“Gli anni migliori”: amarcord alla Livornese

“Gli anni migliori”: amarcord alla Livornese

Stefano Casini torna al fumetto d’autore con un’opera dal sapore biografico che cerca di conservare immagini di un passato che sta scomparendo. L’Italia, gli anni ’70, le donne, l’amore, la vita raccontati in modo efficace puntando tutto, forse troppo, sul proprio vissuto.

Saverio e Max sono due diciassettenni che vivono nella Livorno degli anni ’70. Frequentano la scuola con scarso interesse e con ancor minore motivazione, vivono la loro vita alla giornata come tutti i ragazzi, senza un piano preciso, senza una direzione e senza il sospetto che ne serva una; ma con in testa un solo pensiero che pare consumare ogni momento delle loro esistenze: le donne.

Intorno a loro, persone e personaggi di provincia, dei quali solo a tratti sfiorano le esistenze. C’è il classico scemo del villaggio, c’è il donnaiolo incallito – tanto scostumato quanto affascinante agli occhi tutti – ci sono madri, padri e nonni, i compagni di scuola, le ragazze irraggiungibili, le mogli e via dicendo. Il tutto raccontato nell’arco di un’estate che sembra racchiuderne tante, un’intera stagione della vita che preclude a un cambiamento di percezione, proprio come spesso accade nell’esistenza delle persone.

Proprio tale cambiamento, o meglio il percorso che porta a esso passando per vie imprevedibili e non, ci viene raccontato da uno Stefano Casini che abbiamo imparato a conoscere e ad apprezzare nelle pagine del fumetto di fantascienza Nathan Never pubblicato dall’editore Bonelli, ma che negli anni si è imposto sempre più come autore unico grazie a opere interessanti e molto realistiche come Hasta la victoria, Maschere, Moonlight blues o Di altre storie, di altri eroi.

Gli anni migliori, graphic novel edito da Tunué, rappresenta la sua nuova opera nelle vesti di autore completo, e nelle sue pagine Casini cerca di rievocare luoghi, fatti e persone della sua adolescenza. Un tentativo riuscito pur con qualche pecca, che si fa apprezzare grazie a una ricostruzione efficace che permette al lettore di calarsi all’interno del racconto senza difficoltà.

Punto forte del racconto è sicuramente la sua capacità di riassumere e riprodurre un sentire comune, di rievocare situazioni, dubbi e desideri immutabili nel tempo con chiarezza e semplicità. Siamo dalle parti della (auto)biografia, per cui il volume procede in maniera lineare, senza il ricorso a trucchi narrativi, esponendo i fatti senza desiderio di far polemica, criticare o denunciare, senza sentimentalismi o piagnistei, ma mettendo al centro del racconto numerosi personaggi facili da riconoscere, proprio perché rappresentano persone che ognuno di noi può aver conosciuto – o forse interpretato – nell’arco della propria esistenza.
A partire dal ragazzetto protagonista, imbranato con le donne, egoista e menefreghista come tanti adolescenti ma in fondo dal cuore buono, fino ad arrivare ad adulti che incarnano in pieno una generazione di italiani costituita da gente semplice, di provincia, immersa in una quotidianità fatta di tanti piccoli gesti, abitudini, consuetudini, o dolori. E nelle quasi duecento pagine del volume anche il lettore finisce per diventare senza accorgersene parte di quella stessa normalità.

Oltre agli elementi già citati aiuta molto, in questo, un modo di raccontare che procede per ripetizioni, per piccole aggiunte o variazioni, e che mostrandoci più volte alcune scene chiave non si dilunga o gira a vuoto come potrebbe sembrare a un fruitore superficiale, ma ottiene l’obiettivo di ricreare una realtà fatta di tanti momenti uguali, quella routine che costituisce la vita di una persona comune, nella solo di tanto in tanto si inserisce un elemento di novità o un piccolo passo avanti.

Ed è così, nei quotidiani battibecchi con gli amici, negli incontri successivi con la bella ragazza o con l’amico pescatore, con i pranzi in famiglia, la visita alla nonna o alla vicina, che viene riprodotta la quotidianità, e creata quella ragnatela fatta di piccoli eventi che finisce per invischiare il lettore, rendendolo di fatto parte di una famiglia comune, fatta a imitazione di mille altre e non particolarmente seducente, ma che dispiace dover abbandonare nell’ultima pagina.

