In occasione del Giorno della Memoria 2020, SPINE Bookstore – nata nel 2014 come libreria temporanea itinerante e poi diventata associazione culturale – ha organizzato una settimana dedicata al tema degli olocausti attraverso la forma d’arte del fumetto e dell’albo illustrato. Dal 27 gennaio al 1° febbraio, la libreria ha proposto una selezione di titoli, dai classici ai più recenti, che nel tempo hanno affrontato le vicende delle persecuzioni etniche e religiose. Durante la settimana sono anche stati organizzati due incontri per approfondirne lo studio e la scrittura.
Il 29 gennaio sono stati ospiti della libreria barese, per un incontro aperto al pubblico, Pietro Scarnera, autore torinese tra i fondatori del portale Graphic News e vincitore del Premio Rivelazione ad Angoulême 2016 con il suo Una stella tranquilla. Ritratto sentimentale di Primo Levi, e Gian Marco De Francisco, disegnatore di Charlotte Salomon. I colori dell’anima edito da BeccoGiallo e tradotto in vari paesi europei.
Il 30 gennaio, a chiusura della settimana, Pietro Scarnera ha incontrato le scuole per parlare e raccontare il suo lavoro. All’incontro, moderato da Sarah Mastrodomenico, cofondatrice di SPINE Bookstore, ha partecipato attivamente la sottoscritta. Risultato della serata uno scambio di riflessioni, opinioni e sentimenti sul tema degli olocausti e della loro rappresentazione nell’arte fumettistica, in particolare nel lavoro di Scarnera e De Francisco.
D’uopo partire con il chiedere ai due autori di raccontare la genesi di Una stella tranquilla e Charlotte Salomon.
Gian Marco De Francisco ha raccontato di come Charlotte Salomon sia un personaggio piuttosto sconosciuto nel nostro paese: i suoi lavori, parliamo di circa 1300 disegni, sono conservati quasi interamente ad Amsterdam ed è riconosciuta in Europa come una specie di Anne Frank del disegno. Salomon ha infatti raccontato visivamente, attraverso la sua arte, tutto ciò che è accaduto nella sua vita, le persecuzioni, la Notte dei cristalli, la propaganda di Goebbels, i cartelli che invitavano a boicottare i negozi gestiti da ebrei… “Ammetto che neanche io conoscevo questa storia di una delicatezza pazzesca, un tassello che compone il puzzle di tutte quelle persone che sono scomparse nella Shoah”, ha detto il fumettista.
Pietro Scarnera ha invece raccontato di aver conosciuto Primo Levi a scuola, con la lettura di Se questo è un uomo: “In realtà, il momento in cui ho cominciato a pensare che c’era una storia da raccontare è stato qualche anno dopo; non facevo ancora fumetti però da un fumetto è nato, perché avevo letto Maus e dopo averlo letto mi è venuta la voglia di approfondire l’argomento. Ho ripreso in mano il libro di Levi, ho letto La tregua – che racconta del ritorno da Auschwitz a Torino – e poi ho recuperato tutto ciò che Levi ha scritto, comprese le sue interviste, e ho scoperto una figura che va al di là del nostro tema di oggi. Ma ciò che mi ha colpito è il fatto che Levi abbia delle risposte. Dice delle cose che sono importanti anche per noi oggi, soprattutto ne I sommersi e i salvati, il suo ultimo libro, un saggio che esce nel 1986, ed è il frutto di quarant’anni di riflessioni maturate su quanto Levi apprende negli anni successivi al suo ritorno da Auschwitz”.
