La rivista on line Golem L’Indispensabile nacque nel 1996 su iniziativa di Umberto Eco, Gianni Riotta e Danco Singer e fu il primo esempio di rivista culturale italiana pensata specificatamente per il web.
Fino alla sua chiusura definitiva, avvenuta nel 2011, la rivista ebbe varie incarnazioni e poté contare su firme e collaborazioni prestigiose, tra le quali quella di Daniele Barbieri (www.guardareleggere.net) che a partire dal 2001 sulle pagine della seconda serie della rivista pubblicò una serie di saggi e articoli sul fumetto e il suo linguaggio.
Purtroppo oggi la pagina web e l’archivio on line di Golem l’Indispensabile non sono più raggiungibili, ma quelle pagine scritte da Barbieri restano ancora oggi attuali nei contenuti e nel valore dell’analisi e dell’approfondimento sul linguaggio dell’arte sequenziale. È dunque un peccato che gli appassionati del mondo del fumetto di età più giovane o coloro i quali al tempo non avevano conosciuto quella rivista si siano persi tali interventi.
Per tale motivo abbiamo chiesto a Barbieri, amico de Lo Spazio Bianco, la possibilità di ripubblicare sul nostro sito quella sua produzione e l’autore molto gentilmente ci ha concesso il permesso.
In questo articolo l’autore racconta il suo incontro con due grandi vecchi del fumetto mondiale, due maestri quali lo furono l’argentino Alberto Breccia e lo statunitense Will Eisner.
Ho conosciuto Alberto Breccia nell’autunno del 1991, a Bologna. Aveva 72 anni. Gli feci da interprete in un incontro con il pubblico; una situazione in cui mi sentivo abbastanza ridicolo, perché il suo spagnolo era sufficientemente chiaro per essere compreso dagli italiani anche senza il mio aiuto, e pure lui capiva quasi tutto quello che gli veniva detto. Ma stavo facendo qualcosa che io consideravo comunque per me un grande onore: ritenevo Alberto Breccia il più importante autore di fumetti vivente nel mondo.
Tutti i settori più innovativi del fumetto italiano gli dovevano moltissimo: una leggenda vivente. E in quel momento la sua capacità di comprendere quello che gli veniva detto in italiano doveva dipendeva da me – anche se, in realtà, ne dipese pochissimo.
Lo tornai a incrociare un anno e mezzo dopo, a Lucca, nell’affollato palazzetto del Salone dei Comics. Non mi presentai, perché mi sembrava di disturbare. Circa mezz’ora dopo l’incontro un amico comune mi disse che Breccia mi stava cercando. Sussultai: Alberto Breccia stava cercando me?!
Alla mia visibile incredulità venne risposto che Breccia desiderava una copia del mio libro sui fumetti. Mi misi alla ricerca di Breccia, che però nel frattempo se ne era andato – e non lo incontrai più. Il giorno dopo, a casa, lo scrivere una dedica su una copia del mio libro da spedirgli in Argentina mi sembrava una cosa del tutto irreale: ero io quello che doveva aspirare a un libro con dedica da parte del maestro!
Contavo di rifarmi del mio stupido imbarazzo al prossimo incontro, in autunno o primavera successiva, poiché Breccia sarebbe stato sicuramente invitato da qualche parte. Ma Alberto Breccia morì pochi mesi dopo, nel novembre del 1993.
A quanto ne so, stava ancora disegnando. Quando l’avevo conosciuto, mi aveva dato l’idea di un anziano per aspetto e per saggezza. Ma il suo atteggiamento era ancora quello di uno che crea con grande entusiasmo. Ricordo bene che, al tavolino di un caffè, mi diceva che quando lavorava non sentiva né fame né sonno, ed era capace di andare avanti per giorni senza smettere.
Non sembrava manifestare meno interesse ed entusiasmo per quello che stava facendo di quanto non ne manifestassero i suoi colleghi trentenni. Ma, a differenza di loro, lui pareva del tutto rilassato nel suo rapporto con il proprio lavoro; e soprattutto aveva l’aria di sapere perfettamente quanto spazio questo lavoro dovesse occupare nella propria vita quando messo di fronte agli altri interessi che normalmente gli fanno concorrenza: vita familiare e affettiva, incombenze d’altro genere, impegni sociali o politici.
Ci raccontava di come aveva fatto fumetti sotto la dittatura militare, riempiendoli di messaggi non perseguibili dalla polizia, ma che erano chiaramente antigovernativi, almeno per i lettori che lo conoscevano già. E di come, comunque, bisognasse poi distribuirli praticamente a mano.