Un simile discorso sulla ripetizione, nel bene e nel male, si può fare anche per gli eventi narrati, che come è ovvio aspettarsi non si mostrano dirompenti o eccessivamente avventurosi, ma in molti casi rimangono sospesi, rivolti verso un futuro che attende oltre il confine del finale. Cosa normale e scontata, in quanto la vita non segue regole di scrittura.

Va detto però che Gli anni migliori riesce per quanto possibile a unire le esigenze del raccontare la realtà – che è sempre in divenire – con quello di confezionare un prodotto autoconclusivo, che invece necessita di uno svolgimento, di un cuore e di alcuni punti fermi in grado di accontentare il lettore. È così dunque che verso la fine della storia vediamo le varie trame avanzare di un passo, chiudendosi o aprendosi a nuovi futuri. Più che un senso di closure abbiamo dunque una mutazione, un passaggio verso equilibri diversi e forse solo momentanei, ma tra tutti risulta in fin dei conti riuscito il tentativo di Casini di immortalare un momento narrativamente significativo per il proprio protagonista, che provocherà in lui un mutamento e si suppone lo porterà a una diversa consapevolezza. A parte il piacere di vedere chiuse alcune trame, o rivelati alcuni segreti, è proprio questo ultimo elemento a essere il migliore dell’intero progetto, che nello stesso tempo soffre troppo però questa narrazione sommessa, piatta, priva di reali guizzi.

Piacevole anche il fatto che il racconto eviti giudizi di sorta, limitandosi a fornire quelli dei singoli protagonisti – che però non possono e non vogliono essere considerati come metri di paragone universale. Apprezzabili anche i numerosi personaggi di contorno – alcuni dei quali potrei scommettere di aver conosciuto anch’io pur non essendo di quelle parti e di quegli anni – e interessanti i vari ritratti di donna. Ma del resto è chiaro come il vero secondo protagonista del racconto non è Max, al massimo spalla dell’eroe, quanto la Donna stessa, vista in tutte le sue facce sebbene da un punto di vista quasi esclusivamente maschile. Donna che è contemporaneamente madre e amante, angelo o diavolo, primo motore di ogni avventura, irraggiungibile oggetto di desideri proibiti ma anche divinità da adorare.

Non mancano alcune pecche. La maggiore riguarda i dialoghi, sia a livello di costruzione che di scambi narrativi. Se è vero infatti che in generale i testi sono scorrevoli, mai faticosi, mai didascalici nel raccontare,  il tentativo dell’autore di ricreare un parlato comune, quotidiano, è riuscito solo in parte: a momenti in cui si arriva fino a usare il dialetto (in modo molto blando, però, a tratti di maniera) ne corrispondono altri nei quali i personaggi si esprimono in italiano fin troppo corretto, quasi aulico, in certe situazioni troppo forbito per il personaggio che parla. Si ha così un doppio effetto di spaesamento: sarebbe stato allora da preferire un italiano strutturalmente scorretto, perché è quello che più di ogni altra cosa esprime il parlato. Non lo esprime una singola parola in dialetto gettata in mezzo a un dialogo così come non lo esprimono degli scambi di battute – magari messe in bocca ad adolescenti – che sembrano uscite da un albo di Tex.

In generale l’impressione è che si sia voluto usare un linguaggio quanto più chiaro possibile lì dove si aveva paura di essere fraintesi, dove c’era da spiegare o dove il discorso rischiava di farsi lungo; ma chiarezza e desiderio di realismo a volte, come in questo caso, mal si adattano alla convivenza e rischiano di rendere ogni scambio di battute smorto e didascalico.

