Intervista a Tonio Vinci: l’importanza delle piccole storie

Intervista a Tonio Vinci: l’importanza delle piccole storie

Tonio Vinci, autore di Nonni (Tunué) e ‘O Stablmend (Hazard Edizioni), approfondisce con noi la genesi e le tematiche delle sue opere in cui narra le vite degli ultimi, persone fragili che conducono esistenze realistiche, tra dramma e commedia.

Antonio Vinci è nato in Puglia nel 1977. Dopo il diploma alla Scuola Internazionale di Comics di Reggio Emilia ha pubblicato vignette per Il Male, Animals, Sbam Comics e per Kappa Editore. Ha lavorato per la produzione grafica di materiale di cancelleria per l’azienda I Love Print, ha disegnato strip e vignette per l’Agenda Ridens (agenda scolastica), collaborato con varie autoproduzioni (collettivo di Artisti del Komikazen di Ravenna), con Su.Go.(azienda di abbigliamento) e Neos Magazine. Nel 2017 ha pubblicato il graphic novel Nonni (Tunué) e O Stablmend (Hazard Edizioni), quest’ultima pubblicata all’interno di Midi, collana dedicata a storie e autori del Meridione. Insegna presso la Scuola Internazionale di Comics di Pescara e in vari laboratori in giro per l’Italia. Attualmente è al lavoro su due graphic novel di prossima uscita.
L’abbiamo raggiunto per parlare con lui della genesi delle sue opere e delle tematiche da lui affrontate.

Benvenuto su Lo Spazio Bianco, Tonio. Come sei arrivato al fumetto? Cosa ti ha portato a farne una professione?
Devo iniziare in modo molto banale: come tutti i fumettisti, appassionati o chi lavora avendo a che fare coi fumetti, anche a casa mia da piccolo mio padre mi faceva trovare mille fumetti e mi sono perso con lui nei Robot di Zagor (Sulle orme di Titan) e ho avuto paura di Mefisto, poi c’era un pochino di Mister No e Topolino, pensa che ho anche buttato nel pattume il numero #1 di Dylan Dog (che oggi credo varrebbe molto) perché nell’ultima pagina c’era una donna coi seni di fuori e credevo fosse porno. Ho fatto tutti gli studi disegnando, dalle elementari alle medie fino alle superiori, mentre il prof spiegava. Mi ricordo una sessione di Analisi 1 all’Università durante la quale ho disegnato a ogni lezione. Milo Manara sostiene che tutti disegnano da piccoli e poi a una certa età smettono, noi fumettisti non smettiamo mai; con mio grande stupore, dopo la laurea mi sono “scoperto” mentre disegnavo in ufficio, tra un cliente e l’altro, o in pausa pranzo, e ho capito che non potevo evitare di farlo. Come dicono molti disegnatori: è come fare la pipì, una necessità. Ci sono dei colleghi alle fiere che, dopo aver disegnato otto ore per le dediche, non ne possono più, io invece la sera al ristorante mentre ceniamo insieme disegno sulle tovagliette. Ho iniziato la Scuola Internazionale di Comics di Reggio Emilia (all’epoca abitavo lì) non tanto perché credevo che sarei diventato disegnatore ma più perché avevo delle cose da raccontare e mi mancavano i mezzi, senza la scuola (che consiglio caldamente) non sarei stato in grado di avere informazioni tecniche come la prospettiva, il linguaggio fumetto, l’uso degli strumenti. Diciamo che la Scuola mi ha dato le competenza che unite alla predisposizione e alla disciplina mi hanno permesso di diventare fumettista. Già a Scuola disegnavo vignette dei professori e le appendevo in corridoio, non per esibizionismo ma per necessità di comunicativa, vedevo che erano apprezzate e addirittura i miei professori mi chiedevano gli originali. Finita la Scuola ho capito che il mio tipo di fumetto era difficile da imporre per la pubblicazione ed allora con molta disciplina e testa dura ho girato per tre anni le fiere di tutta Italia con il mio progetto e con la voglia di ricevere consigli preziosi.

