Paolo La Marca nasce nel 1983 a Reggio Calabria, dove vive tuttora. Affascinato dalla cultura nipponica si indirizza verso la storia del manga, recandosi in Giappone e approfondendo l’opera delle principali figure del gekiga. Dopo gli studi diventa docente di lingua e letteratura giapponese presso l’Università degli studi di Catania e insegnante di lingua e cultura giapponese presso l’Università della Calabria e la Scuola Superiore per Mediatori Linguistici di Reggio Calabria. Contestualmente porta avanti la sua analisi della letteratura moderna e contemporanea giapponese, con particolare attenzione alle opere di autori come Yukio Mishima, Yumiko Kurahasi e Toshiko Tamura. Appassionato dell’opera del mangaka Kazuo Kamimura, inizia nel 2014 una collaborazione con l’editore J-Pop per la traduzione, l’adattamento e i redazionali delle edizioni italiane di alcune opere dell’autore: Lady Snowblood (del 1972, da noi nel 2014), Una gru infreddolita – Storia di una geisha (1974, da noi nel 2016, per la prima volta al mondo nell’edizione integrale), Lady Snowblood: La rinascita (1973, in Italia ancora nel 2016). Nell’Ottobre 2016 cura, presso la fiera di Lucca Comics & Games, la mostra Kamimura Kazuo: La semplicità della bellezza, esponendo le tavole originali dell’autore, concesse dalla figlia Migiwa Kamimura. Per il 2017 è prevista l’edizione italiana della principale opera dell’autore, Dosei Jidai, da noi con il titolo L’età della convivenza.
Benvenuto su Lo Spazio Bianco, Paolo. Quali motivi hanno spinto J-Pop a pubblicare in Italia un autore classico come Kamimura? È stato l’effetto inerziale impresso dal successo al cinema di Kill Bill – che come sappiamo è stato influenzato da Lady Snowblood – o altro?
Prima che partisse questo progetto con J-Pop avevo già provato a proporre Kamimura ad altre case editrici, ma con scarsa fortuna. A ogni modo, attraverso questi tentativi era nata una sinergia con Migiwa Kamimura, la figlia dell’autore, per portare in Italia i lavori del padre. Proprio lei voleva che il primo a essere pubblicato fosse Lady Snowblood, sia perché era il titolo più conosciuto all’estero, sia per il legame, indiretto, con l’opera cinematografica di Quentin Tarantino. Siamo infine riusciti a raccogliere alcune proposte da vari editori, e tra tutte è stata scelta quella di J-Pop. Il mio complice in questa avventura è Jacopo Costa Buranelli, line editor della casa editrice e anche lui fan di Kamimura.
Come sta avvenendo la scelta dei titoli da pubblicare? E quindi perché proprio Una gru infreddolita dopo Lady Snowblood?
Una gru infreddolita è stata proposta da J-Pop, che aveva già in mente di pubblicarlo. Una scelta editoriale che ha avuto un riscontro di pubblico oltre ogni aspettativa. Oltre a essere un volume unico che racchiude alcuni temi chiave legati all’universo di Kamimura (bellezza, eleganza, tristezza, malinconia), Una gru infreddolita ha risvegliato l’interesse di noi italiani per figure archetipiche come quella della geisha.
D’altra parte, però, il genere è diverso da Lady Snowblood, non ci sono azione né combattimenti.
Sì, ma forse si sbaglia a pensare che Kamimura sia solo un autore d’azione. C’è un altro suo titolo affine a Lady Snowblood che è Beni tokage (Lucertola rossa), sempre ambientato in epoca Meiji. Ma se diamo un’occhiata alla produzione di Kamimura, ci accorgeremo che i manga “d’azione” sono in realtà pochissimi. Personalmente preferisco il Kamimura “poetico” (Shinanogawa; Rikon kurabu; Seishun yokocho; Kyojin kankei), quello “erotico” (Aku no Hana; Inkaden) o addirittura “scanzonato” (Sachiko no sachi; Ryo no joshiki): tutte opere che un giorno mi piacerebbe far conoscere ai lettori italiani. Qui abbiamo letto pochi fumetti erotici giapponesi, a volte interessanti come Urotsukidoji, o più “leggeri” come La clinica dell’amore, fino alla visione addirittura esasperante e molto “sudata” di Tatsuya Egawa, ma il tipo di erotismo delicato, ma a tratti anche violento, un po’ alla Nagisa Oshima, proposto da autori come Kamimura non si è ancora visto.