Desta qualche perplessità anche la voce narrante, un narratore esterno onnisciente che si esprime in terza persona ma che di tanto in tanto si lascia prendere la mano, dimostrandosi anche troppo coinvolto in ciò che descrive. Una voce di comodo, utile ad approfondire e spiegare passaggi che sarebbe stato troppo complesso narrare per vignette, ma che in alcuni momenti serve solo da stampella, che ci fa chiedere da dove spunti fuori, e visti gli slanci emotivi avrebbe dovuto forse diventare direttamente la voce narrante del protagonista.  E probabilmente lo era, visto che nelle primissime pagine si esprime usando un “noi”. In questo caso, avrebbe dovuto rimanere tale.

Parlando di voci e personaggi di comodo, sicuramente lo è quello del pescatore. Figura che arricchisce, diverte, ma che (non volendo?) rivela troppo facilmente la sua natura fin dalla prima apparizione, giunge come ammonitore riguardo i comportamenti da tenere con le donne ma nello stesso tempo offre allegri consigli amorosi e di seduzione come se avesse dimenticato il suo ruolo – se ne ha uno, poi – e compare e scompare a comodo dell’autore. Un personaggio che serve a chiudere qualche cerchio e offre qualche aiuto, ma che rivela in pieno il suo ruolo di deus ex machina entrando e uscendo dalla trama con troppa nonchalance.

Due parole anche sull’ambientazione spaziotemporale, cioè l’Italia, la provincia, il paese di mare, gli anni ’70, nella quale convivono pregi e difetti. Quest’ultimi, però, almeno in un caso neppure attribuibili del tutto all’autore.

Come già detto, è piacevole la rievocazione della quotidianità, e non è da mettere in dubbio che persone, strade, case, luoghi, situazioni ricreate a memoria da Casini siano attinenti e adatte. Pure, l’epoca e il contesto storico vengono descritti solo da un punto di vista da una parte fin troppo piatto, e dall’altra in maniera fin troppo interiorizzata, non venendo condivisi o spiegati al lettore casuale. Anche se alcune frasi di lancio del volume parlano dell’Italia e della politica di quel tempo, del terrorismo, del femminismo, delle lotte sociali e della musica, all’interno della storia questi elementi hanno un ruolo tangente, a volte inesistente, e sono comunque messi in secondo o terzo o ultimo piano rispetto a ciò che all’autore preme raccontare.
Tanto per dire, che ci si trovi negli anni ’70 (cosa quantomai vaga, visto che si tratta di un decennio intero) ci viene solo spiegato fuori dal racconto, e sono necessarie un bel po’ di pagine anche solo per capire in che zona dell’Italia ci troviamo. Accanto a personaggi con un certo valore universale ne abbiamo altri che sono solo macchiette di paese, piacevoli ma fini a loro stesse, e avventure che – come certi sogni – finiscono per divertire più chi le racconta che chi le sente, che a esse non è legato da nulla.

Questo non rappresenta un difetto di per sé, o in toto. Piuttosto, esprime alla perfezione le intenzioni dell’autore, che peraltro ce le ribadisce in fondo all’albo: Casini ha purtroppo raggiunto quel momento in cui ci si accorge che ciò che un tempo consideravamo immutabile, granitico, inossidabile, viene via via eroso dal tempo. Le nostre famiglie, gli amici, gli affetti, le nostre case, le strade, le scuole, i bar, le persone… tutto scompare inevitabilmente, senza che noi si possa far nulla per fermare il processo. Gli anni migliori, dunque, altro non è che un tentativo di fissare (almeno) su carta quelle persone e quei luoghi prima che spariscano del tutto.

Un fumetto che più che al lettore serve al suo autore, frutto di un sentimento e una percezione comunissime, una presa di coscienza uguale per tutti. Ed anche se non ci fosse stato detto esplicitamente, sarebbe comunque facile intuirlo: dal tipo di racconto, ma anche dal vedere che la provincia e i suoi eroi non ci vengono mai “descritti”, ma piuttosto sono “rievocati” in un libro fatto di chissà quante estati compresse in una sola, e nel quale il solo mondo che interessa all’autore è evidentemente il suo, la sua piccola realtà, che poco o nulla aveva a che spartire con terrorismo e femminismo, per i protagonisti argomenti buoni al massimo per scioperare non andando a scuola.