Come è nata l’idea per Nonni?
L’idea di Nonni è nata da due fattori che ad un certo punto hanno converso. Il mio stile è molto personale, particolare, anomalo, unisce il grottesco a un ambiente prospetticamente realistico/fantastico; diciamo che ad un certo punto anziché adattare il mio stile ho cercato di assecondare questa naturalezza. Andando in giro e conoscendo degli autori vedevo in loro apprezzamento ma anche imbarazzo in quanto specificavano la maturità del disegno ma allo stesso tempo la” stranezza” dello stile. A quel punto ho capito che per pubblicare avevo bisogno di una storia che fosse adatta al mio stile, mi serviva una cosa “anomala”, “stravagante”, e mi sono messo alla ricerca di un’idea che avessi voluto profondamente raccontare e che potesse essere raccontata SOLO col mio stile. Un giorno ho visto in TV un servizio in cui veniva chiesto a una coppia di anziani se facevano ancora sesso, la ché la moglie si era praticamente indignata e aveva detto che era naturale, normale e addirittura che il marito le faceva del sesso orale. A quella risposta mi sono inizialmente stupito e anche un po’ destabilizzato, infine ho capito che in realtà era una cosa normale e che ero stato uno stupido a meravigliarmi. A quel punto ho capito che quella era la storia che stavo cercando, una storia che se raccontata col disegno realistico di Dylan Dog non avrebbe avuto lo stesso senso, ma avrebbe avuto senso solo se l’avessi fatta con il mio stile. Questo me l’ha detto anche Vittorio Giardino dopo aver letto il mio libro, e dopo averla sentita da un tale Maestro mi sono ancor più convinto di aver fatto la scelta giusta.

Nonni è la tua prima storia lunga dopo varie collaborazioni come vignettista. Come hai affrontato il passaggio di linguaggio e di espressione tra vignette e graphic novel?
Diciamo che fino ad adesso ho esplorato diverse forme di racconto come la strip La Crisi che ho pubblicato nella rivista online Sbam Comics, o le vignette che ho pubblicato sul Male, su Neos Magazine e sull’Agenda Ridens, ma il mio amore è il racconto lungo a fumetti. La vignetta è un’istantanea, ti comunica qualcosa ma ti tiene compagnia per pochissimo, il tempo dell’idea, dello schizzo e dell’inchiostrare; nella storia a fumetti ci passi più tempo, ci vivi, ci diventi personaggio e ti stupisci da lettore/disegnatore di quello che accadrà nella pagina successiva. L’approccio che ho usato nel passaggio dalle vignette al graphic novel è lo stesso, cerco di prepararmi molto, fare storyboard, avere chiaro dove voglio andare; dopo aver chiari questi punti cerco spontaneità, alcune volte anche improvvisazione, istinto, in maniere da ottenere freschezza. Se non mi diverto o mi intristisco io per primo certo non lo farà il lettore, cerco insomma di essere il mio primo lettore. Questo metodo l’ho imparato da artisti musicali che sono dei geni, John Lennon e Mina ad esempio in fase di registrazione dei loro dischi non cantavano la canzone più di due volte perché già la terza era meno fresca, meno spontanea, ovviamente dopo essersi preparati alla perfezione.

Tavola tratta da Nonni (Tunué).

Nel raccontare la storia di Sandro tra i tuoi intenti c’era quello di far riflettere su alcuni aspetti “stravaganti” della vita nella terza età?
In realtà sono aspetti che ho preso dalle interviste che ho fatto. Una volta un anziano mi disse ”non esistono gli adulti” nel senso che anche da grande o da anziano si conservano delle passioni, delle parti infantili, delle parti stravaganti che rimangono nell’anima delle persone. Ovviamente non tutti gli anziani sono così ma io ho descritto una parte di anziani che hanno un animo vivo, strano, da adolescente. Penso ad Andrea Camilleri, che quando parla nelle interviste sembra un ventenne, o quanto ho letto su Will Eisner, qualcosa del tipo “eravamo 5 trentenni in una stanza per una riunione e Will ultraottantenne era sempre il più giovane”. Ero stupito da questa cosa e l’ho inserita in Nonni.