Questa padronanza dei propri mezzi, così evidente persino nel movimento della matita sul foglio di carta seduti al tavolino, si riconosce facilmente nei fumetti pubblicati nei suoi ultimi anni. Alberto Breccia è sempre stato uno sperimentatore. Lo era già nel 1963, quando disegnava Mort Cinder, che doveva essere una serie commerciale, in uno stile graficamente complesso e oscuro, inventandosi le tecniche di disegno e quelle del racconto.
La differenza, nei suoi lavori degli ultimi anni, è che si ha continuamente la percezione, in queste opere spesso ancora fortemente innovative, che l’autore sappia perfettamente in ogni momento dove vuole arrivare – e sino a che punto può spingere l’invenzione formale senza perdere il contatto con il proprio pubblico.
La stessa impressione, anche se nei confronti di uno stile grafico e narrativo del tutto diverso, producono le opere recenti di Will Eisner.
Eisner, classe 1917, era già un mito editoriale nel 1940, quando il suo fumetto The Spirit sconvolgeva per intelligenza e raffinatezza il mondo non esattamente ricercato del comic book americano. Poi, intorno al 1950, la fortuna dell’azienda pubblicitaria da lui creata proprio sulla base del suo successo fumettistico lo portò a fare altro. All’epoca in cui io leggevo la traduzione italiana di The Spirit su Eureka, verso la fine degli anni Sessanta, pensavo che il suo autore fosse ormai vecchio o defunto, visto che da tanto tempo non produceva più nulla.
E invece, nel 1978, a sessantun’anni, Will Eisner ricominciò a scrivere e disegnare storie a fumetti. Convinto, come era sempre stato, che il fumetto meritasse un nome e un supporto editoriale più autorevoli di quelli assegnatigli dalla tradizione, inventò un formato che non esisteva: la graphic novel, ovvero il fumetto interessante e complesso come un romanzo, pubblicato in volume come un romanzo. Il concetto di graphic novel ha talmente attecchito in seguito nella cultura fumettistica americana, che ormai la connotazione di qualità che gli aveva dato Eisner si è persa del tutto, ed è rimasto solo il formato a libro.
Ma a lui, il riconoscimento di aver creato il formato editoriale che ha sancito la rinascita del fumetto americano degli anni Ottanta (il formato di Maus di Art Spiegelman, e di The Dark Knight di Frank Miller) è giustamente rimasto. Anche perché da quell’anno in poi Eisner ha continuato a produrre graphic novel senza interruzione sino alla sua morte – e così come era per me un’emozione, molti anni fa, scoprire una storia di Spirit che non avevo letto, lo è stato ogni volta venire a sapere che stava per uscire un nuovo romanzo a fumetti di Will Eisner.
Il mio incontro con lui è stato molto più recente e meno memorabile di quello con Breccia, ma solo perché le implicazioni personali sono state molto minori. Questo cortese signore ultraottantenne, invitato a tenere una conferenza a Bologna, ci ha fatto ridere tutti per un’ora prima di affrontare gli studenti dell’Accademia di Belle Arti – di fronte ai quali sembrava a volte quello con più voglia di inventare cose nuove. Ma con la differenza, rispetto a loro, di sapere benissimo quali leve tirare per ottenere i propri effetti.
Come quelle di Breccia, le storie del tardo Eisner mostrano un’essenzialità narrativa che le sue creazioni giovanili, non meno inventive ed esuberanti, comunque non avevano. Evidentemente quando la vecchiaia non toglie l’entusiasmo di produrre, si è arrivati al punto in cui il di più appare davvero superfluo, e solo l’essenziale resta. Forse quel di più che qui scompare è anche l’inevitabile residuo di una sperimentazione le cui strade non vengono più percorse. Ma l’esperienza accumulata permette, evidentemente, di percorrerne altre, e non meno inconsuete.
Non senza rischio, comunque. Non ho conosciuto di persona Hugo Pratt, ma, nel suo caso, leggendo le sue storie io ho avuto la netta impressione che da un certo momento in poi l’essenzialità sia andata a scapito della qualità, e ho continuato a lungo e sino alla fine a cercare nei suoi prodotti tardi i segni di un entusiasmo che invece mi pareva proprio mancare.
Per saperne di più:
su Alberto Breccia
su Will Eisner
La versione originale di questo articolo è apparsa su Golem l’Indispensabile #12 del dicembre 2002.
Marco
10 Febbraio 2018 a 15:18
Assolutamente vero quello che dici di Pratt, la rilettura delle opere tarde nella recente raccolta in edicola ogni settimana evidenzia come davvero alla fine non sapesse fare altro che ripetere sempre gli stessi temi.