Una prima raccolta delle storie brevi di Bonvi era uscita nel 1981 per Mondadori, riprendendo varie storie uscite su differenti testate dalla fine degli anni ’60 in poi. Oggi, per Rizzoli Lizard, ne esce in una nuova versione arricchita, curata dalla figlia Silvia Bonvicini, che diventa un prezioso strumento per riscoprire uno degli autori più importanti del fumetto italiano in una delle sue produzioni meno note.
Bonvi, nome d’arte di Franco Bonvicini (1941-1995) è davvero un nome che non ha bisogno di presentazioni. Tuttavia, complice forse anche la precoce e tragica scomparsa, il grande pubblico tende a conoscerlo soprattutto per le sue strip, in primis le Sturmtruppen (del 1968) e in parte per Cattivik (1965), poi proseguito dall’allievo e amico Silver. Vi è però una sua produzione vasta e di livello altissimo che merita assolutamente una riscoperta: il suo avvicinamento al fumetto nasce nel 1960, a partire dall’amicizia con Francesco Guccini – che conosce nel 1956 e che firma la prefazione a questo volume e con cui , tra l’altro, nel 1970 firma le Storie dello spazio profondo.
Questi “incubi provinciali” si avvicinano al Bonvi più narrativo e meno umoristico (sia pure nel segno dell’humour nero che hanno anche le sue creazioni a striscia). Storie brevissime, fulminanti, autoconclusive, che riprendono i modi della grande tradizione del fantastico europeo e di certa fantascienza americana anni ’50 (come The Twilight Zone), con vertiginosi paradossi che rimettono in discussione il reale. Indubbiamente, tra i modelli c’è un autore come Frederic Brown, che del rovesciamento finale in ambito fantastico-fantascientifico aveva fatto il suo marchio di fabbrica; ma qua e là occhieggiano anche rimandi al Ray Bradbudy e all’Isaac Asimov dei racconti brevi, sempre rielaborati con raffinatezza.
Il punto di forza di Bonvi è stato aver saputo calare tali situazioni, appunto, nella riconoscibilissima “provincia” italiana: se anche l’ambientazione è cittadina, è sempre la città piccolo-borghese dell’Italia di quegli anni (in parte riconoscibile ancor oggi, pur nelle trasformazioni intervenute), non quella grandiosa, “americana”, l’eterna New York reale o dissimulata di moltissimo fumetto non solo made in USA. In questo, viene in mente la lezione di Dino Buzzati, che seppe calare (negli stessi anni) il fantastico mitteleuropeo e gothico negli anfratti più oscuri dell’Italia del boom.
E anche in Bonvi, in questa provincia, si apre il portale dell’incubo: in senso anche proprio, perché spesso l’irrompere del fantastico avviene appunto tramite un degenerare del sogno, come nella prima storia con finale guest star di Magnus, L’ora dello schizoide (mentre invece l’ultima delle storie originali, Blackout, era disegnata dall’allievo Silver). Andiamo all’Havana! è invece su soggetto di Guccini, con un cupo lirismo nichilistico che ricorda certa produzione del cantautore ma, al contempo, si amalgama perfettamente con quest’opera bonviana.
Per la prima volta, si aggiungono qui i quattro episodi delle Leggende urbane, le ultime storie realizzate da Bonvi nel 1995, pubblicate postume nel 1996 sul periodico Comix e, secondo lo stesso autore, fedeli allo spirito delle sue storie dell’incubo nella nuova declinazione che andava prendendo piede (in parte, questi temi confluiranno ne La città, altra opera postuma dell’autore per i disegni di Giorgio Cavazzano, edita da Sergio Bonelli Editore nel 1998). L’uomo nudo nasce invece da un reale scherzo goliardico di Bonvi e Guccini, mentre Il successo è una storia metafumettistica come quella di apertura, in cui Bonvi riprende un racconto di Creepy che ironizza sui meccanismi di sfruttamento degli studi fumettistici, volgendolo nel suo personale humour nero.
La riuscita di questi fulminanti racconti gotici è garantita ovviamente anche dall’efficacia incredibile del segno bonviano, coerente con il suo usuale tratto comico anche se con una deformazione umoristica dei personaggi talvolta meno accentuata, alternando pose volutamente cartoonistiche, quando serve a sottolineare un momento grottesco, con uno studio di espressione anche dolente e tragico laddove occorre.
La cura minuziosa negli scenari è l’elemento che più evoca la “provincialità” di questo orrore, che lo rende più vicino e credibile: questa città nebbiosa, mai definita, può essere una qualunque anonima cittadina della Pianura Padana, un ordinario dove però l’orrore sembra veramente dietro l’angolo. L’inchiostrazione gioca magistralmente sui toni del nero, ovviamente, dove il contrasto drammatico di bianchi e neri è mediato, nello stile dell’autore, da un ampio uso delle retinature.
In molti aspetti, con sintesi diversa, Bonvi qui sembra quasi anticipare i temi che esploderanno poi, dal 1986, col successo di Dylan Dog: l’irrompere dell’orrore come incubo, il metafumetto, l’ironia grottesca, il fantastico che si cala in un reale riconoscibile (la Londra di Tiziano Sclavi è spesso, salvo le consuete “cartoline del Big Ben”, una espansione della sua brumosa Pavia). Nel complesso, dunque, un’opera importante e preziosa per riscoprire questa parte rilevante della produzione dell’autore, e del fumetto italiano nel suo complesso.
Abbiamo parlato di:
Incubi di provincia
Bonvi
Rizzoli Lizard, 2020
192 pagine, brossurato, bianco e nero – 18,00 €
ISBN: 9788817149679