Uno dei motivi quindi che sono alla base di Una stella tranquilla è la voglia di creare una specie di introduzione all’opera di Primo Levi, nata dall’amore del fumettista per questo scrittore e pensatore. “L’altro motivo si legge spesso nelle targhe commemorative della Seconda Guerra Mondiale, testimonianze rivolte tra gli altri ai ‘figli dei nostri figli’. Siamo noi quei figli, è la nostra, la mia generazione, quella che, ultima, può avere accesso a una memoria familiare”, ha proseguito Scarnera. “Mio nonno è stato prigioniero in Germania e mi ha raccontato la sua esperienza. Credo che sia molto importante, in questa fase storica, portare avanti il testimone”. Una delle prime recensioni a questo fumetto l’ha scritta una storica, Anna Bravo, che ha compreso qual era l’intento dell’autore: la Bravo sosteneva che accanto ai testimoni oculari, destinati per motivi anagrafici a sparire, servono dei “testimoni mentali” che si assumano la responsabilità di spiegare perché certe cose sono importanti e debbano essere raccontate.
Sarah Mastrodomenico ha poi osservato, rivolgendosi a De Francisco e Scarnera, “i vostri sono libri molto diversi, sia perché i protagonisti hanno avuto percorsi differenti, sia per le scelte che voi autori qui fate dal punto di vista narrativo. Pietro sceglie di raccontare la storia di Levi partendo dal rientro a Torino, invece quella di Gian Marco e Ilaria Ferramosca è un’opera circolare, perché inizia con la fine, ovvero con la consegna dei guazzi da parte del dottore che tiene in cura Charlotte, la cui vita è segnata da dei lutti disastrosi e dagli spettri che la sua famiglia si porta dietro. Questa ragazza, nonostante sia molto giovane, porta con sé un’aura un po’ nera e questa voglia di esprimersi attraverso l’arte molto liberatoria. Tutto questo porta alla realizzazione di Vita? O teatro?, quasi un graphic novel ante litteram, una cronaca di tutto quanto le succedeva con alcuni inserti di fiction. La domanda che vorrei porvi è questa: come avete impostato il lavoro di narrazione?”.
Gian Marco De Francisco, anche facendo le veci di Ferramosca, ha spiegato che la storia da loro raccontata è soprattutto la storia di una vittoria: “Questo è tipico del modo di raccontare di Ilaria, cercare delle chiavi diverse di lettura che non siano il solito raccontare quello che più o meno già sappiamo. E il riferimento alla struttura circolare è particolarmente importante, perché Charlotte riesce a rompere diversi cicli: lei è l’unica donna che riesce a salvarsi dalla propria famiglia, ovvero da una tara genetica che ne colpisce quasi tutte le donne, la depressione, un male poco conosciuto all’epoca, malvisto e poco considerato anche in ambito scientifico e anche nella famiglia di Charlotte, nonostante sia una famiglia colta e abbiente. Il padre è medico, la madre di Charlotte era infermiera e medico era anche il nonno, che a un certo punto emette una specie di sentenza per la nipote: ‘morirai come tua mamma e tua nonna, suicida’, come fosse una specie di dazio da dover pagare. Charlotte invece riesce a vincere con questa catarsi meravigliosa, nonostante anche lei soffra. Si rinchiude in un albergo per due anni e in questi anni racconta tutta la sua vita attraverso un pennello e delle tele, anche quello che avrebbe voluto cambiare (da qui il “teatro” del titolo della sua opera) e ne emerge vincitrice, priva della tentazione del suicidio – se mai l’avesse avuta, visto che mancano riscontri di tentativi. Si sposa, ma, superato il verdetto fatidico del nonno, quello che la ferma è la vita. La vita che, con uno tsunami che colpisce chiunque indistintamente, investe questa piccola e giovane vincitrice”.
La storia che Gian Marco De Francisco e Ilaria Ferramosca vogliono far passare non è quindi solo l’ennesimo racconto sulla Shoah, che viene trattata da Ilaria con grande delicatezza, ma è anche quella di una fumettista ante litteram. Charlotte, infatti, in un’epoca in cui quello figurativo era lo stile prediletto dai nazisti e si sviluppava l’Espressionismo, utilizza qualcosa che oggi daremmo per scontato come i piani sequenza, ma che è in realtà una strategia narrativa che solo un autore italiano, il mastodontico Gianni de Luca, ha avuto il coraggio di adottare anni dopo. Stiamo parlando dei primi del Novecento e Charlotte Salomon, a soli 26 anni, crea il primo ipertesto, ovvero suggerisce dei brani musicali da ascoltare mentre si guardano i suoi quadri. “Io personalmente ne sono innamorato perché è una figura femminile fortissima in un periodo nerissimo”, ha concluso De Francisco.
