Igort è uno dei più importanti autori di fumetti, editore di successo con Coconino prima e Oblomov oggi nonché direttore della storica rivista Linus: intervistarlo è sempre un’occasione speciale, come speciale è l’uscita dell’adattamento cinematografico della sua opera forse più famosa: 5 è il numero perfetto, diretta dallo stesso autore e interpretato da Toni Servillo. Con Igort abbiamo parlato del passaggio dalla carta al grande schermo della sua creatura.
Ben ritrovato Igort e grazie per il suo tempo. Se non le spiace partirei da lontano: quando ideò “5 è il numero perfetto” aveva dei riferimenti cinematografici in mente, e quali?
Molte cose quando lavoro sono inconsce, anzi faccio in modo di controllare sempre meno, man mano che gli anni passano. Io la vedo così, la creazione di una storia, dei disegni di questa storia, è un atto magico, va assecondato senza alcun freno razionale. A me non interessa “citare”, mi interessa usare, se ci sono cose che attraversano la mia visione, cose che ho osservato o studiato negli anni, queste vengono pescate e utilizzate senza remora alcuna. Posso rubare a tutto, perché semplicemente sto seguendo le leggi di una struttura narrativa che prende corpo e chiama le sue parti. Un buon narratore deve solo stare all’ascolto e darsi da fare perché questa forma si compia nella maniera più armoniosa possibile. I riferimenti cinematografici sono quelli che hanno nutrito la mia fantasia e la mia conoscenza per decenni, sino al momento in cui ho cominciato a scrivere e disegnare questa storia. 5 è nata a Tokyo, desideravo raccontare una storia che contenesse ironia e dramma. E volevo ambientarla a Napoli, che mi è sembrata da subito come il teatro naturale per far “danzare“ questi due elementi.
Il progetto di una trasposizione cinematografica, come da prassi, parte da lontano e ci ha messo un po’ per realizzarsi: oltre dodici anni e dieci stesure. Quanto è stato difficile modificare una sua opera per adattarsi ad altri ritmi, ai limiti pratici di una pellicola?
Credo di avere sviluppato una piccola elasticità negli anni. Dato che ho saltato di medium spesso e volentieri. Letteratura, radio, teatro, sceneggiature cinematografiche, musica ecc. La cosa che cerco di fare di solito è misurarmi con il mezzo che sto usando cercando di potenziare al massimo le sue caratteristiche. Qui c’erano gli attori, imparare a lavorare con loro era la sfida più complessa, quella più emozionante, forse. Occorreva capire come funzionano certe dinamiche sul set. Per questo fortunatamente ho potuto contare su validissimi collaboratori. Anche la produzione, devo dire, non si è mai opposta al modo in cui volevo mostrare una certa scena. Ero libero insomma. Per il resto dunque occorreva ricostruire i miei spazi ma più o meno sapevo cosa volevo, come li volevo. Li avevo disegnati. La prima regola era non farsi prendere dal realismo. Perché girando in città sarebbe stata la trappola più pericolosa, ma l’esercizio di astrazione era una ginnastica alla quale sono abituato, la applico spesso, anche nel mio lavoro sui reportage disegnati.
È dovuto scendere a compromessi rispetto al fumetto per dar vita all’adattamento?
Non direi. Ho fatto le cose che volevo e come le volevo. Forse avrei voluto più tempo per girare delle cose dei dettagli, ma era la mia prima esperienza si impara molto sul set. Capisci subito che per esempio, un attore, il suo corpo, la sua presenza fisica sono qualcosa che racconta più che un disegno. O in modo diverso, insomma. E ne tieni conto, istintivamente. Se girerò un altro film ci saranno tanti piccoli incastri che andranno in automatico credo. Ma questo succede dopo ogni esperienza e dopo ogni progetto che porto a compimento, sia che si tratti di fumetto, di musica o di sceneggiatura, si impara sempre qualcosa, è un processo continuo e fortunatamente discoperta.
Come vive questo film, come una estensione dell’opera originaria o come qualcosa di completamente altro, l’occasione per rileggerla con la sensibilità di oggi?
Lo vivo come un film come un’opera a sé stante. Hanno citato altri film che vengono da fumetti, ma con tutto il rispetto, mentre si lavorava si pensava in termini di cinema, i riferimenti anche parlando con i collaboratori erano quelli del cinema (gli schizzi di sangue alla Pekimpah, alla Kubrick). O della pittura. Chiedevo atmosfere alla “Casorati” per gli interni di casa di Rita, metafisiche alla De Chirico per la terrazza, per la Napoli notturna. Hopper per il cinema. Insomma c’era una cultura pittorica che rimbombava tra me e il Direttore della Fotografia. Una palette di colori che somiglia a quella dei miei libri, credo. Per il resto una storia è come un treno contiene tante cose, tante sottostorie, alcune anche meno visibili, ma non per questo meno consistenti.
Non è la sua prima collaborazione con il cinema ma è il suo primo film da regista: crede che lavorare su una sua storia le sia stato più di aiuto, per avere ben saldo il cuore della narrazione, o a volte un po’ limitante per una sorta di “timore” per l’esserne troppo coinvolto?
