Kingsman al giro di boa, il futuro del DC Universe

Kingsman al giro di boa, il futuro del DC Universe

In questa puntata di Nuvole di Celluloide un'analisi del franchise di Kingsman dopo l'uscita del sequel e il futuro dell'universo DC Comics al cinema.

Kingsman: The Golden Circle

Il buon debutto al box office americano, che ha segnato un sostanziale incremento rispetto al primo capitolo, ha fatto vincere nuovamente la scommessa della Fox per quanto riguarda il franchise di Kingsman ma ha anche fatto suonare il campanello d’allarme per l’accoglienza non proprio calorosa da parte della critica e degli addetti ai lavori per il nuovo film.
Questa freddezza è stata messa in luce nei giorni scorsi da alcuni articoli, tra i quali è da citare quello di Graeme McMillan su The Hollywood Reporter, che ha sottolineato come Kingsman: The Golden Circle abbia in qualche modo abbandonato l’appeal che il primo film aveva suscitato nel pubblico e nella critica specializzata.

McMillan sottolinea i pregi del sequel, come il fatto che l’universo di finzione della pellicola sia stato ampliato con l’aggiunta degli Statesmen, ma anche quelli che a suo dire sono evidenti difetti, come l’avere riempito la pellicola della presenza di molte star annacquando quegli elementi che avevano reso un successo inaspettato Kingsman: The Secret Service con l’inserimento di qualcosa di più insidioso del box office: lo star power.

Il problema è, che Kingsman: The Secret Service del 2014 non è stato un film che è stato venduto sulla base del suo star power: anche se Michael Caine e Samuel L. Jackson erano presenti nel primo trailer, erano entrambi essenzialmente delle apparizioni cameo.
Secret Service ha funzionato perché ha giocato con delle mitologie esistenti provenienti da fonti familiari, riciclandole in qualcosa che era in parte un tributo e in parte una parodia parziale. Non era solo un riferimento a James Bond, chiaramente ovvio; ma c’erano collegamenti a più fonti diverse – penso ancora ci fosse più di un riferimento ai Thunderbirds – e anche il casting era metatestuale, con Colin Firth e Samuel L. Jackson che giocavano a farsi il verso. Confrontateli con Channing Tatum o Jeff Bridges in Golden Circle, dove entrambi interpretano praticamente chi ci si aspetterebbe che interpretino.

Questa diversità viene spiegata con il fatto che Kingsman: The Golden Circle , rispetto al primo capitolo, presenta una storia interamente originale. E proprio questo elemento, per McMillan, ha fatto sì che il sequel non rispettasse le regole che erano state poste nel lungometraggio precedente. E’ possibile che il sequel diretto da Matthew Vaughn abbia in qualche modo esaurito una freschezza che sarebbe rimasta intatta se non ci fosse stato un seguito?
Il regista è difatti al suo primo vero lavoro sulla lunghezza della trilogia così in voga a Hollywood, non avendo in passato diretto i capitoli 2 di altri franchise basati su albi a fumetti come X-Men e Kick-Ass.

Ma cosa non ha funzionato per gli addetti ai lavori, oltre alla presenza di molte star? Una recensione del New York Daily News, pubblicata nei giorni scorsi, ha messo in luce alcuni argomenti che possono aiutare a capire cosa sia stato mal digerito rispetto al primo film.

Esistono troppi personaggi di supporto, troppi gadget, troppe sequenze di combattimento in slow motion ispirati a Matrix, troppi buchi di trama anziché colpi di scena e il tutto è aumentato da un messaggio politico sulla guerra contro la droga.

Questa frase sembra mettere al centro uno dei problemi principali dei sequel, ovvero una sovraesposizione del franchise stesso, che nel caso di Kingsman assume un significato negativo ben più importante rispetto ad altri prodotti di questo tipo. Nel 2014, la classificazione Rated e la presenza di una giovane stella emergente come Taron Egerton, nonché la capacità di presentare il mondo dello spionaggio in maniera dissacrante e originale, avevano di fatto sorpreso perché il progetto aveva al centro la diversità rispetto ad altri film ispirati ai fumetti, ma anche in generale.

