Mercurio Loi e l'insostenibile leggerezza delle scelte

Mercurio Loi e l’insostenibile leggerezza delle scelte

Mi ritrovo, fra l’una e l’altra delle mie “passeggiate” fumettistiche, a lasciarmi distrarre da Mercurio Loi – A passeggio per Roma, colpito dalla seduzione che l’albo firmato dalla penna di Alessandro Bilotta e disegnato dal sublime Sergio Ponchione promette: una storia di scelte e bivi in cui il peso della volontà del lettore è preponderante.

Ho imboccato sardonico questo vicolo, senza dar troppo credito alla promessa, ché non avrei mai creduto che Bilotta potesse far quel che ha fatto in novantatré pagine. E alla fine sono rimasto beffato, proprio come Mercurio Loi, sicuro delle sue certezze e poi ingannato, crede che Flavio (l’assistente del suo vecchio maestro) sia uno sprovveduto.
Sono stato anch’io vittima di un sapiente illusionista.

In questa storia di bivi e riflessioni sulla scelta e sul caso, nulla viene trascurato. Potrei iniziare il mio discorso – e dunque lo farò – proprio dal mezzo, da due pagine che rappresentano alla perfezione ciò che tenterò di spiegare:

In questa prima tavola viene utilizzata una griglia speculare (e che modo di capovolgere la gabbia Bonelli, uscire dalla prigione e renderla strumento narrativo!) che segna una marcata cesura fra la parte sinistra e quella destra della pagina.
L’avvio delle scene è il medesimo, abbiamo da una parte Mercurio e dall’altra Ottone che si approssimano a una svolta (elemento ricorrente dell’opera), con due individui solo parzialmente visibili ad attendere dietro l’angolo.
Poi ci sono delle folle nelle due scene successive che rappresentano una situazione eguale e contraria, un bel paradosso: innanzitutto protagonisti delle scene sono il vescovo Leone e suo fratello alla gogna, che hanno un aspetto praticamente identico (tanto da essersi scambiati). Anche qui ritorna l’elemento del doppio e dell’ambiguo, fino a far materializzare, poi, durante il racconto, dei veri e propri doppelgänger, una suggestione che imbeve ogni pagina.

Da un lato, nelle ultime due vignette, abbiamo la folla festante su uno sfondo verde, un colore freddo che in questo caso comunica pacatezza, e dall’altro una folla furibonda, su uno sfondo ocra e con note di rosso dei pomodori, come la rabbia degli astanti. Entrambi colori caldi (in contrapposizione, con i toni freddi), a creare però un’altra dualità: il rosso è infatti addirittura complementare del verde, dunque il suo “opposto”, ma allo stesso tempo l’arancio-ocra dello sfondo è contiguo al verde, dunque crea con esso un’armonia e continuità che non stona. Di nuovo ambiguità e di nuovo confusione di forme, nonostante la apparente nettezza della dualità, che si ha rimarcata dalla griglia e dai contenuti speculari delle vignette.

Persino le ombre (sic!), seguendo un senso di lettura da sinistra a destra, sembrano suggerire la parabola ascendente (da un lato) del vescovo, e discendente del malcapitato fratello, il tutto però in una linea di continuità che, non fosse per lo spazio bianco a separar le vignette, sarebbe ancora più evidente. Ed anche qui mi è necessario puntualizzare come questa scelta sia di per sé ambigua: visto lo scambio di persone avvenuto fra il vescovo (ora alla gogna, senza che nessuno lo sappia) e il suo fratello furfante, che veste invece l’abito talare. chi appare codardo ha compiuto in realtà un atto di misericordia.

Nella tavola successiva qui sopra, questa contrapposizione, che nella precedente era stata soprattutto affidata al disegno, viene esasperata stavolta dalla potenza ambigua delle parole: entrambi i personaggi pronunciano le stesse esatte parole, eppure il contesto e il risultato sono totalmente antinomici.
Le frasi sono sentite con estrema sincerità, non sono di circostanza come potrebbero apparire (il santo umile o il colpevole che allontana la responsabilità da sé). I due personaggi dicono ciò che avrebbero detto a parti invertite, come non fosse avvenuto lo scambio (volontario da parte dei due) di persona.
Di nuovo, inoltre, la contiguità di colore, verde e arancio, arancio e giallo, tutto si confonde in un continuum ed è impossibile discernere, dietro l’artificio del caso, il reo dall’innocente.
Con questo espediente Bilotta fa riflettere sull’ambiguità della reazione popolare, su come un’apparenza possa nascondere grande finzione, sull’enorme peso di certe parole che sembrano così scontate. Un santo viene oltraggiato, un furfante viene santificato, e non posso far a meno di notare (come mi è già capitato altrove di recente), di come la cosa sia ironica e ricordi la novella di Ser Ciappelletto di Boccaccio.

