Thomas Pistoia è nato a Torino nel 1971 e vive tra Presicce (LE) ed Empoli. È il fondatore nel 2000 del portale per autori esordienti viaoberdan.it, oggi divenuto suo blog. Scrive racconti, poesie e canzoni. Alcuni suoi scritti sono stati pubblicati su riviste letterarie online e cartacee o rappresentati in opere teatrali e musicali. Nel 2013 ha pubblicato una selezione delle sue opere nell’ebook Abitavo in Via Oberdan. Dal 2015 si esibisce in reading poetico-musicali con l’attore pescarese Massimiliano Elia. Per la Sergio Bonelli Editore ha scritto sinora le sceneggiature di due albi di Nathan Never di cui una, La lunga marcia, ha costituito il suo debutto sulla serie (#297). Nell’albo, disegnato da Emanuele Boccanfuso, l’autore ha realizzato un’ampia riflessione sulla mafia.
Benvenuto su LSB, Thomas. Alcuni anni fa hai fondato la rivista letteraria online viaoberdan.it. Puoi parlarci delle tue esperienze di scrittore?
Ho cominciato a scrivere storie e poesie da bambino. Ho partecipato da ragazzo a qualche concorso letterario, poi, tra il 1999 e il 2000, ho fondato la rivista viaoberdan.it.
Pubblicavo molto gli altri e pochissimo me stesso. Dopo alcuni anni ho dovuto chiudere il sito per mancanza di personale (mi arrivava troppo materiale e i pochi amici che si erano offerti di aiutarmi piano piano si erano dati alla macchia). Così ho trasformato il sito in un mio blog e ho cominciato a pubblicare soltanto cose mie. I miei scritti hanno cominciato a girare in rete, su altri siti o profili social. In più occasioni sono stati inseriti in opere musicali e rappresentazioni teatrali. Ho pubblicato qualche anno fa un ebook di racconti e versi. Ho cominciato a portare in giro un reading di miei testi e canzoni insieme all’attore pescarese Massimiliano Elia. Ho scritto un romanzo che cercherò di pubblicare e ho sceneggiato due Nathan Never.
Che vuol dire per te scrivere?
È una malattia che si accompagna a un altro morbo che ha per nome “leggere” (mi obbligo ogni mese alla lettura di almeno tre libri). Non si può curare, me la porterò nella tomba. Non importa se vengo pubblicato oppure no, se frutta un guadagno, se qualcuno mi legge. Devo farlo e basta.
Nasci scrittore di racconti e poesie, poi “prestato” al fumetto. Qual è il tuo rapporto con il fumetto?
Come lettore sono sempre stato onnivoro e ingordo. Ho cominciato a cinque anni con Topolino, poi sono arrivati i bonellidi, la Marvel e la Dc (Batman è il mio mito). Oggi leggo molto anche le graphic novel.
Mi spiego meglio con un aneddoto: quando avevo otto anni ebbi un attacco di appendicite. Non fu diagnosticata subito e andai in peritonite. Rischiavo di lasciarci le penne. Prima di portarmi in sala operatoria mi tolsero dalle mani un albo di Tex: El Muerto. Ecco, il mio rapporto col fumetto è questo. Ogni momento della mia vita è legato a un albo, spesso di Dylan Dog (che colleziono dal 1986). Sulla mia collezione di DYD ho scritto anche una poesia che si trova sul mio blog.
Insomma, leggerò fumetti anche in punto di morte, finché avrò luce negli occhi. Chissà quale sarà l’ultimo albo che aprirò…
Hai collaborato con Paola Barbato per Davvero, lavorando come webmaster. Che valore ha avuto per te quell’esperienza?
Sono stato dietro le quinte e ho potuto vedere in diretta come nasce un fumetto. Tutto il materiale passava per forza dalle mie mani. Inoltre avevo la possibilità di leggere le tavole sceneggiate da Paola. Ho imparato molto. Indirettamente, ma è stato utilissimo.
Davvero è stato importante anche dal punto di vista umano. I davveriani sono ancora oggi una sorta di famiglia. Il legame che si è creato tra noi resiste al tempo e alle distanze che ci separano.
Come ti sei avvicinato alla serie di Nathan Never? Avevi fatto prove per altri personaggi?
L’origine è ancora Davvero. I davveriani non sapevano della mia attività “scriptoria”. L’ha scoperta Lola Airaghi per puro caso. È stata lei a incoraggiarmi poi a provare col fumetto. Tra i bonelliani i miei preferiti sono Dylan Dog, Nathan Never e Dampyr (ma leggo anche tutti gli altri). Ho puntato su Nathan Never e ho cominciato a mandare qualche soggetto. I primi furono bocciati, ma Glauco Guardigli mi disse che gli piaceva la mia scrittura, che non dovevo smettere di provare. E dopo qualche mese, finalmente, disse sì alla prima storia.
Come è nata l’idea di affrontare un tema come quello della mafia in un fumetto di fantascienza?
Ho letto una notizia riguardante le cosiddette “scorte civiche” che accompagnano il giudice Nino Di Matteo durante i suoi spostamenti o organizzano per lui presidi di solidarietà. Questa partecipazione della gente, diciamo pure del popolo, mi ha molto colpito. Volevo calare Nathan non solo in una situazione pericolosa, ma in un “problema”, qualcosa che lo mettesse a disagio, che gli impedisse di combattere come è solito fare. Contemporaneamente ho deciso di cogliere l’occasione per ricordare a me stesso e ai suoi lettori fatti della nostra storia recente che non dovremmo mai dimenticare.