Inoltre, sono particolarmente contento di aver potuto esporre alla mostra di Lucca Comics 2016 le tavole di un lavoro che spero pure di portare in Italia, Onryo jusan’ya (Le tredici notti degli spiriti vendicativi). Si tratta di tredici storie legate al rancore e al rimorso, tra spettri e donne letali, con continui riferimenti culturali e letterari (uno su tutti, la storia di Oiwa dallo Yotsuya kaidan). Un’opera che darà un’ulteriore visione dell’autore.
Quindi, per tornare al cinema, un immaginario alla Nobuo Nakagawa?
Sì, ma più in generale un immaginario legato al repertorio della letteratura classica e del folklore.
Per lungo tempo in Italia il manga classico degli anni Sessanta/Settanta è stato trascurato, le pubblicazioni del genere sono sempre apparse esperimenti isolati. Ora stanno avvenendo con più continuità e si avverte un’inversione di tendenza: che cosa ha determinato secondo te questo cambio di passo?
Forse bisognerebbe chiederlo ai lettori. Non credo però si tratti solo di curiosità, ma di desiderio di scoprire nuovi modi di raccontare e di disegnare. È un mondo quasi del tutto inesplorato, con titoli ancor oggi attuali e freschissimi. Mi viene in mente, ad esempio, la bella collana curata da Vincenzo Filosa per i tipi della Coconino. Ben vengano progetti editoriali del genere. Oltretutto, mi pare che il lettore stia premiando queste scelte. Anche Kamimura ha avuto un sorprendente riscontro di pubblico. E di questo non posso che esserne contento.
Fra l’altro, approcciando il periodo in questione, scopriamo che il Giappone, negli anni Sessanta/Settanta, ha visto nascere un dibattito intellettuale intorno alla domanda se i fumetti dovessero essere o meno considerati degni di nota. È uno spunto molto interessante, abbastanza controcorrente rispetto all’idea che avevamo in Italia del Giappone come la “patria dei fumetti”. Parliamo quindi dello scenario in cui si è determinato il passaggio che ha portato all’accettazione intellettuale del fumetto.
Il cambiamento avviene proprio fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta. Fino a quel momento i fumetti giapponesi erano considerati, un po’ come accaduto in Italia, né più né meno, delle letture per l’infanzia e l’adolescenza. La parola d’ordine era “intrattenere”, basti pensare alle opere di Osamu Tezuka, o di Shotaro Ishinomori dei primi anni: erano indirizzate a una fascia precisa di lettori che arrivavano al massimo a quindici anni d’età.
Quindi anche quelli che noi oggi consideriamo dei maestri del manga?
Sì, all’epoca riscuotevano consensi di pubblico ma non di critica. I genitori ne vietavano la lettura ai figli e gli scaffali delle librerie ospitavano saggi particolarmente controversi e provocatori.
