Siamo nei primi anni Trenta: Topolino e Orazio abitano nella periferia rurale americana e stanno cercando un lavoro per poter sbarcare il lunario, ma il grande cantiere appena inaugurato rifiuta di assumerli. I due protagonisti scoprono ben presto che dietro questa impresa si cela un losco appaltatore che non si fa scrupoli a usare metodi discutibili per ottenere terreni e manodopera a basso costo.
Régis Loisel con il suo Caffè Zombo guarda direttamente alle strisce disegnate da Floyd Gottfredson nelle prime fasi della sua carriera, realizzate proprio negli anni Trenta, che raccontavano la realtà loro contemporanea e nelle quali Mickey Mouse e amici vivevano in zone campagnole e affrontavano varie avventure con la spensieratezza della gioventù. Riprendendo quell’ambientazione e quel mood, l’artista francese costruisce una trama complessa e stratificata, nella quale irrompono ben presto le tematiche dello sfruttamento del lavoro, dell’abusivismo edilizio e della contrapposizione tra i ricchi disonesti e la classe operaia sfruttata e sottopagata.
Anche nelle leggendarie strip del secolo scorso, complice la loro originaria collocazione sui quotidiani statunitensi, venivano toccati temi sociali e di spessore: la disoccupazione, la crisi economica, la guerra, il pericolo nucleare hanno fatto da sfondo a vicende memorabili che sono considerate pietre miliari della narrazione disneyana a fumetti, ma il lavoro di Loisel va in un certo senso oltre, risultando più incisivo nella sua esposizione e rendendo di fatto Topolino un eroe del proletariato, una visione che può destabilizzare chi è abituato alla versione contemporanea del personaggio, che le storie “regolari” destinate alla grande distribuzione non possono permettersi ma che in fondo è fedele all’essenza del topo più famoso del mondo.
La lezione della narrazione tipica delle strisce “sindacate” viene assimilata anche sotto un altro aspetto, spesso trascurato nelle analisi di quella produzione: la divagazione.
Dopo il preambolo introduttivo del racconto, infatti, il fumettista fa decidere al protagonista di partire insieme a Orazio, Minni e Clarabella per andare a trascorrere alcuni giorni in campeggio sul lago dove Paperino ha la sua barca: inizia così una vera e propria parentesi narrativa, nella quale Loisel ha modo di omaggiare la componente più umoristica di questi personaggi, sia attraverso citazioni dirette – il viaggio in roulotte ricorda in vari passaggi il cortometraggio Mickey’s trailer – che tramite una narrazione leggera fatta di gag e buffe situazioni. Sono passaggi spensierati e ricchi di ispirazione, che mostrano in particolare come queste figure stiano straordinariamente bene assieme e sappiano godersi la vita nell’incoscienza della loro giovane età.
È al loro rientro in paese che Topolino e Orazio apprendono che qualcosa di strano si sta verificando attorno al cantiere: da lì prende pieno avvio la vicenda che assume toni torbidi ma anche vagamente inquietanti quando gli operai appaiono come zombificati dalla misteriosa miscela speciale di caffè, preparata dagli scienziati al soldo del disonesto imprenditore per renderli docili e resistenti alla fatica dei turni massacranti.
Loisel calca la mano su questo elemento, rendendo anche Pippo succube della sostanza e ritraendolo in alcune vignette come spersonalizzato rispetto al solito.
Proprio la caratterizzazione del personaggio è uno dei punti deboli dell’opera: anche quando viene disintossicato, il vecchio Goofy viene rappresentato in maniera piatta e trasandata, una versione poco centrata che il poco spazio a disposizione non aiuta ad alleviare. Pure il trattamento riservato a Minni e Clarabella non è dei migliori: le due ragazze appaiono petulanti, bisbetiche e tiranniche, un ritratto femminile ormai desueto e fastidioso nonché ingiusto nei confronti delle donzelle in questione che, anche nelle avventure degli anni Trenta, difficilmente hanno mostrato atteggiamenti del genere o comunque così accentuati.