Pietro Scarnera ha spiegato di non aver voluto raccontare il campo di sterminio, perché è un’operazione già compiuta da Levi stesso, ma ha preferito parlare della parte meno conosciuta dell’intellettuale torinese. “Spesso di Levi si è parlato, soprattutto negli anni scorsi, della sua esperienza ad Auschwitz e del suo suicidio, ma nel mezzo ci sono molte altre cose: il lavoro, la fantascienza… e cercate delle interviste su YouTube, scoprirete come la sua fosse una personalità complessa, ricca, ironica se vogliamo anche molto serena. Io volevo far vedere questa figura nella sua complessità. Una stella tranquilla non è quindi una vera biografia, perché non racconta tutta la vita e non racconta l’uomo. Non ho usato le biografie che ho letto ma solo quello che lui ha detto o scritto di sé. Ad esempio, volevo raccontare perché, nonostante la sua incredibile riservatezza, Levi divenga uno scrittore. Forse non sapete che all’inizio Se questo è un uomo viene rifiutato, Levi ci mette parecchio tempo ad affermarsi, deve aspettare la fine degli anni Settante, e tra l’altro questo avviene prima all’estero che in Italia”. Questa è dunque l’impostazione del libro: si parte dal ritorno da Auschwitz e si segue la vicenda di due ragazzi, uno dei quali è di fatto Scarnera stesso, che seguono le tappe dei suoi libri che sono ben più interessanti della vita di Levi che è stata tutto sommato piuttosto ordinaria.
Ho quindi riflettuto con gli autori sull’importanza dell’arte nei loro due lavori e sulle scelte narrative compiute: “In Charlotte Salomon parliamo di un’artista, quindi i riferimenti ai suoi quadri sono inevitabili, ed è giustamente stata chiamata in causa anche la struttura della tavola di De Luca, che qui non si cita direttamente, perché Gian Marco ripropone le tavole realizzate da Charlotte, così incredibilmente simili a quelle che De Luca avrebbe disegnato molti anni più avanti. Le tavole di Pietro sono molto ariose, con colori tenui, ma le scene in cui si parla dei campi di sterminio sembrano guardare ai dipinti di Zoran Music: cambiano tono, ovviamente per restituire un senso di inquietudine. L’altra cosa che avete già detto è che i vostri sono racconti di due vite normali: non parlate della Shoah ma raccontate le vite di questi personaggi nella loro normalità, e ciò fa riflettere davvero su come le leggi razziali siano entrate a gamba tesa nelle loro vite come nella vita di milioni di persone in Europa: guardare la normalità, la quotidianità delle vite di queste persone fa capire la portata della tragedia. Siete riusciti ad amplificarla raccontandola a latere”.
“C’era un grosso problema nel fare questo fumetto: ovviamente, anche se tutta la vicenda si svolge dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, il tema dello sterminio è sempre presente nella vita di Levi; ma, sinceramente non mi sentivo in grado di disegnare delle scene ambientate nel lager, perché davvero non posso pensare di poter immaginare quello che vedevano e sentivano i prigionieri. Ho preferito quindi limitarmi a cercare di evocare certe sensazioni o stati d’animo”, ha spiegato Scarnera, “Ad esempio, ho immaginato che il giorno del suo ritorno a casa Levi si ripulisca un po’ ma sotto gli resta la casacca del campo, perché ‘del veleno di Auscwitzh non ci si libera mai’. Oppure uso i caratteri gotici per rappresentare le voci dei carcerieri che Levi non riusciva a cancellare dalla sua memoria. Uso questa frase di Levi, che diceva che la memoria normale della vita di tutti i giorni era in bianco e nero, mentre quella del campo era a colori. Grazie a una mia amica ho conosciuto Zoran Music, un pittore sloveno che come Levi, ma attraverso il disegno, aveva cominciato già dentro il campo a descrivere quello che vedeva, essenzialmente cadaveri. Ho voluto recuperare nelle mie tavole i riferimenti alle sue opere. Anche lui torna su questi argomenti negli anni Settanta con una serie di dipinti che si intitola Non siamo gli ultimi. Ho pensato che fosse un buon modo per far avere ai lettori una testimonianza diretta del campo, nonostante ovviamente sia una mia rielaborazione, evitando le ormai solite e anche stereotipate immagini che conosciamo dei campi”.
