
Jason Aaron, sceneggiatore statunitense portato al successo dalla serie Scalped (Vertigo), è tra i maggiori sceneggiatori della scena fumettistica statunitense contemporanea. Per la Marvel ha realizzato nell’ultimo decennio run per Wolverine, gli X-Men, l’Incredibile Hulk, Ghost Rider, Punisher, Thor e il Doctor Strange, dedicandosi al contempo anche alla serie Star Wars. Parallelamente Aaron non ha smesso di realizzare opere personali e creator-owned come Southern Bastards, serie Image ideata insieme a Jason Latour (che gli è valsa il Premio Eisner come miglior scrittore nel 2016) e Man of Wrath, realizzata con Ron Garney per la linea Icon della Marvel.
Dopo averlo incontrato a Lucca, l’abbiamo intervistato per affrontare con lui temi quali il suo rapporto con il divino, le libertà di un autore in un contesto mainstream e la necessità di introdurre una componente personale nelle storie.
La tua versione della Dea del tuono è tutt’affatto divergente dallo spirito del personaggio, originariamente privo di ironia. Lo stesso può dirsi del Dottor Strange, personaggio pervaso da un’aura di gravitas – se non serioso – che hai rivitalizzato dotandolo di sense of humour. Sono cambiamenti concordati con gli editor o libertà che ti sono state concesse?
Direi che sono state libertà che mi hanno concesso. Sicuramente, volevo comunicare che Thor e il Dr. Strange sono entrambi personaggi a cui piace quello che fanno. Non è certo sempre facile per loro essere chi sono, e a volte c’è una buona dose di sofferenza, ma c’è anche molto divertimento. Ho sempre desiderato che Thor adorasse essere un dio e il dottor Strange adorasse tutto ciò che è bizzarro e strano. Ma non li vedo come cambiamenti contrari allo spirito dei personaggi. Se mai ho voglia di sfruttare tutto ciò che rende quei personaggi chi sono, ciò che li rende diversi dal resto degli eroi dell’universo Marvel.
L’intera gestione su Thor muove dal dubbio religioso, narrando le gesta di dèi volubili e indegni dell’amore dei mortali. Questo rovesciamento sembra riflettere convinzioni personali: fino a che punto il tuo rapporto con il divino influenza la tua scrittura di Thor?
Penso che il mio rapporto con il divino, o la mancanza di rapporto con esso, abbia influenzato molto il mio ciclo su Thor. Sono un ateo che scrive le avventure di un super dio. Quindi penso che fin dall’inizio ho praticamente scritto sul tipo di dio in cui mi piacerebbe credere. E l’idea del merito è proprio al centro di tutto questo. Che cosa significa essere degni? Che cosa significa essere un buon dio? Quelle sono i quesiti con cui Thor continua a scontrarsi e continueranno ad essere i temi principale durante tutta la mia permanenza sulla serie.
Quali difficoltà hai avuto nel portare avanti le tue trame a lunga gittata su una serie come Thor, a volte addirittura mantenendo un segreto per poi rivelarlo 3 anni dopo (come quello del famoso “sussurro” che ha reso il figlio di Odino indegno), in un mercato mainstream che prevede continui rovesciamenti di fronti e maxieventi pronti a rimettere tutto in discussione?
Certamente non è facile oggigiorno pianificare una lunga gestione di un personaggio. Sto scrivendo Thor da circa cinque anni, se non sbaglio, e fondamentalmente sto portando avanti una unica lunga storia, anche se essa si è sviluppata su più serie. Credo mi abbia davvero aiutato il fatto che, quando ho iniziato a lavorare su Thor, ero alla Marvel da abbastanza tempo da aver sviluppato un po’di confidenza. Confidenza sia nella mia posizione all’interno dell’azienda, sia nei miei rapporti con la redazione. Abbastanza fiducia nel fatto che fossi fondamentalmente in grado di “radicarmi” sul personaggio. Sapere che avrei potuto rimanere su Thor per tutto il tempo necessario. Questo mi ha concesso la libertà per iniziare a gettare gli indizi di alcune grandi storie che sapevo già ci sarebbero voluti anni prima di portare a compimento. E per fortuna sono ancora qui, sto ancora scrivendo Thor, ancora procedendo verso la conclusione definitiva della storia che ho portato avanti fin dall’inizio. Mi sono rifiutato di andarmene finché non avessi portato a compimento quello che avevo in mente. E, fortunatamente, nessuno ha cercato di buttarmi fuori.