È forse proprio questo il momento in cui ci si rende conto di quanto fossero profetici gli ammonimenti di Bilotta nella sua introduzione. Dell’elemento della scelta l’autore evidenzia infatti il relativismo: ciò che appare giusto a chi l’ha compiuta – attraverso una finzione (la scelta stessa in questo caso) –, può apparire sbagliato a chi fa da spettatore:

“Insistiamo nel giudicare l’uomo per le sue idee, ma scrivo e sottolineo l’ovvio quando affermo che dovremmo giudicarlo per i fatti. Quello che pensa e dice (ovvero ciò che dice di pensare) è prodotto da lui stesso, artificio ed emanazione deliberatamente ostentati. Le sue opere, ciò che fa, sono invece sotto gli occhi e il giudizio di altri; sostanza, conferma o smentita della sua natura, sottratte al potere delle parole.”

Dopo la breve sequenza di stasi sopra esposta, ci limitiamo a notare uno dei tanti esempi di narrazione peculiare e duplice, stavolta non parallela, ma bensì intrecciata. Un chiasmo grafico che contrappone interno ed esterno (AB-BA-A), una sorta di ambiente d’illusione, in cui a predominare è il blu, colore dell’interiorità, contro un limpido esterno. In questo momento il protagonista gioca un ruolo inusuale: da attento camminatore si è trasformato in frettolosa vittima degli eventi e del gioco di un illusionista che lo tiene stregato e lo impegna passo dopo passo; all’esterno, smarrita, un’altra vittima di questo gioco, ma paradossalmente più consapevole. Se Mercurio da un lato (in questa fase della storia) ignora l’illusione di cui è rimasto vittima, credendo di poter compiere delle scelte libere e di potersi “distrarre” volontariamente durante le sua passeggiate, dall’altro abbiamo un personaggio totalmente passivo che ha compreso la beffa, sa di essere parte di un circolo vizioso ed è quindi molto più vicino alla realtà, alla luce.
È chiaro chi sia il colpevole che ha permesso tutto ciò: l’abitudine. È la pigrizia, anche involontaria, ad essere nemica del caso e ad uccidere la libertà di scelta.

Nell’albo, vero e proprio gioiello di metanarrativa, privo di un finale in virtù della sua natura circolare (si badi: non si parla nemmeno di finale aperto, ma di un fumetto inesauribile per cui sta al lettore smettere), Bilotta riflette in maniera originale e lucida sul caso e sulla scelta, nella maniera più materiale possibile. Se si parla di una svolta il lettore vedrà un vero e proprio svincolo, le sue decisioni plasmano il racconto e la strada intrapresa, intesa nel senso più tangibile, è fondamentale.
Bilotta incrocia decisioni, vie, poteri (temporale e spirituale), ideologie, e riesce addirittura a innestare una storia d’amore bruciante e credibile che dura solo sei pagine (come preannunciato dallo stesso Mercurio).

In questo fumetto si parla di bivi certi e netti, alternative secche, ma in realtà tutto si mescola. Il furbo appare cretino, il colpevole è innocente e il santo è un criminale.
Il caso è molto più complesso di quanto sembri – questo pare suggerirci l’autore – e persino un bivio non nasconde mai in sé solo due possibilità, ma molteplici altre.
Una scelta non è mai univoca o unidirezionale: a volte ci porta nello stesso punto che avremmo raggiunto facendo un percorso differente, altre da un’altra parte, altre ancora al punto di partenza, o a volte addirittura indietro.
Un enorme artificio insomma, un racconto che è al tempo stesso estremamente vuoto e pieno di significato, in cui l’ambiguità e la complessità di un’apparente semplicità sono padrone.
È quindi la storia dell’insostenibile leggerezza che governa ogni risoluzione interiore. Einmal ist keinmal, una volta è nessuna volta, e ciò che è accaduto una sola volta è come se non fosse mai accaduto: è questa la natura ambigua delle scelte, la loro irripetibilità le rende al tempo stesso ineluttabili per le nostre esistenze ma anche inconsistenti, insostenibilmente leggere.