Intervista a(b)braccio a Tommaso “Spugna” Di Spigna

Intervista a(b)braccio a Tommaso “Spugna” Di Spigna

Tommaso “Spugna” Di Spigna: come imparare a raccontare mazzate, squarciamenti e avventure grazie a un corso di fumetto

Cosa c’è di più umano del raccontare storie? Il mondo del fumetto è un ambiente professionale, regolato da leggi di mercato, concorrenze, gerarchie e persino tasse. Ma il suo solo aspetto fondamentale sono le storie: raccontate e disegnate da autori che si divertono, si impegnano, si arrabbiano, si imbarazzano, sono, insomma, umani.

Con un abbraccio e qualche domanda si prova a ricordarlo.

Tommaso Di Spigna, aka Spugna, è nato nel 1989 ed è oggi uno degli autori più interessanti emersi dal panorama delle autoproduzioni. Dopo essersi diplomato al liceo artistico ha frequentato la Scuola di Fumetto di Milano; lì ha conosciuto il socio Cammello (Paolo Valsecchi), con cui ha autoprodotto il volume d’esordio Metastasi, a cui hanno collaborato anche Simone Campisano e Marco Caselli. Spugna ha poi lavorato con Passenger Press, Bel-Ami Edizioni, Nurant, Motosega, Maremoto festival, This Is Not A Love Song, Verticalismi; ha fondato e diretto la rivista autoprodotta Lucha Libre ed è membro del trio InFame studio. Nel 2014 è uscito per l’editore Grrrz Comic Art Books il suo volume d’esordio come autore completo, Una brutta storia; nel 2017 Hollow Press ha pubblicato invece The Rust Kingdom, storia di spade, vermi e magia.

Ciao Spugna! Vorrei iniziare la nostra intervista partendo proprio dall’inizio: perché ti chiami Spugna?
Il soprannome è nato da una storpiatura del cognome, che appunto è Di Spigna. Al liceo il mio gruppetto di amici mi chiamava con tutta una serie di nomignoli che derivano appunto dal cognome: Spagna, Spigna, Spranga, poi è diventato Spugna… per fortuna questa fase è durata poco, il soprannome si è assestato su Spugna e lì è rimasto! Ho deciso di tenermelo come autore, perché mi piace anche da un punto di vista filosofico.

Filosofico? In che senso?
Filosofico, sì… mi piace l’idea dell’assorbimento, è anche la mia filosofia d’autore. Credo molto nel cibarsi delle opere altrui, nell’assorbire cose da altri per poi riproporle. Mi piace. Ce lo ripetevano anche alla scuola del fumetto: “Dovete essere come delle spugne!” E io ero tutto contento, perché mi dicevo “Perfetto, fin qui ci sono!” Invece non ha niente a che fare con delle ipotetiche doti alcoliche, per cui sono assolutamente deludente. Anzi, si creano delle aspettative che non riesco a rispettare. La gente pensa che io sia un fenomeno, trincatore di migliaia di birre… e invece no. Li deludo sempre.

Come vivi la parentela con il pirata di Peter Pan, che appunto si chiama Spugna?
Bene, perché è un bel personaggio. C’è solo la fregatura dell’immaginario marinaresco: per un paio d’anni dopo l’uscita del primo libro davano tutti per scontato che io fossi in fissa solo coi pirati, con le robe marinaresche. Ma va bene, è gestibile.

E quand’è che hai deciso di fare il fumettista?
Finito il liceo. Al contrario di un sacco di miei colleghi fumettari o di altri ragazzi che si erano iscritti alla scuola di fumetto io non avevo mai, mai provato a fare fumetti prima. Facevo delle pin-up, un sacco di illustrazioni, tantissimo character design… e basta. Avevo una sorta di terrore per l’approccio alla scansione narrativa in vignette, perché era una cosa su cui non avevo mai ragionato. E poi fondamentalmente non sapevo come partire da un’idea per raccontare una storia. Finito il liceo però avevo fatto un po’ di colloqui, al IED (Istituto Europeo di Design), alla NABA (Nuova Accademia di Belle Arti), ma trovavo tutta la faccenda molto fumosa. Invece il fumetto era un azzardo che volevo sperimentare. Anche se non avevo mai provato a farli, in realtà avevo letto moltissimi fumetti: appena iniziata la scuola mi sono reso conto che era un mezzo che riuscivo a padroneggiare. A quel punto mi sono proprio detto: voglio fare il fumettista.

Quindi per te è stata molto utile la Scuola di Fumetto.
Sì. Mi fa ridere, perché ci sono tanti fumettisti che dicono le scuole di fumetto sono inutili, che sono fuorvianti, che possono essere dannose… mentre invece nel mio caso è stato un approccio molto tecnico, molto lucido, che mi ha dato gli strumenti da utilizzare in un percorso personale. Ho prima imparato le basi, le regole – anzi, mi hanno insegnato le regole su cui dovevo ragionare in maniera canonica – e proprio quello mi ha dato gli strumenti per sovvertirle. Sono stato fortunato: ho avuto bravi professori, in un buon periodo, e compagni di classe con cui mi spalleggiavo come Cammello, con cui ho poi lavorato.

