Ghost in the Shell: la Rete non è più una terra promessa

Ghost in the Shell: la Rete non è più una terra promessa

Rupert Sanders trasforma il cyberpunk di Masamune Shirow e Mamoru Oshii nella ricerca di identità e integrazione in un mondo senza utopie né speranze.

Corridoio, barella che corre spinta da personale in camice con strani visori. Grida concitate. Corpo compromesso, funzioni cerebrali attive. Estrazione del cervello, inserimento in una struttura cibernetica. Immersione in una vasca, crescita del corpo, emersione. Uscita dal liquido, nascita, aria, difficoltà di respirazione. Voce.
Ragazza, salvata da un attacco terroristico dove sono morti i suoi genitori. Ora è il Maggiore Mira Killian, aggregata alla Sezione 9, a caccia degli assassini. Durante i giorni, immagini affiorano improvvise alla mente del Maggiore, mentre i suoi ricordi restano nebulosi.

Plumbeo, cupo, monocorde, senza strizzatine d’occhio o battute sdrammatizzanti, il Ghost in the Shell di Rupert Sanders segue l’indagine di Mira Killian che poco a poco si trasforma nella ricerca di sé e del proprio passato.

“Non sono i ricordi a definire chi siamo, ma ciò che facciamo”

Questo il mantra del racconto: non legarsi al passato, essere consapevoli della possibilità di scegliere la propria identità, assumersi la responsabilità di quella scelta del chi siamo, che cosa facciamo), separare la volontà altrui dalla propria. Il peso del passato è anche catena con la quale altri manovrano la nostra vita. Un falso racconto, odio costruito, valori distorti grazie al possesso delle radici della nostra identità. L’evoluzione della macchina che elabora direttive (A.I.) è un costrutto cibernetico che accetta una Missione in nome di un’identità e di una memoria.

Per realizzare una simile arma, serve dotarlo di un’anima.
Questa l’idea al cuore del progetto della Professoressa Ouelet, che lo sviluppa per la Hanka Robotics, un conglomerato industriale che partecipa al Governo (il suo proprietario/CEO, Cutter, sembra far parte di un Ministero).

Il rapporto fra la Professoressa Ouelet e Mira Killian nasce e cresce in un’area ambigua: la Professoressa offre al Maggiore qualcosa che sembra affetto materno; cionondimeno è pienamente responsabile e consapevole di tutto il dolore (e orrore) che il suo progetto ha causato. La stessa scelta finale nei confronti di Killian si nutre di questa miscela di ambizione, senso di proprietà e protezione nei suoi confronti. È lei che costantemente ripete al Maggiore che si è ciò che le nostre azioni dicono che siamo, non ciò che vediamo nel nostro ricordo. Ouelet è senza dubbio il personaggio più complesso, che la caratterizzazione di Juliette Binoche (le emozioni che filtrano attraverso il volto, prima ancora che attraverso le parole) riesce a far vivere, evitandone la riduzione a stereotipo.

Tuttavia, per Mira Killian il passato esercita un’attrazione irresistibile, che l’indagine e l’incontro con Kuze, il responsabile di una serie di omicidi di ricercatori della Hanka, non fa che rendere sempre più intensa e dolorosa. In questo senso, viene da dire, siamo più dalle parti di Philip Dick che di Shirow Masamune e a questo punto, come spettatori, merita assumere la prospettiva proposta dal mantra del film: “non farsi legare dal passato” è infatti anche l’atteggiamento opportuno per confrontarsi con quest’opera.

C’era una volta Ghost in the Shell

Primo piano di Kuze, l’antagonista (?) del Maggiore Killian.

Ghost in the Shell è titolo di culto nella narrativa cyberpunk: prima manga scritto da Shirow Masamune (1991), poi lungometraggio animato (1995) firmato da Oshii Mamoru e caratterizzato dalle fascinose musiche di Kenji Kawai. Oggi è anche un live action di alto budget, co-prodotto da Dreamworks, diretto da Rupert Sanders, sceneggiato da Jamie Moss, William Wheeler, e con un cast di attori di fascia superiore, da Scarlett Johansson a Juliette Binoche, passando per Takeshi “beat” Kitano.

Il film di Sanders è di fatto una trasposizione del lavoro di Oshii, del quale riprende intere sequenze (e qui viene in mente l’operazione condotta da Gus Van Sant con lo Psycho di Hitchcock) ma rispetto al quale sceglie una diversa tematica centrale. Se nel film del 1997 il racconto ruotava intorno alla possibilità di autoconsapevolezza dei sistemi informatici diffusi (la possibilità di un’altra vita in un mondo telematico), qui il centro è la ricerca e manipolazione dell’identità personale e di integrazione nel mondo “così com’è”.

Sanders sceglie anche una narrazione molto focalizzata e lineare, nella quale l’enigma centrale è risolto come in un semplice mistery e la scelta finale del Maggiore è quella di restare nella realtà ordinaria e di non rifugiarsi/fuggire nella Rete.

A restare oscuro, invece, è il contesto della vicenda che ruota intorno alla costruzione del Maggiore Mira Killian: di fatto, l’obiettivo finale, la visione che guida il progetto della Hanka Robotics e della Professoressa Ouelet restano lasciati alla nostra immaginazione. Tutto quello che il racconto ci dice è che forse la compagnia e la Professoressa avevano addirittura due obiettivi differenti; che la prima mirava a macchine efficienti, la seconda a qualcosa di diverso, ma che cosa fosse e perché non viene rivelato.