La rappresentazione visiva dei campi, prima ancora che il loro racconto da parte dei sopravvissuti, è devastante. Nella Sinagoga di Pinkas a Praga si trova la mostra permanente dei disegni dei bambini di Terezin del biennio 1942-1944. Theresienstadt, a sessanta chilometri da Praga, venne incorporata nel 1938 dalla Germania nazista e divenne un campo di concentramento. Nel campo furono internati anche molti bambini, all’incirca 10.000, di cui la maggior parte sotto l’età dei quindici anni. All’interno del campo vennero organizzate delle “lezioni” dagli stessi detenuti. Tra gli insegnanti, l’artista Friedl Dicker-Brandeis fece disegnare i bambini e conservò i quattromila fogli che vennero ritrovati dieci anni dopo la sua morte ad Auschwitz. Sono disegni agghiaccianti, anche perché privi di filtri. È solo vagamente possibile immaginare da questi disegni cosa i sopravvissuti possano essersi portati dentro e abbiano potuto tramandare ai propri familiari in fatto di traumi insanabili.
“Una sintesi che mi piace molto è ‘la narrazione è l’ultima forma di resistenza’. Potevano solo raccontare quanto capitava loro”, ha proseguito De Francisco. E ha ancora puntualizzato: “Sono leggermente contrario al termine ‘memoria’ perché tende a dare un effetto di dover celebrare, marmorizzare qualcosa, come se bastasse visitare una statua. Mi piace parlare di fumetto per la consapevolezza, perché è arrivato uno tsunami, qualcosa che non puoi fermare, e questo è accaduto col nazismo quando ormai aveva preso piede. Ma c’erano tutte le avvisaglie, dei segnali che sono stati oggetto di indifferenza fino a quando non era più possibile non vedere. C’è una frase bellissima che Ilaria Ferramosca riprende dai testi di Charlotte Salomon. Il padre di Charlotte si era risposato con un soprano molto famoso all’epoca, quindi tutta l’intellighenzia e la borghesia berlinese era lì: attori, scienziati, ebrei importanti, tutti frequentavano il salotto buono di Paulina Lindberg. Lei alla fine della sua festa di compleanno fa una battuta, e siamo agli inizi degli anni Venti: ‘da noi non attecchirà mai una simile barbarie [parliamo del nazionalsocialismo, n.d.r.], siamo una società troppo evoluta’. Chi aveva cultura ha sottovalutato quanto stava accadendo. Trovo dei richiami con la nostra attualità che mi danno i brividi. In uno dei disegni di Salomon si legge la frase ‘prima i tedeschi’. La storia di Charlotte restituisce una consapevolezza, ci costringe a domandarci: potrebbe riaccadere? Non nelle stesse forme probabilmente, ma chissà magari anche peggio. Il pericolo all’epoca erano gli ebrei, oggi potrebbe essere un ragazzo nigeriano: è sempre l’altro il pericolo. Allora non nella memoria, ma nella consapevolezza sta il senso del nostro fumetto”.
