Intervista ad Antonio Lucchi: colori e luci dell’Inquisizione

Intervista ad Antonio Lucchi: colori e luci dell’Inquisizione

Abbiamo parlato con Antonio Lucchi, disegnatore bonelliano che si è cimentato per la prima volta con il colore nel quinto speciale de Le Storie, L’Inquisitore, con ottimi risultati. Il fumettista sassarese è già al lavoro sulla seconda parte della storia, sempre scritta da Gianfranco Manfredi.

Antonio Lucchi nasce a Sassari, città nella quale frequenta l’istituto d’arte Filippo Figari, nel ramo grafica pubblicitaria e fotografia. Nel 2008 decide di lasciare il lavoro da grafico e si trasferisce a Roma, dove frequenta il corso di grafica 2D e 3D per videogiochi presso l’Accademia italiana videogames (AIV). In quel periodo inizia a disegnare seriamente in digitale e scopre le infinite potenzialità del mezzo.
Da sempre appassionato di fumetti, oltre che di videogiochi, pubblica la sua prima storia di dieci tavole,
Shinigami, su sceneggiatura di Paolo D’Orazio. A essa segue una seconda storia di dodici tavole per i testi di Massimiliano Filadoro e poi arriva l’esperienza su Davvero di Paola Barbato (episodi digitali 12, 22 e 40 – albo cartaceo #2) e il tredicesimo episodio di Rusty Dogs, il webcomic noir scritto da Emiliano Longobardi. Poi arriva la chiamata di Gianfranco Manfredi per entrare a far parte dello staff di disegnatori di Adam Wild, per il quale ha illustrato i numeri #5, 20 e 21 (quest’ultimo in coppia con Matteo Bussola).

Ciao Antonio e ben ritrovato su Lo Spazio Bianco.
Cominciamo dall’inizio. La prima volta che mi parlasti de L’Inquisitore risale almeno a fine 2015. Ci racconti come è nato questo fumetto?

Il tutto è nato da Gianfranco Manfredi: stavo ultimando il mio ultimo Adam Wild – il numero 21 – e poco prima di finirlo, un giorno mi ha telefonato proponendomi questa “pazzia”. Dico pazzia perché mi ha chiesto da subito di farlo a colori e voleva che fossi io a colorarlo. Questo perché Manfredi aveva intuito, vedendo il mio stile su Adam Wild, che avessi la capacità di tradurre tutti quei chiaroscuri che mettevo nelle tavole in un lavoro a colori. Io ho accettato subito, nonostante non avessi quasi mai lavorato prima col colore e le poche opere realizzate non erano minimamente al livello di una pubblicazione professionale. Però mi sono lanciato; in primis per riconoscenza nei suoi confronti e poi perché lavorare su un albo speciale della collana Le storie era un onore e una sfida professionale. Così intorno a novembre 2015 mi è arrivata la sceneggiatura e ho iniziato a lavorarci nel febbraio successivo, devo ammettere con molte ansie. Questo perché le prime prove che avevo fatto erano davvero lontane dallo standard al quale puntavo.

 In effetti, a suo tempo mi rivelasti di aver impiegato un po’ di tempo a trovare la dimensione giusta. Come avevi impostato inizialmente il lavoro?
Avevo iniziato in modo, diciamo così, tradizionale: facevo le matite, poi inchiostravo e successivamente andavo a mettere il colore. Ma seguendo questo procedimento mi accorgevo che non veniva fuori quello che avevo in testa, non riuscivo a tradurre in disegno le immagini e il tipo di colorazione che desideravo, ottenevo un risultato piatto e poco avvincente dal punto di vista cromatico, che non mi restituiva le sensazioni che intendevo dare al lettore. Dopo aver realizzato una pagina e mezzo con questa tecnica, ho chiesto a Manfredi se potevo fare un esperimento: saltare più avanti nella sceneggiatura e provare a realizzare una sequenza in flashback che avevo già deciso di disegnare in modo diverso fin dall’inizio. Avuto il benestare di Manfredi, ho quindi iniziato quella sequenza e da subito mi sono divertito molto a disegnare, il gesto pittorico era più rilassato e la resa proprio quella che stavo immaginando. Soddisfatto del risultato ottenuto ho deciso di mostrarla a Manfredi che inizialmente è rimasto un po’ perplesso, in quanto quella prima pagina di flashback l’avevo realizzata tutta in scala di grigi, applicando sopra giusto un unico colore per capire la tecnica da adottare. Quando gli ho inviato le prime pagine, ridipinte a colori, si è convinto subito e mi ha dato il via libera.