Pure, un lettore casuale che comprasse il volume perché (grazie anche alle frasi di lancio) attirato dalla prospettiva di trovare un ritratto politico e sociale del 1970, o una storia particolarmente significativa e universale nei contenuti, o inserita in precisi contesti – e vi trova invece solo due adolescenti uguali a quelli di oggi, il cui unico pensiero fisso è la donna, o almeno il desiderio di raggiungere una parte di essa – potrebbe rimanerne deluso.
Anche perché quelle che l’autore considera memorie di grande importanza e significato, in realtà sono semplici ricordi personali in alcuni casi privi di mordente, avventure semplici che più o meno tutti abbiamo condiviso, e che non raccontano nulla di nuovo, o di significativo, o di particolarmente interessante, al lettore casuale. Lettore che più che appassionarsi al racconto non può far molto di più che prenderne atto, senza rimanerne troppo impressionato.

Riguardo al segno grafico, si riconosce con piacere lo stile di disegno molto personale che Casini ci ha abituato a vedere – seppure con sottili variazioni – nell’arco degli anni. Dopo un’iniziale tendenza al realismo, trasformata in una ricerca estetica della linea chiara, Casini si è sempre orientato in bilico tra le prime due tendenze, ora favorendone una e ora l’altra, sporcando o ripulendo il segno anche assecondando la materia che si trovava via via a narrare, e sempre però tendendo verso una semplificazione di scuola Milazziana.

Anche ne Gli anni migliori la tendenza è all’essenzialità e all’immediatezza, quasi come se le immagini risorgessero dalla mente come echi di un tempo lontano, da cogliere al volo. In questo senso, utile e centrato l’uso del colore che, a parte in alcune significative e azzeccate eccezioni soprattutto nel finale, stende su tutto una patina fatta di un solo tono, che sembra quasi evocare le sabbie di un ricordo, i fotogrammi di un film in bianco e nero, colori sbiaditi dal tempo.

Segno efficace, sempre molto chiaro e controllato, di certo debitore dalla frequentazione col fumetto popolare durata anni, e che lo ha contagiato con una tendenza alla semplicità e alla chiarezza. Capace di far recitare alla perfezione i propri personaggi, dalla ottima resa per quel che riguarda le anatomie, il tratto non è mai esagerato o grottesco, ma piuttosto sicuro e maturo. È adatto al lavoro svolto, ma, se proprio gli si vuol trovare un difetto, si può dire che parte da una base molto classica ma non particolarmente “potente”, decisa, innovativa e unica. Dunque, almeno per chi scrive, l’eccessiva ricerca della stilizzazione lo gratifica solo a tratti e in alcuni momenti lo spegne, lo rende meno espressivo di quanto potrebbe essere se invece tendesse ad arricchire di più le vignette. Dunque, contrariamente a un Milazzo che proprio nelle poche linee trova la sua forza, Casini sembra offrire di più quando riempie gli spazi vuoti, precisa le forme, dà loro spessore con tratteggi e aggiunte.

Ne Il ritratto di Dorian Gray, Oscar Wilde diceva che l’unico fascino del passato è appunto quello di essere passato. Se tutti noi nostalgici potessimo tornare indietro e rivivere la nostra vita, ne saremmo davvero soddisfatti oppure è solo la nostalgia per la gioventù e le sue scoperte a rendercela apparentemente dolcissima? Forse l’unico modo di essere davvero felici, come nel fumetto In una lontana città di JiroTaniguchi, sarebbe quello di poter tornare indietro conservando la testa che si ha adesso (e forse non basterebbe neppure), in modo da non sprecare le occasioni perse. Ma se lo facessimo, modificheremmo il passato. Dunque a cosa esattamente si riferisce questa nostalgia? Forse al tornare senza pensieri e senza guai, con infinite possibilità davanti, tante porte aperte e rivedendo amici e posti amati?

Una risposta precisa, e univoca, non esiste. Ma, nell’attesa, leggere I giorni migliori può aiutare a capire. E forse a capirci.

Abbiamo parlato di:
Gli anni migliori
Stefano Casini
Tunué, ottobre 2018
176 pagine, cartonato, colori –  € 17,00
ISBN:  9788867903146

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