Era l’impostazione di cui avevi bisogno.
Sì, infatti. Una frase bellissima di un mio professore era: “Voi siete qui perché avete bisogno di sentirvi tutelati, perché siete convinti di non potercela fare. In realtà concettualmente ce la potete fare. Cercate solo qualcuno che vi dia il permesso, anche se non ne avete bisogno. Però, dato che siete qui, studiamo.” Sono stati tre anni di crisi, in cui ho sbattuto la testa col realistico… mentre continuavo a fare i miei mostriciattoli. Però probabilmente senza frequentare la scuola non avrei affrontato una fase di studio che ora mi permette di essere sicuro di quello che faccio.

I tuoi insegnanti sono stati quindi delle guide importanti. Riguardo invece ad autori contemporanei, c’è qualche fumetto o fumettista che ti piace particolarmente?
Sono tanti. E molti di loro li ho conosciuti. Mentre studiavo ho letto due o tre libri che mi hanno aperto il cervello. Uno è stato Mesmo Delivery di Rafael Grampà: possiamo dire che era un mediometraggio, perché era un fumetto di una sessantina di pagine, super dinamico, molto grottesco però molto colto, super tecnico, molto pulp. Era come se fosse un episodio di Ai confini della realtà però a fumetti, disegnato in una maniera fichissima e super assurda. Mi ha fatto pensare: “Wow, si può fare questa roba a fumetti, che figata!” Poi c’è stato Blatta di Alberto Ponticelli: anche quella era stata un’esperienza molto forte. Un’altra lettura importante è stata sicuramente Trama, di Ratigher. Mi fece proprio pensare “questo sta alzando il livello”. Il bello di questi tre fumetti è che sono tutti molto meccanici, molto ben oliati. Il meccanismo più bello è quello che non fa vedere come funziona, ma in cui si riesce a percepire la costruzione impeccabile, che gira molto bene.

Mi sembra che tu sia molto attento a questi aspetti tecnici.
Il fumetto mi appassiona proprio perché è una questione di ritmo, di numeri, di tempo… c’è sempre una divisione che nel cinema è temporale e invece nel fumetto viene tradotta in modo spaziale. I secondi e i minuti del cinema nel fumetto sono vignette, o pagine. Sono la scansione e il ritmo che decidi di dare al fumetto. È un aspetto veramente emozionante, perché è proprio ciò che rende il fumetto appassionante sia da leggere sia, nel mio caso, da fare.

A questo proposito, in passato hai pubblicato alcuni fumetti su Verticalismi, sfruttando meccanismi particolari. Pensi di fare altro su quella linea, sia su Verticalismi sia su altri siti?
Ci ho pensato spesso, però è una cosa che mi intriga meno rispetto al ragionare sul fumetto di carta. A me viene molto naturale interrogarmi sul volta pagina, sulle scansioni in vignette, sui meccanismi del libro, più che sul web. Anche perché io credo che i webcomic per ora siano solo esperimenti. Non esiste un codice stabilito. Per esempio, il webcomic migliore che abbia letto finora è To Be Continued, proprio perché è un enorme lavoro di invenzioni: ogni episodio della serie è differente perché si basa su un meccanismo diverso. In sincerità, non sono mai andato avanti anche per una questione orribilmente speculativa: se devo dedicare così tanto tempo a una cosa tanto complessa, vorrei che fosse un lavoro. E purtroppo il webcomic per ora si fa solo come promozione o come investimento. Tanti pubblicano vignette, ma quelle non sono altro che l’evoluzione delle strip.

Tornando sui materiali: il tuo tipo di segno dà un’impressione fortemente materica. Hai mai pensato di fare qualcosa in 3d tradizionale, come action figures o sculture, oppure qualcosa in 3d digitale, per esempio nella realtà virtuale?
Nel primo caso sì e l’ho anche fatto: ho avuto una sorta di educazione da modellista. Quando ero piccolo, adolescente, dipingevo e scolpivo modellini. Ma si parla di roba alta sette centimetri, e a un certo punto mi sono reso conto che ci stavo stretto. Era frustrante passare ore su qualcosa che poi schiacci per sbaglio con un utensile. Da qualche mese mi sono rimesso un po’ a pastrugnare con questi materiali, come hobby. Spesso ho pensato che mi piacerebbe produrre delle piccole edizioni limitate di personaggi tratti dai miei libri. Finora non ne ho avuto modo, ma è qualcosa su cui ragionare con calma. Riguardo invece il 3d, un mio amico ha le apparecchiature per disegnare nella realtà virtuale: ho provato una volta, ed è stato molto figo. Ma per ora non ho minimamente idea di come approcciarmi alla cosa. Sicuramente è molto divertente, stimolante, da scoprire.

Ecco il clou delle interviste a(b)braccio: qual è il momento più imbarazzante che ti sia capitato di vivere nel mondo del fumetto?
Io sono una persona abbastanza chiacchierona, quindi ho sempre paura di non star dicendo le cose più adatte dell’interlocutore del momento. Ma imbarazzo vero, atomico, per fortuna al momento no! A parte quelle classiche volte in cui ti dimentichi i nomi.

Non ti preoccupare, sei ancora a inizio carriera! E comincerò a metterti in imbarazzo con la foto con abbraccio.

Intervista realizzata dal vivo il 14 ottobre 2017

Clicca per commentare

Rispondi

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *