Comunicato Stampa
BINBOGAMI
Il Giappone può senza dubbio considerarsi, almeno dal punto di vista religioso, come un caso peculiare nel panorama globale, un luogo in cui alle credenze tradizionali proprie della religione nazionale shintoista si sono andati affiancando e innestando elementi propri del buddismo di provenienza continentale e, in ultimo, seppur rispetto ad elementi più di costume che teologici, del cristianesimo. In tal senso a molti di voi sarà capitato di sentire la frase che dipinge la religiosità dei giapponesi secondo l’adagio “nascono e crescono scintoisti, muoiono buddhisti e magari si sposano con rito cattolico” o di sentire alludere al Giappone come al “paese degli dei”, in riferimento alle antiche credenze shintoiste tuttora centrali nello spirito del paese.
Lo Shintoismo, le cui origini si perdono nel lontano periodo Jomon (10000 a.C. – 300 a.C.), costituisce infatti un tutt’uno con la storia e con i miti delle origini del paese del Sol Levante; parla di dei ma non ha una teologia, segue dei riti (centrale è il ruolo delle feste, matsuri, che talvolta si incontrano in alcune storie di manga o anime) ma manca di prescrizioni precise né possiede un clero organizzato. Senza addentrarci in questo caso in un’analisi più dettagliata dell’avvincente mondo della religione nativa del Giappone, ci basta sottolineare qui come il concetto di divinità espresso dallo Shintoismo (letteralmente, “via degli dei”) sia assai distante da quello proprio delle tradizioni occidentali. Semplificando, non si tratta tanto di una concezione politeista contrapposta ad una monoteista, quanto piuttosto di un’idea diversa del “divino”: gli dei shintoisti (Kami) sono forze che si trovano in ogni “cosa” del creato animandola (non a caso si può parlare di animismo) secondo una concezione dell’universo né antropocentrica né teocentrica.
I Kami nascono dunque come espressione delle forze della natura nel mondo e solo in un lungo processo di raffinamento e contaminazione con altre tradizioni religiose assumono poi caratteristiche antropomorfe; in questa magnifica concezione vitalistica della natura i Kami possono essere gli uomini stessi, magari i defunti, ma anche gli alberi, gli animali, una cascata o una montagna. Come in molte antiche religioni anche qui troviamo la “divinità” del Sole, o quella dei mari e delle tempeste, quella della fertilità e quelle della morte, ma in questo caso il divino permea ogni manifestazione insolita della natura o della vita, si tratti di un albero maestoso e solitario o di un tifone, di un’epidemia o di una sventura che conduce alla povertà.
Proprio quest’ultimo caso ci introduce alla figura che qui intendiamo approfondire: quella del Binbogami. Stiamo parlando del dio (kami, appunto, come abbiamo imparato) portatore di povertà e sfortuna, quello che nessuno vorrebbe trovarsi per casa o, peggio ancora, ad abitare il proprio corpo, attirando su di noi eventi funesti e malasorte.
Sebbene nel manga Binbogami ga! di Yoshiaki Sukeno venga ritratto con fattezze femminili, la rappresentazione tradizionale vuole il Binbogami come un vecchio uomo barbuto dal volto raggrinzito, vestito di stracci e con in mano un ventaglio, una figura che trae origine dalla tradizione religiosa cinese e che conobbe il suo maggior sviluppo nel corso del periodo Edo (o Tokugawa, 1600-1868) entrando a pieno titolo nell’affollato Pantheon delle divinità giapponesi e nella cultura del Sol Levante. Da qui ai successivi riferimenti introdotti in opere di fiction il passo è stato breve: pensiamo non solo alla centralità nell’opera di Sukeno già citata, ma anche all’apparizione ad esempio in episodi di serie televisive Super Sentai (Ninja Sentai Kakuranger), in videogiochi di ruolo (Megami Tensei) e in serie animate (Kamichu!).