Lo sviluppo della pagina 81 de “L’Inquisitore”: dalla matite alla versione finita

Quindi hai lavorato praticamente da subito con il colore? Un elemento che colpisce è che personaggi e ambienti non sono definiti da linee di contorno ma tutto è demarcato dal colore direttamente. Qual è il metodo di lavoro che hai usato?
Il primo passo è stato cercare i pennelli coi quali lavorare. Tutto è nato infatti dal fatto che volevo  continuare a lavorare con Clip Studio Paint che è un programma molto snello e che ormai conosco bene, ma che ha il difetto di avere pennelli di base poco convincenti, che non trasmettono matericità risultando poco realistici, a differenza di Photoshop che invece ha pennelli di default molto belli. Alla fine sono riuscito a trovare una serie di pennelli che mi hanno convinto, alcuni comprati altri costruiti direttamente da me, altri che arrivavano direttamente dal lavoro su Adam Wild, usati per gli effetti speciali. Non li ho più mollati, né mai ridimensionati. Quando lavori in digitale è facile infatti cadere nella tentazione di ridimensionare il pennello  e “zoomare” l’immagine rischiando così di inserire troppi dettagli; allora mi sono forzato a non ridimensionare mai il pennello, per cui le figure sullo sfondo non hanno dettaglio perché proprio fisicamente e tecnicamente mi risultava impossibile. Questa forzatura che mi sono imposto mi ha aiutato a non riempire la tavola di dettagli inutili. A quel punto ho potuto iniziare a pensare al colore, studiandone la teoria e gli aspetti pratici. Come già detto, il mio rapporto con questo aspetto del disegno è sempre stato difficoltoso e dovevo trovare quindi un metodo che mi permettesse di isolare i vari aspetti del colore: chiaroscuro, saturazione e accostamenti cromatici. Non mi sentivo ancora in grado di andare direttamente col colore sulla pagina, per cui ho adottato la tecnica che usano i concept-artist: prima si realizza tutto in scala di grigi per i valori di vicinanza, lontananza, chiaro, scuro, etc. e poi, su un altro livello superiore, si vanno a inserire le tinte cromatiche.
La scala di grigi resta comunque sotto, è la base da cui parte tutto il disegno. Sopra a questo livello aggiungo quelli del colore, delle luci e delle ombre, sempre tutti distinti tra loro in maniera tale da poter intervenire per eventuali modifiche. Per quanto riguarda la mancanza dei contorni è stata una decisione sulla quale ho riflettuto molto. Una possibilità era quella di lasciare il contorno solo per gli elementi in primo piano e per i personaggi. Mi intrigava anche l’idea di lasciare le matite visibili. Poi però ho preferito lasciare il ruolo da protagonista assoluto al colore, al segno pittorico.

Se non ricordo male, come metodo di lavoro procedi in sequenza, nel senso che vai dalla prima all’ultima pagina in ordine di realizzazione. Prima di iniziare a disegnare le tavole, ti sei comunque creato uno storyboard?
Assolutamente sì, anche se non ho disegnato lo storyboard completo della storia perché ho avuto la necessità di iniziare subito a lavorare per capire quale tecnica utilizzare. Le ultime 30-40 pagine le ho realizzate tutte insieme alla fine in un mese di lavoro intenso: prima lo storyboard, poi tutte le matite e via di seguito in una sorta di maratona finale.

Tavola d’apertura de “L’Inquisitore”: le matite e la versione definitiva

A parte Manfredi a cui, come ci hai raccontato, le tavole sono piaciute subito, in Bonelli hai avuto un altrettanto immediato riscontro positivo?
Il nostro referente era Gianmaria Contro, curatore della collana Le Storie, che è rimasto colpito molto positivamente dai disegni e si è complimentato: una cosa che mi ha fatto molto piacere.

Un aspetto che colpisce molto nelle tavole sono i giochi di luci e ombre da te usati: in che modo hai lavorato in tal senso?
Luci e ombre le ho inserite tutte alla fine. Sono i due elementi che più di ogni altro rendono vive le tavole e sono fondamentali per le atmosfere. Ovviamente già in fase di progettazione del disegno dovevo decidere le fonti di luce e di conseguenza la tavola in scala di grigi conteneva già tutte le informazioni necessarie. Su questo ho applicato le tinte piatte. A questo punto su due livelli separati mi divertivo a scurire certe parti per migliorarne il contrasto e concentrare l’attenzione del lettore su determinate aree della vignetta, poi applicavo colpi di luce e effetti che simulassero l’aria attorno alle figure, sia per staccarle dallo sfondo, sia per stimolare stati d’animo particolari nel lettore.