Il sequel di Kingsman, per la critica USA, pare invece non volere percorrere più quella strada sperimentale e inedita, ma allinearsi allo status quo, mantenendo comunque un target adulto. Sarà questa una strada percorribile o per Eggsy e soci è arrivato il momento di rilanciarsi pensando alle proprie origini?

Il futuro del DC Universe

Hanno sollevato molto interesse, nei giorni scorsi, le dichiarazioni rese dalla presidente di DC Entertainment Diane Nelson in un lungo articolo apparso su Vulture inerenti il futuro dell’universo cinematografico DC Comics e, soprattutto, la sua costruzione attraverso film che non avranno una vera e propria connessione con l’intero universo.

A colpire sono state soprattutto alcune frasi, proprio della Nelson, che focalizzano l’attenzione su un elemento che, già nei mesi scorsi, abbiamo sottolineato su questa rubrica: la volontà della Warner di mettere al centro i registi e la loro visione del DC Universe.

Andando avanti, vedrete che l’universo dei film DC è un universo, ma che viene dal cuore del regista che li sta creando.

In questa unica frase vi sono decine di sfumature che sottolineano una strategia globale molto più soft rispetto a quella diretta e “prepotente” dei Marvel Studios, ma che non significa che la Warner abbia intenzione di sminuire il proprio progetto ma anzi di regalare al pubblico strade nuove.

La condivisione, gli easter egg, i cameo che siamo stati abituati a vedere nei film Marvel hanno certamente regalato al pubblico e al mondo del cinema qualcosa di nuovo rispetto al passato, ma hanno anche da un certo punto di vista strozzato la creatività dei registi stessi e creato una spada di Damocle per altri progetti facenti parte del quadro generale, soprattutto se ci riferiamo a quelli televisivi completamente messi in un angolo e caduti vittima delle grandi aspettative generate dai film sul grande schermo, soprattutto nel campo del network ABC.

Wonder Woman ha dimostrato che è possibile realizzare un film ambientato nello stesso universo cinematografico di altri personaggi, senza però dovere piegare le esigenze narrative e la visione del regista stesso alla rincorsa della continuity e dei collegamenti a tutti i costi. Difatti, gli elementi di connessione presenti nella pellicola interpretata da Gal Gadot sono praticamente inesistenti, ad eccezione della veloce comparsa di un furgone della Wayne Enterprises nella parte iniziale.

A differenza dei Marvel Studios, quindi, che con il recente Spider-Man Homecoming hanno sovraesposto la presenza di easter egg e citazioni solo per sottolineare costantemente che l’arrampicamuri faceva parte del MCU, la Warner con Wonder Woman ha scelto di non intraprendere questa strada, che costringe non solo i registi ma anche gli sceneggiatori, a salti mortali che fanno solo male alla gestione della storia.

Matt Reeves, Joss Whedon, James Wan e Patty Jenkins, attualmente i nomi più forti per quanto concerne il campo registico della Warner, hanno bisogno della totale libertà narrativa per gestire personaggi come Batman, Bat-Girl, Aquaman e Wonder Woman e riuscire così a realizzare delle storie che si svolgono ovviamente in un universo, senza il bisogno che questo sia sottolineato continuamente.
Questo concetto si accentua se pensiamo anche al nuovo progetto che porterà il Joker (e forse altri personaggi) sul grande schermo in una versione giovanile, totalmente scollegato dal resto dell’universo filmico. La strategia della major è quindi quella di raccontare e fornire visioni diverse di un unicum narrativo che possa fare la differenza. Se questa scommessa avrà successo, solo il tempo potrà dirlo.

2 Commenti

1 Commento

  1. Anders Ge

    2 Ottobre 2017 a 15:46

    Io apprezzo questa visione della cosa, salvo che poi non comincino a farci mille “crisi” per unificare tutto, come nei comics…

    • la redazione

      4 Ottobre 2017 a 11:54

      Tra reboot e “what if?” non siamo poi così lontani! Aspettando l’Amalgam! ;-)

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