Il cambio di prospettiva avviene nel momento in cui emerge un nuovo modo di fare fumetto, con il gekiga, che pure, all’inizio, ha fatto fatica a imporsi come modello di narrazione alternativa al manga. Ricordo ad esempio un volume di Mitsuo Matsuzawa dal titolo Gekiga – Nihonjin no atama o dame ni shita manga (più o meno Il gekiga – Il fumetto che ha rovinato la testa dei giapponesi). Per fortuna si trattava di voci isolate, ma la stampa andava a nozze con questo genere di pubblicazioni. Poi però, da un lato il mercato dei negozi di libri a prestito, i kashihon’ya, dove si sono formati gran parte di questi autori, e dall’altro il consolidamento di alcune riviste come GARO e COM, hanno dato modo ad alcuni artisti di sperimentare, puntando l’attenzione non a cosa raccontare, ma a come raccontare. E i consensi non sono tardati ad arrivare, sia da parte della critica che dello stesso establishment letterario, che fino a quel momento aveva ignorato il fumetto. Mi vengono in mente alcuni articoli o saggi di autori come Shuji Terayama o Takaaki Yoshimoto, padre della scrittrice Banana Yoshimoto e famoso critico letterario, sui fumettisti che emergevano in quegli anni, non solo nell’ambito del gekiga, ma anche in quello dello shojo manga, quindi nomi come Moto Hagio o Yumiko Oshima. Perfino Yukio Mishima amava moltissimo le opere umoristiche di Fujo Akatsuka, quali Osomatsu-kun, o quelle di Hiroshi Hirata. Mi piace sempre citare una definizione di Terayama – che peraltro ho già riportato nella postfazione di Una gru infreddolita – e che secondo me riassume magnificamente il clima che era nato attorno a questa nuova generazione di artisti: al di là di qualsiasi definizione (shojo, shonen, seinen, eccetera), era finalmente avvenuto il passaggio da un fumetto di “bambole” a un fumetto di “esseri umani”.
La figura di Kamimura come si inserisce in questo scenario?
Kamimura in realtà non voleva fare il fumettista: nasce come illustratore e aveva studiato arte all’università di Musashino. In particolare era interessato a un artista romantico di inizi Novecento, Takehisa Yumeji, che ha spesso omaggiato nelle sue opere, sia realizzando delle biografie (Kikuzaka hoteru; Yumeji) sia prendendone in prestito alcuni elementi decorativi/artistici. Il suo debutto nel mondo del fumetto avviene un po’ per caso, in un periodo in cui non trova lavoro come illustratore. Viene contattato da una rivista per realizzare un breve manga umoristico (Kawaiko Sayuri-chan no daraku) sullo stile dei comics americani e accetta con entusiasmo. Pare che per questo progetto si sia impegnato tantissimo, realizzando ciascuna vignetta con cura, appunto, da illustratore. Da adolescente leggeva manga, ma non aveva mai pensato di costruirci sopra una carriera. Era più interessato alla letteratura, alla poesia, allo sport, alla musica. Il manga era per lui soltanto “lavoro” e in questo senso non si è mai rapportato alla scena sua contemporanea. Quando sono stato invitato a casa Kamimura dalla figlia Migiwa, non ho trovato un solo manga nella biblioteca paterna. Eppure, tra i tanti volumi, Migiwa me ne ha mostrato con orgoglio uno che conoscevo benissimo: si trattava del volume Bianca di Guido Crepax, presumibilmente comprato da Kamimura durante il suo breve viaggio in Italia. Crepax e Kamimura sono due autori che, sebbene nati e cresciuti in paesi diversi, hanno percorso – a mio avviso – strade molto simili, ricche di medesime suggestioni e interessi, legate a una concezione della tavola diversa dalle impostazioni tradizionali.
Verso il 1984, poi, Kamimura inizia gradatamente ad allontanarsi dal manga e a ritornare al suo amore di gioventù: l’illustrazione. Poco dopo – nel gennaio del 1986 – morirà a soli 45 anni. Per lui il fumetto è stato in definitiva un’attività di passaggio – se vogliamo anche abbastanza lunga – che gli ha permesso di portare avanti la sua passione d’illustratore e di guadagnarsi da vivere.
È interessante notare però come, pur essendo un illustratore, non tendesse a realizzare opere statiche, con quel senso di “slegamento” fra le vignette tipico di chi ha questa impostazione.
Kamimura è estremamente elegante e nella sua narrazione si avverte sempre un senso di continuità, di dinamismo. Inoltre ha un senso del ritmo incredibile, oltre che molto cinematografico.
Ecco, parliamo proprio del suo rapporto con il cinema, anche la figlia Migiwa cita in questo senso le opere del grande schermo in rapporto ai suoi lavori.