Mah, troppo coinvolto? L’ho iniziata venticinque anni fa, l’ho pubblicata nel 2002 e ne ho scritto diverse versioni, direi che come la vedo la storia era quello che io, la produzione e Servillo cercavamo da anni. Si parte da una trama, poi si cerca la vita, i frammenti invisibili che si cerca di catturare per dare umanità e spessore ai personaggi. Essere coinvolti è importante per non fare le cose in modo meccanico. È fondamentale direi. Essere troppo coinvolti dipende anche da cose impalpabili, il temperamento per esempio. Quando scrivo io parto da una tabula rasa, cerco di non avere preconcetti o pregiudizi di sorta. Devo sentire l’anima della storia, del suo racconto.
Fin dall’inizio era deciso che sarebbe stato lei il regista o c’erano altri piani? E’ stata una tua volontà o l’idea è nata con il tempo?
È una lunga storia di dodici anni: opzioni, altrettante produzioni, molti registi e molti attori. Toni mi telefonò il giorno dopo il nostro primo incontro “Lo devi fare tu”, mi disse. Io rifiutai per tanti anni, lo volevo scrivere, Non volevo sottostare ai ritmi pazzeschi del set, Poi dopo tredici anni ho preso la decisione di farlo ed è avvenuto, ho scoperto che le decisioni a tamburo battente erano possibili, che forse sapevo dove volevo andare.
Vedere le prime immagini di Toni Servillo nei panni di Lo Cicero è stato veramente folgorante per me come lettore: che effetto le ha fatto veder prender “vita” un suo personaggio?
Mi ha commosso.
Come avete lavorato con Servillo sull’interpretazione del protagonista? Cosa ha aggiunto di suo all’idea del personaggio?
Sono cose indicibili, come in un balletto, come lo descrivi? Toni ha rubato certe posizioni dalla mimica del fumetto e le ha fatte sue, ci ha messo la sua anima, che era molto affine a quei rovelli del personaggio che ha amato sin dalla prima lettura. Lavorare con un grande attore, con dei grandi attori, ti cambia la percezione del mondo, ti dice che la sfida può essere anche più ardua. Capisco la febbre dei registi che vivono per fare cinema. È una buona droga e da subito dipendenza La mia posizione da outsider mi concede il lusso di osservare, di pensare, senza fretta. Voglio ancora farlo? Mi è mancato molto il silenzio del mio studio, i miei ritmi, le mie persone care, la mia biblioteca.
Servillo, Golino, Buccirosso e la stessa Forte sono attori di esperienza: come è stato doverli dirigere, ascoltare le loro impressioni sui personaggi, guidarli verso la sua visione?
C’è, nelle cose che si fanno, molto artigianato, io amo questa componente. Si lavora insieme, sorgono le domande e l’autore, la Kodansha me lo ha insegnato, è il biografo del personaggio. Deve sapere dieci per dire due. Dunque sorgevano domande, per esempio Valeria ha chiesto se Rita e Peppino hanno avuto un rapporto intimo dopo che si ritrovano, perché la recitazione cambiava, gli atteggiamenti mutavano, giustamente. Sono cose che devi raccontare senza dirle, nella parte misteriosa del racconto (un leggero affossamento sul materasso e sul cuscino dicono che Peppino ha dormito lì, con lei).
Da musicista, quale fu la colonna sonora che immaginava per il racconto e quanto quella scelta per il film le si avvicina?
La colonna sonora che immaginavo era quella che abbiamo realizzato per il film. Io lavoro con questi musicisti da vent’anni e la sintonia è totale: Rosario Castagnola (D-Ross) e Sarah Tartuffo (Startuffo) suonano con me da tantissimo, nei miei stessi dischi. Sono musicisti abilissimi e versatili, capaci di mettere da parte la tecnica per suonare con il cuore, che è ciò che cercavo.
Poter musicare le scene del fumetto le ha fornito la possibilità di una prospettiva nuova, o di sottolineare in maniera diversa l’atmosfera?
Certo, la musica è racconto, non solo commento.
Il “suono” è un altro elemento che spicca nel fumetto, reso in maniera magistrale: quanto è importante il sonoro per l’adattamento cinematografico? Avete scelto l’audio in presa diretta?
Abbiamo lavorato molto per rendere una sinfonia di suoni, rumori, voci. Svuotando le musiche quando necessario, per creare il cuore pulsante del film.
Napoli nel fumetto ha un ruolo di primo piano: come ha lavorato per rappresentarla come tale anche nel film?
Cercando di rendere Napoli un teatro metafisico, eliminando piazze e monumenti e cercando la Napoli che meglio rappresentasse la casbah criminale fatta di budelli, stradine seminascoste, percorsi segreti che potessero dare una Napoli personale e intima. Per me Napoli era lo specchio dei vuoti interiori del personaggio. Una Napoli che racconta l’essere umano, in questa rappresentazione solitaria, cava, piovosa.
La ricostruzione della città negli anni Settanta: se nel fumetto a volte basta evocare, suggerire, in un film deve essere necessariamente più precisa, definita. Come avete ricreato l’ambientazione?
È stato un lavoro di mesi. Ho lavorato due anni al film. Un anno al solo montaggio.
Ringraziamo Igort per la sua disponibilità.
Le foto sono tratte da 5 è il numero perfetto – Dietro le quinte edito da Oblomov Edizioni. Dalla pagina Facebook dell’editore.
Intervista realizzata via mail a settembre 2019.