A tal proposito, quali sono state le tue fonti d’ispirazione “artistiche”?
Manfredi come primo suggerimento mi ha nominato ovviamente Goya, io di mio ho aggiunto Caravaggio. I forti contrasti di luci e ombre mi hanno da sempre affascinato. Come sempre poi cerco di guardare molto anche la realtà che mi circonda. Ho cominciato quindi a cercare di capire come funzionasse la luce, a guardare sia video tutorial sull’argomento, sia molti film – uno su tutti, L’ultimo inquisitore, cercando di capire come la fotografia si potesse utilizzare per veicolare emozioni.

E invece in campo fumettistico ti sei ispirato a qualche autore o a qualche opera?
La maggior fonte di ispirazione è stata sicuramente l’opera del tedesco, Thomas von Kummant, illustratore dell’inedito in Italia Gung Ho e de Le cronache degli Immortali edito da Cosmo. Vedendo le tavole di quel fumetto ho capito specificatamente lo stile che volevo adottare, anche se il mio risultato finale è leggermente diverso, però mi sono reso conto di quello che volevo ottenere anche sull’uso della luce.

Lo sviluppo della pagina 103 de “L’Inquisitore”: dalla matite alla versione finita

Un altro aspetto che risulta evidente nelle tavole è la densità materica del disegno: è un effetto voluto?
Ciò che mi interessava era arrivare a realizzare una colorazione che non apparisse digitale e finta, bensì cercare di fare qualcosa che avesse un effetto reale e materico in cui si percepisse la strisciata della pennellata. Anche I colori piatti che aggiungo sopra la scala di grigi sono sempre ripennellati sopra: non ho usato lo strumento “secchiello” per aggiungere, per esempio, il giallo, bensì ho preso un pennello ed ho ridipinto di giallo. Mi sono dovuto anche frenare perché, fosse stato per me, le tavole sarebbero state ancora più sature però mi sembrava che non fosse molto pertinente con l’atmosfera della storia. A lavoro ultimato sono tornato indietro su molte vignette per desaturarle un po’.

 Spendiamo due parole sull’uso della gabbia delle tavole: ne L’Inquisitore ci sono delle tavole che hanno la tipica griglia bonelliana, però ce ne sono altre in cui pare esserci una sorta di evoluzione della stessa, con inserti e riquadri inseriti all’interno delle vignette: farina del tuo sacco o suggerimenti presenti già in sceneggiatura?
È Manfredi che si è lanciato! L’idea degli inserti e dei riquadri è opera sua, di mio ho osato qualcosa su alcune splash page facendole completamente scontornate, per evidenziare passaggi importanti della storia. Nel seguito su cui sto già lavorando, posso rivelare che Manfredi ha spinto ancora di più sull’acceleratore: ci sono talmente tante soluzioni grafiche originali che a momenti mi spaventano un po’. Ci avviciniamo molto a soluzioni di pagina tipiche del fumetto francese e americano, oserei dire. Devo dire che questo è uno dei motivi per cui mi trovo bene con lui, perché ci capiamo a vicenda e lui mi conosce talmente bene da sapere perfettamente dove può spingere su determinate cose perché intuisce che lì posso essere capace di trovare soluzioni graficamente intriganti. Tutto questo per un disegnatore è gratificante e molto divertente perché ha la possibilità di sperimentare in continuazione. 

 Altro elemento interessante nelle tavole è l’uso delle onomatopee: era scritto in sceneggiatura che te ne dovessi occupare tu e non il letterista?
Sì, Manfredi è sempre molto chiaro riguardo le onomatopee tradizionali. Quello che in alcuni casi mi son permesso di fare è stato tradurre in onomatopee quelle che dovevano essere testi all’interno dei balloon.

Manfredi è rinomato per fornire ai disegnatori pagine e pagine di immagini e documentazione. A quella da lui fornita hai aggiunto una ricerca personale?
Vero, anche questa volta ho ricevuto tanta documentazione a corredo della sceneggiatura. Io mi sono concentrato soprattutto sulla ricerca documentale intorno a vestiti e costumi: gli abiti che si usavano in quel periodo storico, la bardatura dei cavalli dei Templari (che mi son ricordato successivamente avessero una bardatura e quindi ho dovuto ridisegnare i drappi su tutti i cavalli che avevo già disegnato). Anche perché in molte tavole ci sono folle di persone che in qualche modo dovevo differenziare tra loro e l’unico modo era vestirli in modi differenti e lavorare molto su cappelli e copricapi. Altra ricerca importante è stata quella sul tipo di illuminazione adottata al tempo, specialmente per la sequenza finale ambientata in notturna nella città di Santiago.