Attualmente sei uno dei deus ex machina dell’universo Marvel. In Legacy #1 (albo recensito da Lo Spazio Bianco nella rubrica First Issue Presenta), l’eredità che i giovani supereroi Marvel raccolgono dai personaggi “storici” rispecchia il passaggio di testimone tra generazioni di autori. Come affronti il peso di questa eredità?
Il mio impegno è sempre stato quello di rispettare quell’eredità, di onorare la storia di questi personaggi e tutte le incredibili avventure che hanno vissuto negli anni, create da un gruppo di autori di talento. Ma allo stesso tempo, penso che il modo migliore per onorare l’eredità della Marvel sia quello di raccontare nuove storie con questi personaggi e non solo rispettare le leggendarie storie del passato. Quindi cerco sempre di andare avanti, per regalare a questi personaggi nuove sfide. La storia di Jane Foster/Thor ne è un buon esempio e ne sono davvero orgoglioso.
Quanto è stato complesso e stimolante scrivere Marvel Legacy #1 e legare insieme tante storie e spunti di vicende conferendo loro coerenza narrativa?
È stata una bella sfida. Sicuramente non avevo mai scritto una storia così grande, complessa e ricca di personaggi. Ma sono felice di come è andata a finire e sono rimasto davvero stupefatto dal fantastico gruppo di artisti che ci hanno lavorato.
In Men of Wrath hai dato libero sfogo alla tua parte più oscura, si potrebbe dire. C’è sempre il tuo tocco di ironia, ma qui si tramuta in feroce sarcasmo oltre a una violenza, sia mostrata che non, inaudita. Tu stesso dici che è il tuo lavoro più cattivo nella prefazione. Che America hai voluto raccontarci con quest’opera, in cui ti ha assecondato molto bene Ron Garney ai disegni?
Men of Wrath si concentra sulle parti più oscure del luogo da cui provengo, il sud degli Stati Uniti, e sulle parti più oscure della mia storia familiare. E anche sulle parti più oscure di me stesso, suppongo. Ma alla fine è una storia sulla famiglia, sull’essere padre. O meglio ancora, su come NON essere un padre.
Rimanendo su Men of Wrath, hai dichiarato che il racconto ha una componente molto personale: quanto è stato complesso riportare su carta episodi legati alla storia della tua famiglia?
Non importa su cosa sto lavorando, cerco sempre di portare qualcosa di me stesso in ciò che racconto. Anche se sto scrivendo di alieni o mutanti o divinità asgardiane, devo comunque sentire una sorta di vero legame emotivo. Se a qualche livello personale sono connesso alla storia, allora lo saranno anche i lettori. Quindi penso che ci sia sempre una componente personale in tutto ciò che scrivo, anche se a volte non ti rendi conto che c’è.
Stai acquistando un ruolo di rilievo sempre più prominente all’interno della Marvel Comics. Quanta libertà di manovra sei riuscito a guadagnare in fase decisionale? Quanto di tuo ci sarà nel post-Legacy?
Come già detto, ho un ottimo rapporto con la Marvel e con i miei editor e sento di aver guadagnato la loro fiducia nel corso degli anni. Sembra ieri quando ero ancora l’ultimo arrivato in Marvel. Oggi, quando vado ai nostri raduni editoriali a New York, sono il veterano tra tutti gli autori presenti. Quindi sì, sento di avere una buona dose di libertà. E sì, mi vedrete all’opera su un nuovo grande progetto post-Legacy. Il one-shot di Marvel Legacy è stato l’inizio della prossima grande fase della mia carriera alla Marvel.
Ringraziamo l’autore e la redazione Panini Comics per la disponibilità.
Un ringraziamento a David Padovani, Emilio Cirri, Federico Beghin, Paolo Garrone ed Andrea Gagliardi per la collaborazione.
Traduzione a cura di David Padovani (versione in lingua inglese online qui).
Firmato: Giuseppe Lamola & the True Believers
Intervista realizzata via mail nel mese di novembre 2017.