Quest’ultima osservazione di De Francisco mi ha fatto tornare alla mente un cortometraggio poco conosciuto di Ettore Scola, 1943-1997, proiettato alcuni anni fa al Quirinale in occasione delle celebrazioni per il Giorno della Memoria. Inizia in bianco e nero, in via del Portico D’Ottava, nel ghetto di Roma: siamo nel 1943. Intere famiglie vengono trascinate dai soldati verso i camion delle SS. Un bambino scappa nei vicoli, fino a scomparire in un portone, l’ingresso di un cinema. Sullo schermo scorrono le immagini di un cinegiornale e poi di molti capolavori della storia del cinema, fino ai giorni nostri. Alla fine della proiezione si riaccende la luce: siamo nel 1997. Quel ragazzo in fuga è ora un anziano signore, commosso. Si volta e vede entrare un giovane di colore che si rifugia trafelato nella sala. Il vecchio ebreo e l’extracomunitario si guardano. Il vecchio sorride e il migrante ricambia. Lo schermo si riaccende con la scritta “fine”. È la storia che si ripete molti anni dopo. Del resto, basti pensare ai kwaliso in Corea del Nord, ai laogai cinesi, alle colonie penali australiane e all’inferno libico, sino ai muri alzati ai confini degli Stati Uniti d’America per avere consapevolezza che l’orrore non è finito settant’anni fa.
“Tra qualche anno chi racconterà quello che accade nei nostri giorni non potrà non porsi la domanda: come è potuto accadere? Il fatto è che è facile non dare un volto a una massa. I libri come i nostri, come quelli di tanti altri bravissimi colleghi, hanno un merito: ridanno la dignità di un nome che viene estrapolata e tolta da una sequenza di numeri, da una stella, da una divisa. Se non hai un nome è facile non venire coinvolti. Questo è il valore dei piccoli tasselli che devono essere raccontati”, ha commentato Gian Marco De Francisco.
Sarah Mastrodomenico ha avviato a conclusione l’incontro: “Credo le parole di Levi che Pietro riporta nel suo libro, riassumano benissimo quanto abbiamo discusso stasera: ‘Forse quello che è avvenuto non si deve comprendere, perché comprendere significa in qualche modo giustificare, ma se comprendere è impossibile, conoscere è necessario perché ciò che è accaduto può ritornare’”.
“Quando prima dicevo che Levi dava delle risposte mi riferivo a questo: quando gli chiedono come sia stato possibile, una delle cause a cui lui dà più importanza sono i mezzi di comunicazione di massa. Allora per la prima volta radio e cine giornali venivano usati in maniera efficace. E oggi abbiamo un parallelo con quanto avviene con i social network e la possibilità di diffondere notizie false o inesatte”, ha proseguito Scarnera. “Un’altra cosa che sosteneva Levi, ed è quasi sconvolgente pensarci ora, abituati a una certa retorica circa lo sterminio degli ebrei, è che la distinzione tra buoni e cattivi scricchiola molto. Levi passa la vita a chiedersi se non sia sopravvissuto grazie alla morte di qualcun altro. L’invito, secondo me, è a guardarsi dentro, pensare che la minaccia viene da dentro e non da fuori. Spesso nel Giorno della Memoria mi è capitato di sentire parlare di minacce, che sempre vengono dall’esterno. Che sia l’ISIS oppure i fascisti, che – per carità – sono una minaccia, credo che il punto sia il modo in cui noi reagiamo. In Germania, ai tempi, sapevano che stava succedendo qualcosa di sbagliato ma non ne hanno voluto sapere, perché faceva male pensarci. E oggi ho il dubbio che qualcosa di simile avvenga con i migranti, ‘che sono tristi, poveracci e io non ci voglio pensare’. Questo atteggiamento è un primo passo verso la disfatta”.
Per concludere, su invito di Pietro Scarnera, è stato proiettato il video che vi proponiamo qui di seguito: un’intervista a Primo Levi in cui spiega in pochi minuti cos’è il fascismo e come si arriva ai campi di sterminio.
Si ringrazia Davide Grilli per il supporto nella sbobinatura della registrazione audio dell’incontro.