 A livello di character design hai fatto prima uno studio dei personaggi che hai sottoposto a Manfredi?
Come al solito io ci provo ma poi non ci riesco mai… Santiago, il protagonista, è l’unico di cui ho fatto studi preparatori e che, nelle intenzioni di Manfredi, doveva ispirarsi alle fattezze di Javier Bardem. La spalla del protagonista è ispirata alle fattezze del pittore Rembrandt, mentre sui cavalieri templari ho avuto libertà assoluta tanto che ho deciso di divertirmi dando loro le fattezze di amici e conoscenti (tra cui lo sceneggiatore bonelliano e disneyano Bruno Enna e lo scrittore Gianni Tetti: con entrambi il disegnatore condivide lo studio – n.d.r.) , così come Alonso e Diego – gli amici che aiutano Santiago in coda alla storia – che sono ispirati a due miei cari amici. Insomma, stavolta con Manfredi abbiamo fatto a metà a livello di ispirazioni e suggerimenti!
Tornando al discorso iniziale, ho cominciato a fare gli studi preparatori su Santiago, ma poi – devo ammettere anche per pigrizia – mi sono fermato e ho iniziato a disegnare direttamente le tavole, perché da sempre amo far muovere da subito i personaggi all’interno delle pagine. Così ho preferito studiarne l’aspetto mano a mano che comparivano in sceneggiatura.

Esiste proprio una sintonia tra Manfredi e te…
Sì, una sintonia tale che mi permette di inviargli direttamente le tavole definitive, anche perché comunque lavorando in digitale esiste sempre la possibilità di modificare facilmente qualsiasi elemento.

 Parliamo un po’ della resa di stampa delle tavole. Ovviamente tu le visualizzi sempre sullo schermo del computer, ma hai dato delle indicazioni ai fini della stampa in tipografia?
All’inizio del lavoro la redazione Bonelli mi ha fatto avere il profilo di stampa da utilizzare, che ho impostato sul programma di disegno. Altri input li ho ricevuti da alcuni amici coloristi, soprattutto sulla gestione dei bianchi e dei neri in stampa, che in verità non ho seguito proprio del tutto a causa della mia inesperienza. Essendo poi la prima volta che lavoravo con il colore per la SBE, ho chiesto anche la possibilità di assistere alle prove di stampa, per provare a settare i valori cromatici in corso d’opera. Purtroppo questo non è stato possibile. Quando ho avuto l’albo stampato in mano sono rimasto comunque contento perché in effetti la cromia è quella che intendevo io, anche se forse manca un po’ di dettaglio nei neri – o meglio, alcune parti scure si sono mangiate un po’ di dettagli –  e la carta usata, che vira leggermente sul giallo, ha un po’ influito sulla resa dei bianchi. Perché sullo schermo, per quanto tu lo possa settare, il bianco è sempre puro ed è anche risplendente, mentre sulla carta alcune parti hanno reso in modo meno “accecante” di quanto volevo, come per esempio l’effetto dei lampi del temporale. Molto probabilmente, quando l’albo verrà stampato per l’edizione da libreria su carta patinata (in un volume che riunirà la prima e la seconda parte della storia), questi effetti risalteranno di più.

 Quindi adesso che sei al lavoro sulla seconda parte, stai seguendo esattamente lo stesso metodo di lavoro usato nella precedente.
Sì, voglio che le due parti siano assolutamente omogenee a livello di disegno e di colore. Anche perché la seconda parte della storia inizia esattamente dove si conclude la prima e dunque, a livello di narrazione, non c’è soluzione di continuità. Personalmente, sono molto contento che la storia prosegua perché già in queste prime sessanta pagine di sceneggiatura che mi ha fornito Manfredi, la vicenda si arricchisce di molti elementi e di dietro le quinte che vanno a spiegare alcuni passaggi della storia già pubblicata. C’è un approfondimento dei vari personaggi e anche una spiegazione dell’avvenimento sovrannaturale che accade alla fine de L’Inquisitore.

 Grazie infinite per il tuo tempo, Antonio: alla prossima!

 Intervista realizzata dal vivo a Sassari il 20/07/2018

 

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