In Nonni misceli continuamente comicità e dramma per dare origine a una trama difficilmente etichettabile. Quali sono le difficoltà nel cambiare registro all’interno della stessa opera?
Cerco di seguire quello che mi viene meglio e cerco di capire chi prima di me ha teorizzato quello che istintivamente faccio. Un esempio: in maniera istintiva affronto il racconto (ma forse anche la vita) con dramma, malinconia e comicità; cerco di capire il perché di questo approccio e lo riscontro all’interno della cinema che mi ha formato. Penso al dramma e la comicità presenti nella commedia all’italiana, e capisco che è alla base dell’essere italiano: un popolo vessato, sotto mille domini e allo stesso tempo allegro e con l’ironia che nessun popolo ha. Penso a Mario Monicelli, al dramma estremo di Un Borghese Piccolo Piccolo con la morte del figlio e l’ironia del capo ufficio che con la testa sul tavolo fa una gara nel trovare il pezzo più grande di forfora, mi riferisco a Ettore Scola con i suoi Brutti, sporchi e cattivi (molto presenti esteticamente nei miei fumetti) o Federico Fellini e la sua estremizzazione estetica dei personaggi grotteschi e sognanti. Non ho grosse difficoltà a cambiare registro nella storia, uso il mio solito metodo, preparazione minuziosa, storyboard anche delle parti comiche e poi, una volta iniziato a disegnare, istinto e spontaneità. Probabilmente questa capacità viene proprio dall’aver metabolizzato quei film assieme a una cifra che spero sia personale,. In effetti quando dici ”trama difficilmente etichettabile” per me è una conferma della mia stranezza grafica e narrativa che spero sia molto personale.

‘O Stablmend racconta di problematiche lavorative ed esistenziali all’ombra dell’Ilva di Taranto. Hai realizzato questo storia per Midi, collana dedicata al Meridione pubblicata da Hazard Edizioni. Come sei stato coinvolto nella realizzazione di questa storia e cosa significa per te raccontare il Sud ora che ti sei trasferito altrove?
Quella di O’Stablmend è una storia particolare che in realtà non ho scritto per Midi ma che avevo già nel cassetto. Nel mio girovagare tra mille editori conobbi Daniele Brolli (grande autore, editore e mille altre cose), gli feci vedere alcuni progetti e lui mi chiese, essendo di Taranto, di fare una storia sul mio territorio, magari sull’Ilva. Io scrissi e disegnai venti tavole di O’Stablmend e gliela inviai, poi firmai con la Tunué per Nonni e me ne dimenticai. Quando Marco  Gastoni, curatore della collana Midi, mi chiese una storia io avevo già O’Stablmend. Non saprei esattamente cos’è raccontare il Sud o raccontare qualcosa di diverso, credo di raccontare sempre il Sud. Mi sono trasferito al Nord tantissimi anni fa ma sono rimasto sempre un pendolare, vado spesso nel luogo in cui sono nato, ho gli amici di sempre che vivono lì e quando dormo sogno le strade del Sud. Nei miei racconti è inevitabile che io metta il Sud, spero di poterlo fare in modo universale, non ghettizzante ma come Fellini, che quando racconta la sua Rimini racconta allo stesso tempo qualcosa di tutti noi, uno dei motivi del suo successo nel mondo. Quando ho scritto O’Stablmend non ho inventato cose, ho raccontato esattamente quello che per me è l’Ilva adesso, con solamente quella distanza che permette magari di vedere meglio.

Illustrazione per ‘O Stablmend (Hazard).

