Post-it: Dire poco è dire molto

Post-it: Dire poco è dire molto

Proprio qualche tempo fa ho avuto occasione di parlare di una grande opera di Chester Brown purtroppo in parte dimenticata in Italia: Non mi sei mai piaciuto.
Come avevo avuto modo di osservare, nell’opera Brown introduce una tecnica peculiare di disposizione delle vignette che riutilizzerà poi nella produzione successiva: lasciare (per alcune sequenze) intere pagine vuote, oppure riempite da una, due o al massimo tre vignette, il tutto per dare l’impressione di una narrazione frammentaria, tipica del racconto tramite ricordi, oltre che fornire maggiore importanza alle singole scene.
Lungi dal risultare una furbesca operazione per lavorare meno, l’essenzialità formale e grafica di Brown ha fatto ormai scuola.

Avevo già spiegato che in questa rubrica, Post-it, avrei presentato alcune considerazioni e analisi “grammaticali” di tavole a fumetti e sequenze, spunti grafici o narrativi, o divagazioni sul mezzo-fumetto in generale, non tanto per arrivare a tirare delle somme, quanto per evidenziare alcuni spunti da tenere appiccicati su un grande muro… Ché non si sa mai che possano tornare utili a qualcuno!

L’opera, e il passaggio scelto in particolare, mostra un’innaturale isolamento emotivo del protagonista, oltre a una sua incapacità di relazione, che nascondono invece un animo ben più sensibile. La grande padronanza del mezzo è dimostrata da Brown proprio nell’aver scelto una via in apparenza semplice, ma in realtà molto difficoltosa: l’autore ha selezionato chirurgicamente alcuni episodi e li ha narrati in maniera così scarna da risultare più iconica di interi romanzi da migliaia di pagine d’introspezione psicologica.
La “lezione” dunque è dire poco dicendo molto.
Di seguito il passaggio oggetto d’analisi, un esempio brillante, ma non di certo l’unico, all’interno di Non mi sei mai piaciuto:

Vignette tratte da “non mi sei mai piaciuto”

La devastante sequenza di vignette che vedete in alto, con la sua costruzione certosina, arriva al lettore come una coltellata e gli permette, senza molte parole, un’immedesimazione totale con l’autore tramite spunti grafici essenziali, tagliati con l’accetta.
Abbiamo un protagonista immobile, che resta impassibile e perfettamente immutato per tutta la sequenza, nulla sembra toccarlo nel suo chiaro atteggiamento di chiusura assoluta, dato dalla tipica posizione con ginocchia raccolte, rafforzata graniticamente dalle braccia serratamente incrociate a sorreggere gli arti inferiori.

Eppure, nonostante un’apparente impassibilità, nessuno di noi riuscirebbe a non notare l’espressione di disagio del protagonista, la sua vena contrita, il suo malessere, la palpabile reazione nel sentirsi inadatto mentre la madre gli chiede un po’ d’amore; il tutto smonta la presunta apatia dell’autore.

La costruzione della scena è inoltre accresciuta dagli sfondi, totalmente neri, un colore che non promette certo nulla di buono e non trasmette positività, comunicando l’assoluta solitudine del protagonista, posto al centro di vignette private di qualsivoglia fondale: Chester è condannato ad essere unico protagonista della scena, totalmente in disparte e chiuso come una monade.

Ulteriore rafforzamento di questa problematica alienazione è certamente dato dalla voce fuori campo della madre di Chester, che non viene mai mostrata fisicamente in questa sequenza.
Le sue parole sembrano provenire da un altro mondo, un universo immateriale che non comunica mai con quello dell’autore, allontanandolo ulteriormente: non c’è mai incontro.
Ciò che lei dice, che chiunque si aspetterebbe esser detto da una madre, e che in nessun caso potrebbero giustificare una simile stratificazione di malessere, cozza appunto con l’intera scena, che non dà sollievo ad un lettore che si sarebbe atteso una reazione totalmente differente da parte di Chester, creando uno iato incolmabile anche col lettore, che l’autore non riuscirà mai più a riempire.