Non chiarita, ma pesantemente allusa, è la natura violenta della struttura di potere vigente, divisa in bande, partecipata dai conglomerati industriali e che agisce con i metodi tipici dei regimi senza contropoteri (Aramaki stesso – interpretato da Kitano – agisce sostanzialmente come un quadro operativo di un’organizzazione criminale). Un potere che domina lo spazio fisico e, tramite il coinvolgimento nella tecnologia dei potenziamenti, i corpi.

“Live Action”: città virtuali

“Live action” è espressione che ormai è venuta a sostituire l’italica “film dal vivo” e indica film nei quali recitano attori umani. In questo senso, Ghost in the Shell mostra quanto il nostro ambiente antropizzato sia di fatto un live action: la definizione degli spazi urbani consiste al fondo sempre e comunque nella sovrapposizione di uno strato di realtà “artificiale” al substrato “naturale”. La città nella quale si svolge Ghost in the Shell è in questo senso semplicemente una versione potenziata delle ordinarie città umane (dove “ordinarie” è un aggettivo che dovrebbe riuscire a coprire qualcosa che va dalla cittadina alla megalopoli). Più precisamente: è una versione amplificata della gamma di antropizzazione applicata all’ambiente, poiché in essa convivono le meraviglie tecnologiche della realtà aumentata e le baraccopoli.

Frankenstein, ovvero l’imbarazzo del corpo

Whitewashing. Si è tanto parlato di sbiancamento: ma chi ne ha scritto, ha per caso visto l’anime? Qui un primo piano della Motoko Kusanagi di Oshii.

Attraverso il Maggiore Killian (grazie all’interpretazione di Scarlett Johansson) Ghost in the Shell mette in scena l’imbarazzo del corpo. Il Maggiore si muove con goffaggine nei gesti quotidiani e diventa agile nei combattimenti, mettendo in scena la difficoltà di convivenza fra il suo Ghost e il corpo, la tensione fra il suo essere progettata come arma (si badi bene: “arma”, non “soldato”) e il suo vivere anche al di fuori dei combattimenti. Che cosa mai può fare un’arma, quale mai può essere il suo posto, quando non combatte?

Di fatto, il suo spirito “usa” e non “vive” quel corpo, lo getta nella lotta come se fosse infinitamente riparabile, come un accessorio intercambiabile. All’inizio vediamo il suo corpo costruirsi e condensarsi nella vasca amniotica; durante il racconto lo vediamo perdere pezzi, smembrarsi, lo vediamo ricostruito, riassemblato. È un oggetto, un esoscheletro, un veicolo per un’anima. È rappresentazione del dualismo corpo- mente.

Quando la Professoressa Ouelet avverte Killian: “Non sei indistruttibile“, la risposta del maggiore è “La prossima volta potrai progettarmi migliore1. Siamo a Frankenstein e la sua creatura, al disadattamento totale fra essere vivente e ambiente.

La Professoressa forse ama Killian più di quanto il Dottor Frankenstein amasse la sua creatura (lasciata addirittura senza nome)? Impossibile da sapere. Vediamo ciò che la Professoressa fa, non conosciamo i suoi pensieri, laddove invece lei dichiara di conoscere alla perfezione quelli di Killian. Questo Ghost in the Shell è il racconto del recupero della propria umanità, un’umanità che richiede di superare il dualismo mente-corpo. Questo Ghost in the Shell racconta come Mira Kilian ritrovi Motoko Kusanagi e torni umana. La Kusanagi di Sanders non crede nella Terra Promessa della Connessione Infinita, nella fluidità e incorporeità della Rete. Kusanagi resta nel mondo, sporco, violento e ingiusto a combattere. Awakening, “Risveglio” è il titolo del brano sul quale scorrono i titoli di coda: è il risveglio di Motoko Kusanagi, non più costrutto tecnologico potenziato, ma essere umano, responsabile delle proprie azioni.

Fine dell’utopia: non più speranza, solo adattamento

Tutti intorno a me sono connessi”, riflette a un certo punto Killian: il Ghost in the Shell del 2017 parte in fondo da questa considerazione, che riguarda il nostro presente ancor prima che quello del racconto. I venti anni intercorsi dal film di Oshii hanno esaurito la carica utopica della Rete.

Se la Kusanagi di Shirow e Oshii dichiarava “La rete è così vasta”, indicando come il termine delle avventure vissute fosse un passaggio a un’altra realtà, ricca di promesse e speranze, quella di Sanders, Moss, Wheeler e Kruger è consapevole che Rete e connessioni sono strutture che semplicemente replicano gli stessi rapporti di potere (cioè controllo), aggiungendo un ulteriore livello di capillarità.

Quello che oggettivamente manca al racconto del 2017 è quindi la speranza, l’allusione alla possibilità di un mondo diverso e migliore. Dichiarando la Rete come semplice estensione quantitativa del mondo fisico, quindi, la Kusanagi di Sanders, Moss, Wheeler e Kruger accetta il mondo fisico come l’unico possibile. Se vogliamo, la Kusanagi di Shirow e Oshii rispecchiava un’idea di mondo in evoluzione, un mondo aperto a nuove possibilità; quella di oggi cerca di integrarsi in un mondo chiuso. Rassegnazione?
Con la speranza, sono venuti meno anche il fascino e la suggestione. E questo è il retrogusto amaro e freddo che lascia il racconto di oggi.

Abbiamo parlato di:
Ghost in the Shell
Regia: Rupert Sanders
Sceneggiatura: Jamie Moss, William Wheeler, Ehren Kruger
Dreamworks, Reliance, Arad Production, Shangai Film Group Corporations, Huahua Media, 2017


  1. “The next time you can design me better”, che significa tanto “La prossima volta potrai progettarmi meglio” –- notazione alle capacità della Professoressa – e “La prossima volta potrai progettarmi migliore” – aspirazione del Maggiore a qualcosa di più. 

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