Sul lato artistico, si toccano vette di eccellenza innegabili. La scelta di sviluppare il volume in orizzontale per ricalcare la narrazione a strisce è poco più di un vezzo, una mimesi di formato che a livello di ritmo narrativo non sfrutta la scansione narrativa delle strip, ma restituisce il fascino strutturale degli esordi.
Per quanto attiene lo stile, anche in questo caso Loisel guarda direttamente a Gottfredson come modello per impostare il design degli standard characters e per gli sfondi bucolici, contaminando però quell’estetica con il proprio tratto, piacevolmente sporco e underground: si può notare fin dal suo Topolino, che risulta piuttosto dettagliato nel taglio del muso, nelle pieghe dei calzoncini, nella forma delle scarpe e nello spessore dei tipici guanti bianchi. Anche Gambadilegno si vede accentuati i lati felini del viso, mentre con Pippo vengono esacerbati elementi che denotano trascuratezza quali abiti consunti o un viso irto di peluria.
Per i comprimari, invece, l’autore sembra guardare più ad altri riferimenti, quali ad esempio Blacksad: in particolare i vari uccelli come la cornacchia amica dei protagonisti o gli scienziati alleati del cattivo rivelano un’estetica che ricorda da vicino quella impostata da Juanjo Guarnido, così come il villain stesso, dalle fattezze di un ippopotamo dall’aria sorniona e ambigua.
Ulteriore elemento estetico che spicca nell’opera è una certa violenza, ancorché caricaturale, che l’artista mutua soprattutto dai cortometraggi animati disneyani, che hanno spesso avuto modo di visualizzare baruffe e botte da orbi nei confronti dei poveri personaggi della propria scuderia.
Ma sul finale, quando arriva la resa dei conti, lo spazio per lo scontro fisico tra gli eroi e i cattivi ha un’escalation che presto trascura il tono farsesco delle origini e mette in scena una vera e propria battaglia senza esclusione di colpi, quasi totalmente priva dell’usuale retrogusto comico (strategia invece applicata più volte dal nostro Romano Scarpa, si veda ad esempio Topolino e la Dimensione Delta o Topolino e il mistero di Tapioco VI). Possiamo osservare bastoni e rastrelli letteralmente spaccati in testa, il primo piano di uno strozzamento, calci in faccia, galline usate come oggetti contundenti con cui colpire l’avversario, incudini e botti lanciate sui malcapitati, violenti schiaffi a cinque dita e cazzotti dritti negli occhi, solo per fare alcuni esempi. Certo, l’animazione in senso generale, nei suoi anni d’oro, non era esente da questo tipo di eccessi ma nel mondo Disney, e in particolare nel medium fumetto, una carica tale spiazza e forse rappresenta un travalicamento dei limiti che non era necessario.
Beninteso, la sequenza è molto ben ritmata, non è priva di un certo humour nero e intrattiene, benché sia forse tirata un po’ troppo per le lunghe; la riflessione da fare è però quanto una dinamica del genere, raccontata così, sia considerabile disneyana, anche nell’ambito di un’operazione come quella delle opere commissionate da Glénat che ha per sua natura la vocazione a portare qualcosa di differente rispetto alla tradizione narrativa della Casa del Topo.
Caffè Zombo rappresenta forse l’opera più matura tra quelle finora pubblicate dalla casa editrice francese, quella che da una parte ambisce a essere la più aderente al canone classico ma che dall’altra cerca sottilmente di tradirlo per via di talune iperboli e di tematiche da decenni generalmente tabù.
Il risultato è un’opera potente, solida e con un forte messaggio di fondo, risultato a cui arriva nonostante alcune scelte poco centrate su alcuni personaggi e uno scontro finale dai contorni un po’ troppo sfrenati.
Abbiamo parlato di:
Mickey Mouse – Caffè Zombo
Régis Loisel
Traduzione di AmarenaChicStudio (Milano)
Panini Comics, 2023
76 pagine, cartonato, colori – 16,00 €
ISBN: 9788828748656