Un’operazione rischiosa per un esordiente, lo so, ma ho avuto dalla mia la lungimiranza di Glauco Guardigli e la grande sensibilità di Emanuele Boccanfuso. Non li ringrazierò mai abbastanza.
Una domanda complessa: come descriveresti il concetto di mafia?
Davis, uno dei poliziotti della scorta del giudice Matthew, dice nell’albo “la mafia siamo noi”. Ne sono assolutamente convinto.
In che misura gli eventi riportati nell’albo ripercorrono fatti realmente accaduti?
C’è un riferimento chiaro alla morte di Falcone. Ci sono nei dialoghi alcune frasi pronunciate realmente da Falcone, Borsellino e, in un caso, da Carlo Alberto Dalla Chiesa. Emanuele Boccanfuso ha riprodotto fedelmente i funerali della scorta di Falcone, utilizzando alcuni filmati di Youtube che gli ho indicato. Forse c’è anche altro, ma lasciamo che i lettori lo scoprano da soli…
Il finale della tua storia ricalca la scena equivalente del film Palermo-Milano sola andata di Claudio Fragassi ma con una sfumatura diversa: lì la “scorta” che via via aumenta intorno al braccato Leofonte/Giannini era composta da sole forze dell’ordine, mentre tu ne fai un corpo “civile” e “sociale”. Ci parli di questa scelta narrativa e in qualche modo anche poetica?
Sì, il riferimento è volutamente molto evidente. È un film che amo molto. Soprattutto amo la colonna sonora, in particolare quella che fa da sottofondo al corteo finale. La musica è di Pino Donaggio e l’ho ascoltata in loop, mentre scrivevo la marcia di Nathan.
Come dicevo all’inizio, tutto parte dalle “scorte civiche”, quindi il finale è messo a disposizione di questo concetto. La lunga marcia (lunga solo metaforicamente) vorrebbe essere un momento forte di speranza, di reazione, anche di rabbia. Una rabbia pulita, serena, grata verso i servitori dello stato, quelli veri, che pagano con la vita non solo morendo ammazzati, ma anche passando la loro esistenza come dei reclusi.
L’impegno civile è richiamato anche nella copertina dell’albo, con il rimando a Pellizza da Volpedo e al suo Quarto stato (già citato da Ivo Milazzo per Sciopero di Ken Parker). Questo riferimento è legato a una scelta tua, del copertinista o della redazione?
È stata una scelta di Glauco Guardigli. Ho apprezzato molto l’idea così come il lavoro di Sergio Giardo.
L’albo si chiude con una citazione di una famosa frase di Paolo Borsellino, l’invito a parlare della mafia. Ritieni che al giorno d’oggi se ne parli troppo poco?
La mafia è più viva che mai. Finché ci sarà, non se ne parlerà mai abbastanza.
Bisogna ringraziare i pochi giornalisti che se ne occupano continuativamente. Bisogna ringraziare quelle associazioni (anche di vittime) che, imperterrite, si ostinano ancora a organizzare eventi, a entrare nelle scuole, a portare i giudici a contatto con la gente… Bisogna ringraziare, insomma, tutti quelli che, in forte minoranza, cercano di tenere sempre accesa l’attenzione su di essa.
Credi ci sia il rischio in albi come La lunga marcia di cadere nella retorica fine a se stessa?
Certo che c’è. Sono gli argomenti trattati che per loro natura rendono il rischio molto alto: la memoria, il sacrificio, la morte, si cibano di retorica. In generale, se un albo viene accolto con favore dalla maggioranza dei lettori, secondo me o non è retorico, o contiene una “quantità” di retorica che non disturba (non sempre “l’arte del dire” ha una funzione negativa).
Fumetti ad ampia distribuzione come quelli della Sergio Bonelli Editore possono ricoprire un ruolo sociale?
Lo fanno da tempo, raccontando a modo loro l’attualità. Penso a Johnny Freak, a Doktor Terror, a Zed, a Marty e ad altre storie di Dylan Dog. Penso alla metafora dei mutati in Nathan Never. E se vuoi passo anche ai non bonelliani… la storia sull’11 settembre di Spider-Man; i riferimenti alla guerra in Vietnam e alla droga in molta Marvel degli anni 70-80. I mutanti di Genosha, emblema della diversità… Ho letto vecchie storie di Batman alle prese con il terrorismo islamico e con le sue controverse origini…
I fumetti (quelli che fanno gli altri, i grandi) sono opere d’arte e l’arte riproduce la vita reale.
Ora: se tutte le storie fossero scritte per avere una funzione sociale, i nostri fumetti sarebbero molto tristi; ma se ogni tanto non uscissero anche albi che ci ricordano in qualche modo problemi che viviamo nella realtà, sarebbero molto, ma molto più tristi.
Su cosa stai lavorando al momento?
Scrivo nuovi pezzi per il mio blog, preparo materiale per il reading e cerco idee per nuovi soggetti. Spero di potermi cimentare anche con altri personaggi.
Prevedi di tornare in una delle tue prossime opere a occuparti di temi realistici?
Sì. Sicuramente succederà ancora.
Intervista realizzata via mail a Marzo 2016.