Il suo regista preferito era Yasujiro Ozu, di cui apprezzava il modo di inquadrare le scene, l’uso del grandangolo, le prospettive dal basso e in effetti molte sue tavole adottano punti di vista diversi rispetto a quelli tipicamente frontali del fumetto tradizionale. Se quindi vogliamo trovare qualche relazione sul cinema e i suoi fumetti, andrebbe ricercata nei film di Ozu (mi vengono in mente alcune tavole di Shinanogawa). Secondo me, però, ci sono state altre fonti di ispirazione e altri omaggi al cinema. Nel breve racconto Ran (Orchidea), Hideo Okazaki gli regala una sceneggiatura che è un chiaro “omaggio” (seppur non dichiarato) al film Viale del tramonto di Billy Wilder: Kamimura ne ripropone le stesse scene e le stesse inquadrature. Poi ha realizzato anche una versione gekiga di Plagio, un film italiano con Mita Medici; vari omaggi ai film di Marlene Dietrich (Marocco, su tutti) in Moga (Modern girl) e citazioni da Conoscenza carnale di Mike Nichols per Dosei jidai. Si era meravigliato infatti di come il film di Nichols potesse raccontare in modo così colloquiale argomenti come la sessualità o l’uso del preservativo. Da lì è nata l’idea di un’opera che fosse per il lettore uno specchio della quotidianità e permettesse di raccontare argomenti intimi con semplicità.
E alla sua uscita, Dosei Jidai ha scatenato polemiche, al di là del successo poi ottenuto?
No, non ci sono state polemiche, ma interesse e curiosità. Paradossalmente le polemiche sono nate quando è stata distribuita la versione cinematografica con attori in carne e ossa: la locandina mostrava infatti un nudo – di spalle – dell’attrice che interpretava Kyoko, Kaoru Yumi, decisamente inconsueto per una pellicola rivolta al grande pubblico.
Il manga ha riscosso un immediato successo. Nell’idea di Kamimura doveva durare solo pochi episodi, ma la crescente popolarità lo ha spinto a realizzarne ottanta! In breve tempo, L’età della convivenza era diventato un fenomeno sociale di vasta portata, un best seller da milioni di copie,con un terebi dorama, un 45 giri, un film. A oggi, è il manga più venduto e conosciuto in patria di Kamimura. Lo stesso titolo, Dosei jidai, era entrato nel lessico corrente di quegli anni, identificando tutte le coppie che, come Kyoko e Jiro, avevano deciso di vivere il loro amore liberamente, senza doversi sposare.
Che cosa resta oggi di Kamimura in Giappone?
Negli ultimi anni, in Giappone c’è stata una riscoperta di Kamimura, con continue pubblicazioni e ristampe di titoli introvabili o addirittura mai pubblicati in monografico.
Questa riscoperta di Kamimura in patria da quanto tempo sta avvenendo?
Le pubblicazioni che lo riguardano sono state sempre costanti, ma negli ultimi sei anni c’è stato un rinnovato interesse da parte delle case editrici (la collana Kamimura Kazuo Biblioteque del gruppo Mandarake, ad esempio), ma anche dei musei (la personale ospitata allo Yayoi Museum di Tokyo). Tieni presente, però, che un buon 60/70% delle opere di Kamimura non è ancora mai stato pubblicato in formato monografico. Io stesso, per riuscire a leggere alcune di queste opere, mi rinchiudo spesso – e con piacere – nelle biblioteche di Tokyo, prendendo in prestito le vecchie riviste di fumetti.
Si può capire quindi l’entusiasmo con cui Migiwa Kamimura ha accolto l’uscita italiana di Una gru infreddolita, l’unica edizione integrale al mondo. Pensa che vorrebbe farne una simile anche per il mercato giapponese! Per quanto riguarda gli originali di quelle tavole “perdute”, c’è da dire che qualcosa è stato ritrovato, ma c’è ancora del lavoro da fare. Il magazzino di Kamimura, infatti, sebbene ordinato, è pieno di materiale ancora da catalogare. Chissà che non saltino fuori tutte le tavole di quei due episodi.