‘O Stablmend racconta una storia che certamente hai potuto conoscere in maniera più diretta, visto che è ambientato nella tua provincia d’origine. Quanto è importante per te la componente autobiografica, o comunque aver toccato da vicino una realtà, per renderla appieno in una storia?
La componente autobiografica è importante emotivamente. Quando disegnavo l’Ilva o Taranto ci tenevo che esteticamente fosse un posto riconoscibile, ci fosse il ponte girevole etc, ma ci tenevo che fosse anche la “mia” Taranto, non quella oggettiva ma quella filtrata dai miei occhi, dalla mia sensibilità. Mentre disegnavo mi emozionavo per gli avvenimenti che stavo raccontanto, probabilmente perché mio padre ha lavorato una vita all’Ilva o perché mio fratello lavoro ancora adesso al treno nastri (cantato da Caparezza in Vieni a ballare in Puglia quando consiglia di tenere la testa alta perché viene giù la gru). Cercavo il più possibile di entrare nella storia, come fossi sui marciapiedi disegnati nelle vignette o in macchina con i protagonisti. Ma questo elemento di immedesimazione cerco di averlo in tutte le storie, penso a Mogol che ha raccontato nei suoi testi dei suoi amori, dei suoi tradimenti ma anche di quelli delle persone che gli stavano attorno: Non è Francesca è la storia di un suo amico ma lui la descrive comunque con disperazione, ed è quello che cerco di fare in tutti i fumetti che scrivo. Direi che è importante aver toccato una realtà per renderla appieno in una storia ma è anche importante avere l’empatia per storie che non hai vissuto da vicino.

Sia in Nonni che in ‘O Stablmend hai raccontato gli ultimi, persone ai margini che difficilmente vengono “elevate” a protagonisti di una storia. Cosa ti ha portato a raccontare le loro storie?
Sono portato istintivamente: sono figure che mi piacciono, amo sicuramente anche l’eroe, l’invincibile, l’avventura ma solo come lettore, ma come autore sento l’esigenza di parlare di persone ordinarie. Ho scoperto anni fa che la realtà è una cosa che supera anni luce la fantasia soprattutto quando la filtri con la bugia. Credo che la piccola storia, il personaggio ordinario mi serva per raccontare la grande storia. Devo ricorrere sempre a un esempio cinematografico: nel film di Ettore Scola Brutti, sporchi e cattivi si racconta di questa famiglia sporca che fa cose decisamente cattive ma allo stesso tempo si parla di povertà, di ignoranza e di ingiustizia sociale, si racconta attraverso una piccola storia la grande storia. Nei miei fumetti cerco di raccontare un argomento globale attraverso le vite di singoli altrimenti poco protagonisti.

Sul tavolo da disegno mostri uno stile molto personale, spesso tendente al grottesco e all’eccesso. Come sei giunto al tuo stile attuale? Quali sono gli artisti che consideri i tuoi maestri?
Sono giunto al mio stile attraverso una inconsapevolezza. Ho frequentato la Scuola Internazionale di Comics, ho studiato e disegnato moltissimo ma non saprei dire come ci sono arrivato. Ho preso nasi da Pazienza, da Magnus, da Jose Munoz, da Civitelli ma ho sintetizzato il mio stile quando non ho ascoltato più nessun maestro. Qualche mese fa mi sono accorto che ho delle caratteristiche grafiche di Cavazzano ma non so consapevolmente come sono arrivato ad averle e probabilmente è così che deve essere.
Il mio Maestro è sicuramente Marco Nizzoli che è stato un mio insegnante e che, pur avendo uno stile fantastico ma lontano anni luce da me, mi ha saputo capire e ha visto lo strano mondo che avrei potuto creare nei mie fumetti; cito anche Giuseppe Camuncoli, Stefano Landini, Andrea Accardi e Matteo Casali.
Per i disegni il più grande in assoluto per me è Jose Munoz che mi ha insegnato la scacchiera nelle tavole, per le storie Will Eisner.

Illustrazione di Tonio Vinci.

Su cosa sei al lavoro attualmente?
Sono a pagina settanta di un libro di cui ancora non posso parlare, diciamo che racconterò una storia che sarà molto in linea col mio stile grafico, sempre abbastanza anomala, commovente, comica, spiazzante, per la quale sono aiutato ai colori dalla bravissima Valeria De Sanctis.

Grazie, Tonio. A presto.

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