che separano Edimburgo da Londra, per chiedere aiuto a un ben noto inquilino di Craven Road… Lo troveremmo assurdo? Oppure ne saremmo incuriositi? Oppure, ancora, la cosa ci lascerebbe indifferenti? Le risposte sono tutte legittime e, in fin dei conti, delineano lo stato transitorio della serie Samuel Stern oggi, dopo cinque episodi.
Abbiamo parlato di:
Samuel Stern #5 – La fine della coscienza
Gianmarco Fumasoli, Massimiliano Filadoro, Luca Colandrea
Bugs Comics, marzo 2020
96 pagine, brossurato, bianco e nero – 3,50 €