Uno dei problemi con la sua opera è anche la difficoltà nel catalogare tutte le sue illustrazioni. Basti pensare che, soltanto per Young Comic, una rivista di gekiga, poi diventata di seinen manga, ne ha realizzate oltre 280! E poi altre ancora per le riviste e per le copertine di dischi, ancora oggi continuano a utilizzarle.
Parliamo ora delle sue figure femminili: a parte l’evidente bellezza, a colpirmi è la loro sottile malinconia.
Condivido in pieno. È un po’ il suo marchio di fabbrica: gli sguardi sognanti, l’incarnato un po’ pallido, le lacrime e quella sottile malinconia sono tutti elementi tipici di un momento della sua carriera che arriva intorno al 1975-76. Non che poi lo abbandoni, ma a un certo punto lui propone un nuovo modello di donna, che è un po’ un’amazzone. Esiste proprio un suo ciclo di illustrazioni chiamato delle amazzoni, con queste donne guerriere, combattive. Nella sua produzione Kamimura ha quindi voluto catturare diversi aspetti dell’essere femminile, da quello sognante, in abiti occidentali o giapponesi, a questo più combattivo, che è forse quello meno conosciuto.
In Lady Snowblood Kamimura è solo disegnatore, mentre in Una gru infreddolita si occupa anche dei testi. Ciononostante, è evidente la continuità autoriale fra le due opere, nell’afflato malinconico, nella visione pessimista che diventa anche romantica. Quindi, anche quando si occupava dei soli disegni non era un mero esecutore, ma anzi un autore che interloquiva parecchio con chi sceneggiava?
Dipende da chi era lo sceneggiatore. Con Kazuo Koike, che ha scritto appunto Lady Snowblood, aveva un ottimo rapporto. Koike inviava ogni settimana la sceneggiatura e Kamimura era libero di interpretare quelle pagine a suo gusto. Con Hideo Okazaki, invece, c’era un rapporto diverso: i due avevano un continuo scambio di idee (Okazaki era anche l’editor di Kamimura e lavoravano per la stessa rivista) dovuto anche all’amicizia che li legava. Ho avuto modo di leggere qualche sceneggiatura di Okazaki e devo dire che sono particolarmente dettagliate: in ciascuna pagina indicava parti diegetiche e dialogiche, oltre a descrivere gli scenari in cui era ambientata la storia.
Lavorava quindi su sceneggiature forti, con tanto di scansione della tavola in un preciso numero di vignette?
Anche qui dipende dai casi. Alcune sceneggiature sembravano pagine estrapolate da romanzi (mi riferisco a quelle di Okazaki). Per farti un’idea, ti consiglio di acquistare il volume Yumeji, da poco pubblicato da Mandarake. A causa del fallimento della rivista, il manga non è mai stato portato a termine e l’edizione giapponese ne propone per la prima volta il finale. Il penultimo capitolo mostra il processo creativo di Kamimura, con alcune tavole lasciate incomplete, con altre inchiostrate solo a metà, e altre ancora con i disegni ancora a matita. E poi c’è l’ultimo capitolo, quello mai realizzato da Kamimura, ma presentato ai lettori con la sceneggiatura di Okazaki. Quindi è possibile ricostruire ogni passaggio della lavorazione, dal testo scritto, ai primi tratteggi fino alla versione definitiva.
Come hai lavorato per l’adattamento dei testi? Mi colpisce la qualità e la scorrevolezza dei dialoghi italiani, in un’epoca dove l’esasperata ricerca della fedeltà all’originale (nei manga e negli anime) ha portato a risultati che rendono difficile la fruizione.
Non ti nascondo che ci lavoro tantissimo. Per me è un onore poter tradurre i manga di Kamimura e cerco di fare del mio meglio per presentarlo ai lettori. Devo anche ringraziare J-Pop che mi ha lasciato carta bianca su tutto e mi ha dato il giusto tempo per portare avanti il lavoro: solitamente, una traduzione passa prima dalle mani del “traduttore” e poi in quelle di un “adattatore” che rivede il testo e cerca di uniformarlo. Conoscendomi, non avrei mai permesso che qualcun altro riscrivesse i miei dialoghi. Era successo con Lady Snowblood, ma poi per fortuna l’editore ha lasciato le mie traduzioni sono mama (così com’erano). Ti confesso che quando lavoro mi piace anche leggere ad alta voce il testo per vedere se “funziona” in italiano. Bisogna considerare molti aspetti, l’età, l’estrazione sociale dei personaggi, e in generale la voglia di rispettare l’originale mantenendone le sfumature, ma in una forma che sia corretta.
Mi parli del periodo sperimentale di Kamimura, alla fine della sua carriera?
La produzione degli anni Ottanta può considerarsi sperimentale anche dal punto di vista degli strumenti. In realtà inizia già intorno alla metà degli anni Settanta, in opere come Sachiko no sachi quando Kamimura comincia a sperimentare l’aerografo. A parte questo, però, l’elemento più innovativo sono i temi: abbandonate le atmosfere nostalgiche e poetiche, Kamimura si cimenta con la commedia (il già citato Ryo no joshiki; Hyotan; Yacchare Tomato) o con la fantascienza, dove ritroviamo delle protagoniste femminili, ad esempio in 60 senchi no onna (Una donna a 60 centimetri di distanza) e Hoshi o machigaeta onna (La donna che aveva sbagliato pianeta). In questo caso sono aliene arrivate sulla Terra da altri pianeti e che si ritrovano a vivere nel Giappone di tutti i giorni, una come assistente di un autore di shojo manga e l’altra alla ricerca di un pianeta dove vivere. Sono donne che mostrano un nuovo carattere, più risoluto e determinato. Ogni tanto, però, ritorna improvvisamente la malinconia.
Seppur interessanti, credo che queste opere non raggiungano comunque i livelli eccelsi di Shinanogawa (Il fiume Shinano) o Kanto heiya (La pianura del Kanto). Con il lento declino del gekiga, infatti, i gusti del pubblico iniziavano a orientarsi verso opere meno crude e violente, più distensive e meno contorte. Kamimura era riuscito ad adeguarsi alle richieste di mercato con opere interessanti seppur non memorabili. Tra queste, però, ci sono anche delle piccole perle come Obi no otoko (L’uomo che allaccia gli obi) e Uchiyo uranisshi (Il diario segreto di Ichiyo Higuchi).
Ma il cambio è anche a livello stilistico, nella costruzione delle tavole?
Essendo pubblicazioni settimanali, si avverte una certa fretta compositiva, che però in Kamimura resta quasi sempre impercettibile. Magari c’è uno studio meno accurato rispetto alle opere degli anni Settanta, ma restano ugualmente interessanti. A seconda della rivista e del tipo di fumetto, si avverte la presenza di due filoni distinti, quello più commerciale e quello più “intellettuale”. Ne consiglierei comunque la lettura per avere un’idea differente dell’autore e scoprirne tutte le sfaccettature.
In conclusione, oltre a Kamimura, quali altre figure ritieni siano fondamentali nel manga d’autore?
Senza Tezuka sicuramente non ci sarebbe stato tutto quello che leggiamo oggi, è innegabile che sia il manga no kamisama (dio del manga). Così come è innegabile che Yoshihiro Tatsumi sia stato il primo ad approcciarsi al fumetto con racconti e stili differenti. Personalmente amo le opere di Sanpei Shirato o Yoshiharu Tsuge, un autore davvero imprevedibile: i suoi lavori sperimentali sono un continuo susseguirsi di immagini psichedeliche e scene oniriche. Oppure gli horror di Kazuo Umezu e Shigeru Mizuki. E ancora Yu Takita, Moto Hagio, Yumiko Oshima, Maki Miyako, Kyoko Okazaki o il maestro Hiroshi Hirata, di un realismo estremo nelle sue storie di samurai. Se vogliamo spostarci agli anni Ottanta, ci sono anche autrici femminili che pubblicavano su GARO e che meriterebbero di essere recuperate, un nome su tutti Shungiku Uchida. E potrei continuare ancora, la lista sarebbe infinita!
Intervista realizzata durante Lucca Comics & Games il 29 Ottobre 2016